Epigrafe di Nietzsche
“Volevo solo essere un mezzo”
L’odore rimasto del sogno dei cani, la masturbazione,
i piedi dispettosi e le tovaglie di lino piegate
nelle credenze, pulite, le manine fredde fredde
che quelle tovaglie di lino hanno piegato, Majakovskij
che urla per farsi notare, una batteria anni 80, sogno
di tangerine, Majakovskij che rimane in silenzio
per farsi notare, e dopo le indecisioni e i piatti
non tolti da tavola, annacquarsi, la noia
custodisce il segreto dei fiori, “Scrivere” disse lei,
“tu non scrivi, io non scrivo, chi è che scrive?”
Majakovskij che si toglie la vita
per farsi notare da Lilja Brik, “Sono troppo astuta
per non perdere tempo a sprecarmi, non ho nessuna intenzione
di prestami modella per le tue fantasie da cane di pavlov”
disse, così bionda, così mora, così dotata di capelli e unghie
(potrebbe essere la mia ombra, o qualcun’altra)
E si alzò sbarellando, svanendo dietro una porta,
aveva scavato la solita buca nel petto (il mio)
e non si curava nemmeno di ricoprirla, così
me ne stavo con il petto aperto
come una serranda rotta che non si chiude,
come un cartello di divieto di sosta crivellato,
ma tutto questo è volontà, è un diagramma,
qualcuno mi appunta mentalmente
come una sequenza di numeri oppure
tiene a mente che inclino la testa
quando ascolto o quella volta, quando – parlando –
mi è partito uno schizzo di saliva, mi capita
con le parole che iniziano con la P - finché
le nostre ombre si fissarono sbigottite
chiedendosi se il riflesso di carne
che si portavano faticosamente appresso
potesse provare delle emozioni, c’è qualcuno
che si alza da un’altra parte del mondo
quando noi cadiamo in sonno
nella nostra piccola regione?
*
Così soffici le mie pupille, liquidamente minerali,
assistono al rientro in città
degli antropofagi della gioia, con le loro bocche
dai minuscoli denti aguzzi, l’apparato
riproduttivo posto all’esterno, riescono
a donarsi polluzioni da ingravidare
successivamente, nella solitudine
di qualsiasi stanza.
Hanno girasoli al posto dei genitali
e trasportano l’aria nel collo della pelliccia, riescono
ad accumulare bolle, per la probabilità chiara
di rimanere chiusi dentro agli ascensori.
*
Sono modelle, sono effimere come una nevicata
sulla strada bagnata – chi insegue a morirne un astratto,
un codice a barre - chi tenta la spiegazione chi pinza
sonniferi alle palpebre per loro, che non pregano
nemmeno per se stesse, così calme, così palladiane,
si muovono pochissimo o non si muovono affatto,
distanti anni luce
da questa mistica
che ci contempla tutti.
*
Tautogramma del mezzo
Parola prendi parte
Parola prostituisciti per purezza
Parola possiedimi platealmente
Parola portami pace portami pane
Pulisci piano pulisci parca
Parola prendi posto
Parola prendo posto
Potami pure
Piangiamo
Partoriamo
Polline
*
Ed ecco ancora la caffettiera annunciare
che il perimetro è stato compiuto - un tempo,
la nazione che eravamo, era governata
da due paia di piedi e un’ombra muniscola
creata dalle nostre quattro mani -
caverna
“Come ti senti?”
“Come?”
“Ti senti?”
*
Scrivere dissi, ecco come mi sento, mi sento
come la scrittura, la morte di anna karina sul divano
mi ricorda che là fuori qualcuno
incendia tutto quello che trova - Fitzcarraldo
è lontano come possono essere lontani
gli anni 80, quindi è in televisione,
e lo guardiamo tutti, io
e la mia ombra, (di chi credevate stessi parlando?)
che riproduce questa scheda:
Fitzcarraldo, Herzog; 1981, è il film di Wolfango Stipetic
lucci divoratori di soldi nell’acqua torbida, figure grottesche,
dall’immaginario germanico, ambientato a manaus –
Fitz carraldo spettrale, fra le palme, biondo,
atterrito, è lui, kinski.
Il tema è l’opera, la passione per il teatro lirico,
fissando l’occhio dell’ ara su una gamba sola –
l’obiettivo costruire un teatro nella giungla,
si ritorna nei luoghi di Aguirre
dieci anni dopo, per costruire un cuore di tenebra
che non sconfini nell’inconscio
ma che dall’inconscio esca,
come una nave lentissima.
Kinski è in bianco, e ha un grammofono come polena
col quale fende l’aria e il fiume pacitea.
