Mauro Scardovelli
Conoscenza e libertà

Titolo Conoscenza e libertà
Autore Mauro Scardovelli
Genere Consapevolezza e crescita personale      
Pubblicata il 25/05/2008
Visite 20622
Punteggio Lettori 30
Editore Liberodiscrivere® associazione culturale edizioni
Collana Aleph  N.  7
ISBN 9788873881728
Pagine 128
Prezzo Libro 11,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788899137618
Prezzo eBook 5,99 €

La conoscenza vi renderà liberi. Ma quale conoscenza?

Socrate, Buddha, Freud non avevano dubbi al riguardo: la conoscenza di sé. Ovvero la conoscenza della natura illusoria della mente condizionata. Diversi erano solo i metodi che proponevano per raggiungerla: la meditazione (il Buddha); la dialettica (Socrate); la psicoanalisi (Freud).

Nessuno di loro ha creduto, neppure per un minuto, che la conoscenza che rende l’uomo libero possa ottenersi con l’apprendimento astratto o meccanico di dati, concetti, teorie. Cioè con quel tipo di conoscenza che ancora oggi viene praticata nella maggioranza delle scuole e dei corsi universitari, e che ha fatto dire ad uno spirito libero come Ivan Illich: “Descolarizziamo la società!”.

1.Conoscenza e libertà
Ignoranza e sofferenza
Negli stessi anni in cui Pitagora pensava di chiudere la saggezza dietro le porte difficilmente accessibili della competenza specifica, un poeta a lui contemporaneo, Teognide, andava mostrando ad un più vasto pubblico come quella saggezza, per quanto quasi inaccessibile, fosse tuttavia indispensabile agli uomini, se non volevano essere preda dell’impotenza, figlia dell’ignoranza:
“Spesso chi crede di provocare un male causa un bene, e chi vuole recare un bene provoca un male:
all’uomo non riesce, allora, di compiere ciò che vuole, ma lo trattengono le barriere della sgradevole impotenza;
perché noi uomini, quando non sappiamo nulla, ci poniamo in mente delle futilità” .
Secondo la filosofia buddista, causa della sofferenza è l’ignoranza, l’ignoranza della vera natura della realtà e della mente.
La conoscenza vi renderà liberi, diceva Socrate. Liberi da che cosa? Da superstizioni, illusioni, legami. Liberi quindi da ciò che ci rende schiavi e sofferenti.
Ma quale conoscenza può sottrarci alla tirannia delle superstizioni interne ed esterne? Freud non aveva dubbi al riguardo: la conoscenza di sé. Rendere conscio l’inconscio, comprendere i nostri moventi nascosti. In caso contrario, noi non siamo padroni di noi stessi, ma sudditi di forze oscure che abitano al nostro interno e governano la nostra vita.
Su questa visione, Buddha, Socrate e Freud concordano. Diversi sono solo i rimedi che propongono: la meditazione (Buddha), la dialettica (Socrate), la psicoanalisi (Freud).
Nessuno di loro ha creduto, neppure per un minuto, che la conoscenza che rende l’uomo libero possa ottenersi con l’apprendimento meccanico di dati, concetti, teorie. Cioè con quel tipo di conoscenza che ancora oggi viene praticata nella maggioranza delle scuole e dei corsi universitari, e che ha fatto dire ad uno spirito libero come Ivan Illich: “Descolarizziamo la società!”.
Non c’è una grande differenza tra le scuole e le fabbriche. Le fabbriche producono in buona parte oggetti non necessari. Le scuole preparano le persone ad asservirsi alle fabbriche. Il proliferare di pensieri superflui si traduce con il tempo in un proliferare di rifiuti materiali che non sappiamo più dove mettere .
Curiosità ed esplorazione
L’uomo è l’animale più curioso che esista, più dei gatti e delle scimmie. E quindi corre sempre il rischio di sconfinare in territori pericolosi. A differenza dei rettili, si annoia a ripetere troppo le stesse cose (fanno eccezione pochi individui, dei quali alcuni particolarmente dotati in questa specialità. Da quando hanno istituito il guinness dei primati, non c’è stranezza in cui non ci sia qualcuno che eccelle, dall’ingoiare lamette da barba a strappare elenchi del telefono). La sua curiosità è connaturata alla dimensione del suo cervello.
