Ho cinquant’anni ma ne dimostro la metà, un fisico da urlo e ancora stormi d’ammiratori; sono nata nel colmo dell’estate e del resto non poteva che essere così, perché ho sempre pensato al mio corpo caldo e sinuoso come a un campo di grano maturo ondeggiante al sole, pronto a diventare pane da mordere. Ho l’aspetto di una clessidra, per via del mio giro-vita incredibilmente stretto, spalle e fianchi in perfetto equilibrio, fondoschiena perfetto, gambe lunghe da indossatrice. Ero già bella in culla e le foto ingiallite che gelosamente custodisco lo testimoniano; poi gli anni hanno aggiunto fulgore e fascino: una cascata di riccioli bruni i capelli, due smeraldi gli occhi, una fragola da addentare la bocca piccola e piena…
Già all’asilo ero invidiata dalle altre bambine, scialbe e insignificanti al mio confronto: eh, sì! quello con le mie coetanee è sempre stato un rapporto problematico… non ho mai avuto vere amiche: tutte si impegnavano più di me nel gioco e più tardi, a scuola, nelle lezioni e nei compiti; per me invece quelle ore erano una noia mortale, da cui evadevo, quando era possibile, sgattaiolando nel bagno delle maestre, dove potevo guardarmi allo specchio che c’era sopra il lavandino. Anche se facevo le smorfie, incrociavo gli occhi, tiravo fuori la lingua, tutto era inutile: ero sempre incredibilmente bella!
La mamma mi sgridava quando ritornava a casa, dopo il ricevimento dei genitori, perché tutti si lamentavano di me, dicevano che ero distratta, inoperosa, superficiale: secondo me era tutta invidia e malanimo! Chissà cosa avrebbero dato quelle brutte insegnanti per essere così!
“Eleonora, pensa a studiare, la bellezza non conta, non c’è per sempre…non essere vuota come quel dongiovanni di tuo padre, sempre azzimato come un ganimede, sempre dietro le sottane…che ci ha piantato in asso da un giorno all’altro per andarsene con una che potrebbe essere la su’ figliola…” ripeteva mia madre, ma io non riuscivo a concentrarmi.
Ormai ero una ragazza: mi era cresciuto il seno e i ragazzi mi fischiavano dietro sussurrando il mio nome e oscenità varie. Io ne godevo perché era anche questo un omaggio alla mia avvenenza. Ricordo che già allora trascorrevo moltissimo tempo a curare il mio aspetto: dieta, ginnastica, capelli, unghie laccate, eye-liner e rimmel, rossetto e creme di tutti i tipi.
Mamma si disperava che spendevo troppo, che doveva andare a servizio per me, che ero tutta mio padre, che sarei finita male se continuavo così, che era ora che anch’io mi cercassi qualcosa da fare, e via discorrendo.
Io non ci badavo: avevo il mio primo ragazzo da qualche mese e passavamo insieme le ore libere dal suo lavoro. Faceva il meccanico in un’officina poco lontana da casa mia: quando usciva mi passava a prendere e andavamo sul mare, dietro gli scogli, a pomiciare. Se devo essere sincera, non ci trovavo un gran gusto: quella sua lingua sempre dentro la mia bocca, a cercare, a frugare…e poi quello strusciarsi, quell’ ansimare del suo corpo sul mio, rischiando di sciuparmi, di farmi male…
Quando capitava di parlarne con le amiche, mi meravigliavo del loro entusiasmo, della loro voglia di fare l’amore in piena tranquillità, senza il rischio di essere scoperte da qualcuno. Io restavo zitta e loro mi prendevano in giro per il mio silenzio, che interpretavano come pudore. In realtà, non mi sentivo attratta particolarmente dal sesso altrui e dalla sua foga: bastavo a me stessa. Contemplarmi nuda, allo specchio, la sera, nella mia camera, dopo aver chiuso la porta a chiave, era il momento più bello della giornata. Ero Venere, con quei seni pieni e appuntiti, il ventre piatto, il nero rigoglio del pube, la sinuosità delle cosce sode e ferme come colonne di marmo. Questa era la felicità!