Interrompo la mia ombra per farle notare
i curiosi parallelisimi fra questo film
e il primo libro di un autore molto in voga,
ferrovie che terminano interrotte, la fabbrica
di ghiaccio/vetro, costruire qualcosa
in un posto dove nessuno
ha mai osato prima, ma questi sono pettegolezzi,
lo dice anche Majakovskij nella sua lettera d’addio –
odio i pettegolezzi quindi dimenticatevi di me -
finché mi ritrovai per sbaglio
in un appartamento nella zona est della città,
con sagome esili che fumavano sigarette
con il guaranà parlando di monty piton, due ragazze
in pantofole che non incrociano mai
lo sguardo con nessuno e parlano
come se qualcuno avesse strappato loro
il biglietto del treno sul quale stanno viaggiando
– per l’occasione questa stanza, e si alternano
nella cucina fra pentole che ribollono
e domande insidiose sulla frutta di stagione,
su che tipo di antipulci dare ai cani, su lindo
ferretti, finché qualcuna chiede della cosa,
dell’amore, cosa ne penso io e più esattamente
la mia ombra, così affettata sul divano, che incrocia
una gamba e indispettita confabula
con le ombre altrui, e io non parlerò della cosa,
dell’amore, per tutta una serie di motivi
che vanno dalla punta delle tue trecce
fino alla comodità del mio letto vuoto
non te ne parlerò e terrò per me
tutta un’altra serie di prospettive
e ricette segrete che servono
per preparare un buon aperitivo
o riuscirsi ad alzare la mattina
- “l’amore” dici, è una cosa sporca,
è uno specchio, chi ha mai parlato
dell’amore senza poi pentirsene?
(L’amore è cozzare la spalla di qualcuno lungo un marciapiede l’amore è una sigaretta scroccata l’amore sono le iniziali sui fazzoletti l’amore è Tarkowskij davanti a una telecamera l’amore è una donna orizzontale e bianca in un letto d’ospedale orizzontale e bianco da quindici anni orizzontali e bianchi l’amore è una parvenza e così potrebbe essere tua nonna, una costola, dimagrire di quattro chili avere una lisca incastrata in gola per tre giorni di fila e sentirla ad ogni ingoio l’amore è un palazzo della pazienza l’amore è un nubifragio di pantofole è una zecca nel polpaccio di una spia del KGB nel 1983, l’amore può essere Lenin che cambia partito, Mussolini che cambia partito, Majakowskij che lascia urla poesia a teatro, mani grandi e calde sopra tutta questa pelle diresti l’amore è un turco che pronuncia la parola souvenir ma si potrebbe accennare ad un’idea dell’amore, magari, si potrebbe parlare di pigmenti e colori solidi, si potrebbe tentare di descrivere l’amore in cerchi radiali che vertono verso il centro e non toccano mai il punto da cui sono scaturiti, l’amore, questa saponetta profumata, questo modo anche, di parlare dell’amore usando frasi da baci perugina mentre li mangia bukowski, vuoi che ti parlo dell’amore a modo mio?)
(voglio un tentativo)
ecco una ragazza che muove la lingua
e saltiamo le coordinate per arrivare al presunto,
“Ti piaccio?” dice e comincia di nuovo
a muovere la lingua come te, anzi,
come il tuo dito quando raccogli
lo zucchero dalla tazzina “Ti staccherei
la testa e la metterei su un piatto” le ho detto
“Per guardati meglio” mia giovane battista oppure
le nove meno un quarto, lei in piedi – lei è un’altra,
e forse anche io poiché non si mostra mai
la stessa faccia a due persone diverse – insomma
una lei che sbuffa fumo dalla bocca, tre
gradi appena, ha le mani nel cappotto
e tiene gli stivali allineati e aspetta
che io dica qualcosa, faccia qualcosa,
mi mostri interessato poiché ogni organismo
è interessato a lei, e anche io lo sono, vorrei
graffiarle i fianchi, ecco cosa, o morderle
il collo da dietro come i gatti e se mi muovessi
in direzione di questo evento otterrei
lei, con le mani al muro o sulla spalliera
del divano e questa prospettiva
mi accomoderebbe il senso pensandoci (adesso)
mentre lei è qui in piedi, e tutto questo scomparire
capisci, tutto questo consumarci per un’idea,
cosa vuoi, cosa voglio, lei una casa
magari un bambino, dei fiori
io quattro cinghie per legarle gli arti
alle quattro estremità del letto
ma c’è poi differenza? Potrei carezzarti un occhio
o portarti in braccio, c’è qualche differenza?