Ogni organo, a partire dal livello cellulare, contiene in sé la motivazione ad essere utilizzato e a sviluppare pienamente le sue funzioni. Il cervello non fa eccezione. E il cervello umano è sovradimensionato rispetto alle esigenze del corpo fisico. Mangiare, bere, dormire, fare sesso, non sono azioni sufficienti per impegnarlo. Lo impegna a fondo solo l’esplorazione di ciò che ancora non conosce.
D’altra parte, l’uomo, rispetto ad altri animali, non può certo vantare armi naturali paragonabili, come denti, artigli, potenza muscolare, veleni ecc. Nella lotta per sopravvivere, ha sviluppato soprattutto l’intelligenza, con la quale ha rapidamente rimontato il deficit iniziale. E, secondo alcuni, in questa corsa si è fatto prendere la mano e ha finito per esagerare (è oggetto ancora oggi di dotte discussioni se le bombe atomiche siano davvero necessarie a garantire la nostra sopravvivenza. Nel dubbio, continuiamo a produrne in abbondanza, insieme ad altri marchingegni non meno pericolosi).
Io so di non sapere
Trattando un tema come quello della conoscenza, non può mancare una storia di antica saggezza cinese. Un giorno il figlio di un vecchio contadino tornò a casa tutto contento: aveva trovato un meraviglioso cavallo. Gli abitanti del villaggio, un po’ invidiosi, si complimentarono per la sua fortuna. Ma il vecchio scosse il capo, dicendo: “Non so se è una fortuna”. Poco tempo dopo, il figlio cadde dal cavallo e si ruppe una gamba. I vicini di casa dissero: “Che brutta disgrazia!” Anche questa volta il vecchio disse: “Non lo so”. Una settimana più tardi, i messi dell’imperatore setacciarono la campagna, alla ricerca di nuove leve militari. I giovani che partirono per la guerra, morirono tutti. La caduta da cavallo aveva salvato la vita al figlio del contadino.
“Tutti siamo ignoranti”, diceva Socrate, “io, però, so di non sapere”. Per questo egli si riteneva più sapiente degli altri.
Per ammettere la propria ignoranza e i propri torti, ci vuole umiltà. L’orgoglioso pretende di aver ragione anche quando non sa nulla di un argomento. La prova che ha ragione è una sola: perché lo dice lui.
Molte persone sono orgogliose. Pochissime lo ammettono, perché nonostante l’evidente progresso etico dell’umanità, l’orgoglio, a differenza dell’egoismo , non è ancora considerato una pubblica virtù.
Un padre e una giovane figlia, ormai adulta, litigavano frequentemente. Un giorno il padre condusse la figlia davanti ad una finestra e le chiese: “Fuori sta piovendo o c’è il sole?”. “Non sta piovendo, è tutto asciutto”, rispose la giovane. “Ebbene”, disse il padre, “se io dico che piove, vuol dire che piove!”. “Ma allora a te interessa solo avere ragione?” “Sì”, disse il padre in un momento di verità.
Quella giovane donna ebbe un attimo d’illumina-zione, la luce della consapevolezza rischiarò la storia della sua vita. Ma presto la luce svanì, e le furono necessari altri trenta anni e due matrimoni - con persone simili a suo padre - per tornare a vedere la realtà così come è.
Immaginazione e depressione
La realtà è che, come esseri umani, sappiamo veramente poco di ciò che ci sta più a cuore: come spendere bene la nostra vita e non dipendere dalle circostanze più o meno fortunate.
Come gli altri animali, a volte anche di più, siamo fragili. In compenso abbiamo dalla nostra una grande risorsa: con il pensiero sappiamo spostarci nel tempo e nello spazio, rivisitare il passato o immaginare il futuro. Sappiamo parlare e raccontare agli altri i nostri pensieri, i nostri sogni e le nostre paure. Ma, siccome siamo suggestionabili, questa risorsa può facilmente trasformarsi in un incubo: la depressione è il prezzo che l’uomo paga alla sua immaginazione.