Dopo il primo, ne vennero altri di ragazzi, eccome! Attiravo gli sguardi e gli appetiti maschili come il nettare gli insetti: mi vestivo succintamente, stretta dalla cintura che sottolineava l’incredibile sottigliezza della vita e passeggiavo così sul lungomare, col bellimbusto di turno a fianco. Non avevamo grandi argomenti di conversazione: il paese, i pettegolezzi, la moda, i coetanei, la noia dell’inverno, il divertimento dell’estate e soprattutto…la mia bellezza, il mio sex-appeal, trovare un posto dove fare sesso in pace! Eppure facevo solo finta di tenerci: infatti, non solo non mi innamoravo, ma nemmeno mi lasciavo andare ai gesti d’amore, alle carezze via via più insistenti e poi al rapporto vero e proprio, che subivo più che vivere, senza conoscere l’eccitazione crescente di cui favoleggiavano le amiche, il perdersi insieme nella ricerca del piacere e poi finalmente il suo culmine e la sua soddisfazione. Loro dicevano che era fantastico, una di quelle esperienze che rendevano la vita degna d’essere vissuta!
Ma io continuavo invece a pensare ad altro, in quei momenti: un corpo che schiacciava il mio, che mi premeva, che sembrava voler succhiare la mia linfa vitale, la mia bellezza…eh, no, non ci stavo: quella era solo mia, l’ancora di salvezza, la beatitudine.
Così, sebbene fingessi godimenti inesistenti, il partner di turno non ci cascava e mi cominciava a dire che ero sì uno schianto, ma a letto avevo il calore di un pezzo di legno o di un ghiacciolo: insomma si scocciavano e mi mandavano al diavolo.
Io piangevo soltanto per il mio orgoglio ferito e mi consolavo aumentando la dedizione alla mia pelle, ai miei riccioli ed ancheggiando di più nel camminare: solo i fischi d’ammirazione, il sentirmi gridare: “Eleonora sei unica!!!” mi ripagavano di tutto.
Mia madre cercava di aiutarmi, mi propose anche uno psicologo, ma io non ne volevo sapere…
Gli anni passavano: venti, trenta, quaranta… ma per me il tempo sembrava essersi fermato. I miei non c’erano più ed io avevo trovato lavoro da un’estetista: massaggiavo, facevo maschere, depilazioni, toccavo, a volte con ripugnanza, corpi cento volte meno belli del mio e mi chiedevo come potessero vivere serene quelle donne malgrado la loro scarsa avvenenza. Eppure avevano mariti, figli, amanti! Io non avevo niente di tutto questo: piano piano gli uomini si erano allontanati, anche se tutti mi spogliavano con gli occhi, quando passavo superba in sella alla mia bicicletta, e bambini non ne avevo mai voluti. Le gravidanze le avevo sempre evitate: come potevo chiedere al mio corpo da pin-up il sacrificio di quella deformazione? Al mio seno da star l’aberrazione dell’allattamento, col rischio di ragadi e smagliature? Assistevo con ribrezzo alla decadenza fisica di tante coetanee di cui toccavo cosce cellulitiche e ventri rilassati: io, al contrario, la solita linea, che mi permetteva ancora minigonne e pantacollant; i soliti capelli corvini sulle spalle ed un viso che meritava ritratti d’autore…
A casa, la sera, una cena frugale, poca televisione…e poi bagno rilassante, prima dello spettacolo più bello: piazzarmi davanti allo specchio, in tanga e calze di pizzo autoreggenti, reggiseno a balconcino e guardarmi, come una bella statua, come l’essenza dell’armonia, della proporzione! E poi, se qualche blanda eccitazione arrivava, bastavo a me stessa, al mio tocco leggero: un attimo e tutto era finito…senza un altro corpo ad ansimare sul mio, a schiacciarmi, a sciupare la mia bellezza da dea greca.