Nel fiordaliso che modesto spunta
tra il verde d’erba nuova e intenerisce,
ritrovo l’innocenza del cielo mattutino
che offre speranze e sogni accarezzati
a chi alza lo sguardo su di lui, dalla finestra
sorseggiando il primo caffè della giornata.
E nei papaveri che ammiccano spavaldi
dalle ripe e dai campi, in festa già da aprile
catturando gli occhi e l’emozione di chi passa,
leggo l’ardore degli amanti che brucia come
il sole, padrone dell’azzurro, a ferragosto.
Invece, le rose profumano d’antico e di stupore
tingono dei loro petali l’aurora e la memoria
dell’attesa del bello della vita, a quindici anni
quando i pensieri ronzano come api instancabili
e il cuore è miele che si scioglie al minimo tepore.
Eguagliano, le rose, se son bianche,
la soavità d’una cima immacolata
e il candore della neve appena scesa;
ma quelle d’un rosa carico,
frangiato d’arancione
e dall’aroma intenso, penetrante
distillano e declinano l’essenza dell’amore:
le sinfonie mirabili,
le vibrazioni lievi
le sfumature miti
la luce di cristallo
nella dolce mollezza del velluto
nelle punture aspre delle spine
nella bellezza fragile e composta
nell’illusione di breve eternità.