“E allora perché mi hai fatto nascere?” E’ la frase che mi viene sempre in mente quando devo salutare un amico che si accomiata per il grande viaggio, quello che non ha bisogno del biglietto di ritorno.
Aveva quattro anni Giacomo, mio figlio, quando me la rivolse.
Eravamo al Cavo, nella casa dei nonni sul mare, ed era primavera. Intorno lo splendore di maggio rallegrava il cuore. Stavamo seduti sotto una pergola a due passi dall’acqua e dalle tamerici fiorite ed io avevo appena finito di leggergli una fiaba.
“Mamma, tutti muoiono? Anch’io devo morire?!”
Ruppe così l’incantesimo di quei momenti, quell’ illusione di pienezza vitale, quella momentanea pretesa di immortalità che a volte ci sfiora quando ci sentiamo in armonia con l’ambiente circostante e con noi stessi. Per un attimo mi mancò il fiato: ecco, anche lui sapeva, ne aveva piena coscienza, chissà da quanto ci rimuginava sopra. Non potevo mentirgli: me lo presi in collo, lo abbracciai forte e fingendo naturalezza perché non si accorgesse che la voce mi tremava: “Sì, amore, come i pini, la tartaruga che c’è in giardino…ma tra tanto tanto tempo…”