Il bisogno di avere ragione
Alcuni moderni cognitivisti ritengono che il bisogno fondamentale dell’uomo sia quello di capire e prevedere la realtà circostante. In altre parole, il bisogno di formulare ipotesi corrette. Non ricordo quali argomenti portino a sostegno di questa tesi. Certamente non la storia della filosofia. E neppure la storia delle idee e delle convinzioni che hanno dominato il mondo nei diversi secoli, dal fondamento divino del potere dell’imperatore e dei sovrani, alle teorie che hanno giustificato guerre e genocidi.
In termini semplici, avere ragione ci dà sicurezza. Ma siccome la realtà non sempre si piega a questa nostra esigenza, cerchiamo di convincere almeno i nostri simili. Che, se fossero davvero gentili, ci darebbero ragione per farci felici, anche quando abbiamo palesemente torto. Purtroppo, essendo questa un’esigenza piuttosto diffusa, è molto raro trovare persone così generose da anteporre la felicità altrui alla propria.
In cambio se ne trovano molte disposte a dedicare tempo ed energie a convincere gli altri che sono in errore. Soprattutto in passato, quando l’umanità era più sanguigna e passionale di oggi, c’erano persone così eroiche da viaggiare in ogni parte del globo a diffondere le loro nobili idee, specialmente sulla politica e sulla religione. Oggi stiamo attraversando un periodo di decadenza. Tanto è vero che per uno scopo così elevato nessuno si muove più di casa. A meno che le idee non siano collegate ad interessi, solitamente di tipo economico.
Credenze
Charles Peirce, fondatore del pragmatismo americano e della moderna semiologia, ritiene che gli uomini formino e mantengano le loro credenze attraverso quattro metodi principali:
• metodo della tenacia
• dell’autorità esterna
• della filosofia
• della scienza
La tenacia è quell'atteggiamento così diffuso tra gli uomini per cui una persona che segue questo metodo nutre nei confronti delle proprie credenze, delle proprie opinioni la tenace volontà di perseguirle contro tutto e contro tutti; l'uomo cioè si attacca tenacemente alle sue idee e non vuole metterle a confronto con le idee degli altri, anzi, nutre odio e disprezzo per tutti coloro che hanno credenze difformi dalla sua .
Più sopra abbiamo preso in considerazione le ragioni psicologiche della diffusione di questo atteggiamento di chiusura: paura e insicurezza da cui nascono i bisogni di affermarsi, imporsi, ottenere riconoscimento alle proprie idee.
Il secondo metodo col quale gli uomini abitualmente fissano le credenze, decidendo quindi anche i loro abiti di azione, è quello che Peirce chiama il metodo dell'autorità. Questo metodo è a sua volta un metodo tenace ma che non si appella tanto alle credenze del singolo, quanto alle credenze che vengono fissate dall'autorità o dalla tradizione, dallo stato, dalla religione, dal gruppo sociale, dalla classe di appartenenza sociale o dalla consorteria professionale.
Questi due modi molto diffusi, dice Peirce, sono assolutamente precari; essi alla lunga non riescono a stabilire credenze durevoli perché per quanto gli uomini si oppongano con tenacia al confronto e alla discussione, essi non possono fare a meno di scontrarsi con le opinioni difformi dalle loro e quindi non possono non venirne alla lunga influenzati.
Esiste un terzo metodo per fissare le credenze che Peirce definisce più nobile: è il metodo della filosofia. Questo metodo non si appella alla tenacia, ma si apre al dubbio, al confronto, al dialogo; esso ha come suo compito, come meta quello di pervenire ad una credenza razionale. Gli uomini che seguono questo metodo vogliono essere in accordo con la ragione e non con le loro personali opinioni o con le loro passioni, o con gli interessi di un’istituzione. Questo metodo è più nobile, dice Peirce, e tuttavia esso nel tempo non ha dato risultati così apprezzabili come si poteva sperare per il semplice motivo che i filosofi non riescono ad accordarsi su ciò che intendono per ragione. Ognuno intende la ragione a modo suo, fa della ragione una questione di gusto, e quindi questo metodo razionale che vorrebbe essere universale finisce per dare luogo a una serie di contese che molto spesso sono sterili.
Resta il quarto metodo, che Peirce seguì tutta la vita: il "metodo scientifico". La scienza è quel procedimento attraverso il quale gli uomini non soltanto elaborano le loro credenze in dialogo con altri uomini, ma le affidano al riscontro della prova pratica, alla verifica empirica.
