Liberamente ispirato alla mia infanzia in un piccolo paese elbano dei primi anni sessanta...
Serena
Serena aveva otto anni, un caschetto di capelli bruni, due grandi occhi verdi e abitava accanto al mare. Fin da piccola si addormentava alla sua nenia o si svegliava inquieta al suo fracasso, se lui era arrabbiato Non c’erano tanti bambini là intorno e quando non riusciva a trovarne, scendeva sulla spiaggia, da sola, a cercare la compagnia delle onde.
Ne conosceva i segreti, la voglia di scherzare e si divertiva a sfidarle.
Sapeva che adoravano cancellare quanto scriveva sulla sabbia: spesso vinceva lei, quando loro riuscivano a lambire appena le lettere, ma non arrivavano ad annullare le parole; altre volte, invece, doveva far presto a tracciare i segni, perché, se il vento soffiava forte, quelle non esitavano a bagnare anche lei, prima di ritirarsi soddisfatte.
Serena indugiava a lungo sulla riva a cercare conchiglie, a raccogliere vetrini e solo quando udiva la voce della mamma si scuoteva, si rendeva conto di aver trascorso lì molto tempo e s’avviava a casa.
Era felice d’andare a scuola la mattina, perché così poteva stare con i suoi compagni, leggere, scrivere, ascoltare la maestra Marcella insieme a loro: la sua era una pluriclasse e quando il suo gruppo faceva il dettato, i più piccoli, di seconda, si applicavano al problema o disegnavano. Nell’intervallo era bello poter giocare, scherzare, mangiare in compagnia le fette di pane portate da casa e su cui la mamma aveva sparso un sospiro di burro e marmellata mentre fuori, dai vetri spruzzati di salsedine, le onde giocavano a rincorrersi.
Non le pesava nemmeno farsi a piedi il lungomare per quasi un chilometro: la mamma, all’andata, l’ accompagnava un pezzetto ma poi ritornava a casa perché c’era un fratellino piccolo a cui badare e i nonni che si affidavano a lei. Ma Serena non aveva paura: cartella in mano, fascia colorata tra i capelli, andava lesta lesta verso il paese: del mare conosceva gli umori, come s’era svegliato quella mattina e parlava con lui. Solo quando lo scirocco urlava e l’acqua sbatteva con violenza sulla massicciata della strada, prima di invaderla e poi nuovamente ritirarsi in un’apoteosi di schiuma, Serena sceglieva i campi soprastanti per passare.
Non sempre era sola a percorrere il lungomare: talvolta divideva la strada con Orlandina, una vicina anziana, simpatica, senza figli che, nella bella stagione, andava presto a far la spesa, con la sporta di paglia in mano, per procurarsi le verdure più fresche o il pesce appena pescato.
Alla bambina piaceva molto parlare con lei perché aveva letto tanti libri e tanti ne possedeva: così le raccontava sempre qualche storia nuova e appassionante che la faceva sognare a occhi aperti.
Un giorno Orlandina la invitò a casa a scegliersi un libro: Serena ne era felicissima perché quelli che aveva li conosceva quasi a memoria.
Aveva già letto avventure di terra e di mare, ma ora, che si sentiva più grande, era attratta da storie di bambine o ragazze in cui identificarsi e con cui dividere emozioni e commozioni. Così scelse “Piccole donne” e divenne la quarta sorella di Meg, Jo, Beth, Amy.
In quella casa abitava anche Luigino, il marito di Orlandina, un omimo piccolo e gobbo che pareva uscito da una fiaba e che dimostrava più dei suoi anni.
Camminava poco e male , ma era sempre indaffarato nell’orto e nel giardino.
Quei due vecchi non erano mai diventati nonni, ma solo zii di nipoti che abitavano lontano, a Livorno, così quella bambina divenne la loro beniamina.
Un giorno Serena accompagnò la mamma e il fratellino al barcone “Laura” che li portava al traghetto, in attesa al largo. A Piombino avrebbero preso il treno e raggiunto il babbo a Civitavecchia, dove la sua nave si trovava ai lavori di manutenzione.
Serena era fiera d’avere un babbo marinaio, anche se le pesava la sua mancanza: credeva che lui potesse avere un rapporto privilegiato con il mare, capirlo anche nei suoi momenti meno buoni e amarlo così com’era.
Ora sarebbe stata lei il “capofamiglia”: sarebbe andata a scuola e avrebbe fatto compagnia ai nonni.
La mamma, al ritorno, sicuramente le avrebbe portato un bel regalo, magari una bambola speciale come quella che teneva nel suo lettino, col magnifico vestito bianco d’organza sparso sul cuscino e i bòccoli ben aggiustati sotto il cappello di seta.
Quel pomeriggio, quando i nonni andarono a riposare, giocò un po’ a palla sulla terrazza affacciata alla pineta, ma lo scirocco, dalla mattina, aveva fatto progressi rabbiosi, rovesciando i vasi dei fiori e tormentando gli oleandri e gli ibischi. Stava dunque per rientrare, quando sentì: “Serena, Serena…” . Era Orlandina, la voce concitata, affannata:” Bisogna chiamare il dottore, Luigino sta male…”.
La bambina non si fece pregare, scrisse un biglietto ai nonni, prese il suo cappottino azzurro e via…verso il paese. Il lungomare era, a intermittenza, violentemente colpito dall’urto dell’acqua, che in alcuni punti riusciva a inondare completamente la strada.
Ma non c’era tempo da perdere: Serena questa volta non scelse i campi per passare, affrontò senza indugi l’asfalto, nel momento in cui l’onda si ritirava e, pur bagnandosi un po’, per gli “spolverini” di schiuma, riuscì ad arrivare presto. Bussò all’abitazione del medico: “Presto, c’è Luigino d’Orlandina che sta male…”
“Andiamo subito” rispose il dottore prendendo al volo la sua borsa “vieni con me in macchina! Ma come, sei venuta giù con questo tempo da sola?” Serena annuì e in silenzio seguì l’uomo.
Ora, al sicuro dentro la Seicento, era divertente sentire gli spruzzi sbattere contro il vetro, mentre lei se ne stava all’asciutto, e smise di tremare.
Il dottore, visitato Luigino e prestato il primo soccorso, chiamò un’ambulanza.
“Temo sia un infarto, ma ce la dovrebbe fare, grazie a Serena…”.
Lo sguardo che le rivolse e il pizzicotto sulla guancia che le regalò furono per la bambina il momento più bello di quel giorno.