Il pensiero si dispone come un pezzo
degli scacchi in una partita che passerà
alla storia oppure nemmeno terminerà, mossa
dopo mossa il pensiero si disallinea
o improvvisamente s’accende, abbiamo bisogno
l’una dell’altro per dimostrarci che esistiamo,
la fiamma della sofferenza arde facendoci godere,
cruna del panico, spogliamoci della pelle
e guardiamoci i muscoli, sei un dettaglio
di pelliccia inconsapevole del dolore
che l’ha provocato, io
io sono quello che il dettaglio l’indossa,
cavallo in C5, mi vuoi ancora bene?
Posso usare le dita?
Da te si esce anche o si entra solamente?
Tutto questo ci interessa come ci interessa sapere
cosa farà un’albina il giorno del suo
ventisettesimo compleanno, e ne ridiamo,
ne ridiamo finché non saremo albini,
per poi stupirci di tutto questo spreco, una boccetta
di profumo che cade in terra, casa mia stamattina,
un pasticcino mordicchiato sopra
il termosifone del bagno significa che la festa
è venuta bene, la domanda, qual’era la domanda?
Quando, quando parlerai della cosa, dell’amore?
“Quando riusciremo a scambiarci
il sesso con un amplesso”
dissi, mentre “Traite de bave et d'eternité” (Isou, 1951)
cominciava a saturare gli angoli del televisore,
incalzata dalla mia ombra
ansiosa di prendere appunti.
*
TRATE’ DE BAVE ET D’ETERNITE’
119’
(Francia, 1951, b/n, v.o. con sott. Italiani)
di iIsidore Isou
Opera unica prodotta dall’avanguardia dei Lettristi,
di cui facevano parte, tra gli altri, Guy Debord
e Gil Wollman, all’epoca giovanissimi.
Il film di Isou è il primo film composto interamente
di materiali di repertorio, montati secondo il principio
lettrista della poesia sonora:
film di deriva urbana attraverso
le strade di Parigi, manifesto del Cinema Discrepante
che vuole separate le immagini dalle parole,
opera antropofaga che si nutre di se stessa,
e si compie nel suo farsi.
Chi è Isidore Isou?
(Chi è Breton?)
“Vogliamo il nuovo, vogliamo Isou”, gridavano
i lettristi ai surrealistri, sfidandoli
sul proprio territorio di innovatori/distruttori.
Isidore Isou, nato in Romania, emigrato
a Parigi, aveva tutta una serie di idee
ben definite per smontare
tutto lo smontabile dell’arte. Isou
non vede un quadro, vede dei colori e una tela.
Non vede sculture, vede del marmo.
Il suo approccio era di carattere chirurgico, isolava
gli elementi e dove erano regole lui
le contrapponeva, cancellava, sovrapponeva,
macchiava, bruciava, guastava, cesellava.
L’archetipo che voleva immagine
e suono associate, veniva destituito. Il testo
prendeva funzione portante e non seguiva più
le immagini, che venivano relegate al ruolo
di sfondo, Isou non si sforza nemmeno
di crearne di nuove, utilizzando vecchie pellicole,
graffiandole con degli scarabocchi, cancellando
i volti dell persone. In TRAITE’ DE BAVE ET D'ETERNITE’
si sente la sua voce che parla ad un comizio,
e alle parole di Isou fanno da contrappunto fischi e invettive,
e tutta una serie di domande quali:
“Ma chi si crede di essere?”
“Dove vuole arrivare?”
“Ma quello che sta facendo può ancora
reputarsi cinema secondo lei?”
Isou rispondeva con tono autoritario, si barricava,
diceva cose come:
“Dal momento che lo faccio, è, cinema”
(eccoti il gesto che misura la qualità dell’intenzione)
Anche la letteratura subì le picconate di Isou
che individuò il nemico nella parola, isolandola,
e la distrusse, considerandola sorpassata e limitanta.
Propose dunque l’impiego di un elemento
secondo lui più puro e profondo
di versificazione:
la lettera.
(Tutto questo distruggere
assomiglia molto di più a un gioco
che a una creazione, e il pensiero
corre ai dada e ai surrealisti, e viene
da pensare che quando si applica
la ragione e si vuole dare un senso forzatamente
illuminante a quella che dovrebbe essere
la creazione dell’arte, si finisce per ingabbiarsi
in esecuzioni più simili
al modello dell’enigmistica, e quindi ludiche,
tremendamente distanti dall’innesco artistico.
Esistono i fratelli Karamazov
ed esiste Rimbaud, la parola può essere
iceberg lentissimo o pallottola, tutto questo
non prescinde dalla constatazione di fatto
che si è solo mezzo, filtro, fra parola sognata
e parola scritta, fra immagine vista
e immagine fissata, e il pensiero del paradosso
che da una certa prospettiva tutti
si sia solo un unico paio d’occhi,
intenti a fissarsi il buco del culo così in profondità
finché non ridiventa vista.)