Peirce auspica che, con il tempo, le varie credenze degli uomini superino le idiosincrasie, le differenze individuali, le opinioni personali per assumere come banco di prova la verità pubblica, cioè i fatti pubblici che le confermerebbero.
In tal modo il sapere finirebbe per convergere in una sorta di "ecumenismo della verità". Cesserebbe quindi di essere la principale fonte di incomprensioni e conflitti. E potrebbe svolgere quella funzione che gli attribuivano Socrate e Buddha, e che nella storia umana ha raramente svolto: la funzione di ridurre ignoranza e sofferenza.
Intermezzo
Mi rendo conto che un futuro di questo tipo potrebbe rivelarsi poco desiderabile per non poche persone, quelle che nel mondo di oggi traggono potere, privilegi e profitti dall’ignoranza collettiva. Non solo quelle che per mestiere deformano i fatti e occultano la verità attraverso la propaganda , ma anche quelle che campano sulle disgrazie e sui conflitti altrui, per le quali ogni riduzione di incidenti, malattie e guerre costituirebbe una perdita di reddito garantito. Per un approfondimento del tema, rinvio alla lettura del libro “Shock Economy”, di Naomi Klein.
Per bontà d’animo, vorrei tranquillizzare le persone che speculano sulle umane disgrazie: esse per il momento non hanno molto di cui preoccuparsi. Nei prossimi anni potranno facilmente continuare a svolgere il loro lavoro e forse anche insegnarlo ai figli, affinché non rimangano disoccupati.
Il futuro di cui parla Peirce appare oggi così lontano che non lo si riesce neppure ad intravedere. Anche perché molti segnali sembrano farci credere che ce ne stiamo addirittura allontanando: fanatismo religioso, intolleranza, razzismo e guerre etniche, tribalismo, millenarismo, superstizione, pratica della tortura, ecc. .
D’altra parte, se guardiamo in profondità, anche di fronte a questi fatti, è certamente improduttivo cedere alla tentazione del pessimismo e del nichilismo: i grandi cambiamenti non avvengono per gradi, ma per salti, dopo che si è raggiunta la massa critica necessaria a generarli.
Ognuno di noi può scegliere, giorno per giorno, di contribuire in modo positivo o di reagire in modo negativo. Inerzia, frustrazione, senso d’impotenza sono modi certamente negativi . Così come il fanatismo e la fede cieca nel progresso, in quanto crede di poter risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che li ha generati.
Ogni illusione, si sa, apre la strada alla delusione, tanto più dura e amara quanto più, trasformando in dogmi le proprie idee, la si è voluta tenere lontana.
Ama il prossimo tuo
Di fronte alla domanda trabocchetto rivolta a Gesù da uno scriba: “Quale è il comandamento più importante?”, egli rispose: “Ama il prossimo tuo come te stesso” .
Che cosa c’entra questo con il tema della conoscenza? Un attimo di pazienza e lo vedrete.
Il comandamento ama il tuo prossimo è paradossale, perché l’amore è un sentimento, e noi non comandiamo ai nostri sentimenti. Quando detestiamo una persona, possiamo solo far finta di amarla. E allora? Gesù ha mentito ai suoi discepoli? No. Per obbedire a questo comandamento, una strada esiste: trasformare il proprio carattere, lasciando andare gli aspetti egocentrici e narcisistici della personalità ed aprendosi via via ad una visione transpersonale, nella quale ci sentiamo interconnessi ad un livello molto profondo. Un livello nel quale non percepiamo più un confine rigido, una differenza netta tra noi e gli altri. Una strada difficile, di cui molti hanno parlato e dissertato, ma che nei fatti è stata percorsa fino ad oggi da ben poche persone. Strada difficile, ma necessaria, se vogliamo che l’umanità rinunci all’ingordigia, all’ignoranza, ai conflitti e alle armi letali di cui oggi dispone, e abbia davanti un futuro possibile.
Attraverso il suo esempio e l’insegnamento di amare il nostro prossimo come noi stessi, Gesù in realtà ci invita ad impegnarci a fondo per uscire dall’ignoranza ed acquisire una corretta visione. Visione che non possiamo avere finché siamo preda dei demoni che abitano il nostro inconscio. Le parole di Gesù sono molto diverse da quelle usate dal Buddha o da Socrate, perché diversa era la cultura delle persone a cui egli si rivolgeva. Ma se guardiamo in profondità, il suo messaggio era rivolto nella stessa direzione, perché i demoni da cui dobbiamo guardarci sono sempre gli stessi: avidità, invidia, odio, risentimento, paura.
I demoni non si sconfiggono con le armi né si allontanano ignorandoli. In tal modo essi non fanno che rinforzarsi. L’inconscio si rivela solo a chi ha la fede e la pazienza di osservare senza giudicare, senza combattere, senza pretendere che la realtà sia diversa da quella che è.
Fede
In questo cammino, la fede è una risorsa preziosa, irrinunciabile. S. Agostino diceva: “Credi ut intelligam” (credi per comprendere). Chi non ha fede, non ha la perseveranza necessaria a praticare la disciplina dell’autosservazione.
Secondo il buddismo, la fede ci fornisce la forza di essere diligenti, impegnati, focalizzati su ciò che è davvero importante, senza lasciarci distrarre. Se abbiamo fede, siamo concentrati. E solo se siamo concentrati, se dimoriamo nel qui ed ora, possiamo superare il muro dell’ignoranza e vedere la realtà così come è.
D’accordo, la fede dà forza e visione, ma da dove origina? E’ un frutto del caso? O è un dono, un evento fortunato? No. Secondo l’insegnamento del Buddha, la fede è fatta di una materia chiamata intuizione profonda o esperienza diretta.
Illuminazione, libertà e trasformazione non arrivano attraverso l’elaborazione intellettuale. Una filosofia che si limiti ad allenare la ragione è insufficiente.
S. Anselmo di Aosta ha ritenuto di dimostrare l’esistenza di Dio in modo irrefutabile. Ecco a grandi linee il suo ragionamento: Dio è l’essere perfettissimo, il più perfetto di tutti. Quindi è dotato di tutte le qualità. Tra le sue qualità c’è per forza anche l’esistenza, altrimenti non potrebbe essere l’essere più perfetto. Dio, quindi, per sua natura, esiste.
Provate a fare ragionamenti di questo tipo ad un bracciante lucano, se ancora ne esiste uno, o ad un pastore yemenita, e vedrete che cosa vi rispondono. D’altra parte S. Anselmo di Aosta, che era uomo intelligente, non avrebbe parlato in questo modo se il terreno non fosse stato preparato da secoli di dissertazioni filosofiche, a partire da Platone ed Aristotele, sulla realtà degli universali (v. oltre nota n. 11).
Se la ragione viene staccata dalle sensazioni, dalle emozioni, dai sentimenti, diventa autoreferenziale. Se non si traduce in una pratica che coinvolge il corpo, il respiro, l’attenzione, il modo di osservare ed ascoltare, porta inesorabilmente ad un vicolo cieco: si isterilisce o produce mostri.
Occorre distinguere tra fede cieca e fede autentica. La prima è pregiudiziale, non radicata nell’esperienza. Quindi è soggetta a cadute e disillusioni. Oppure può essere mantenuta solo a prezzo di negazione, chiusura e progressivo irrigidimento della coscienza. La fede cieca ha paura della prova dei fatti: quindi è sempre pronta ad urlare e combattere per difendere se stessa da ogni forma di verifica o smentita, che la porterebbero ad abbandonare le limitate certezze a cui si è faticosamente aggrappata.
La fede autentica, al contrario, non smette di cercare e cambiare. E’ fede viva perché non ha bisogno di attaccarsi a nulla. Non ha bisogno di autorità, santi, maestri, guru, anche se di essi può temporaneamente giovarsi come forme di esempio o aiuto. Essa è alimentata da uno stato di presenza mentale e concentrazione, uno stato di coscienza - radicato nei sensi, nel respiro e nel corpo, non solo nella mente -, in cui il tempo si dilata e la visione si approfondisce in modo del tutto naturale. E insieme alla visione si approfondisce il senso di presenza, di coinvolgimento, convibrazione che apre all’empatia, alla compassione e all’amore.
Possiamo chiamarla meditazione, contemplazione, flusso, creatività, mente profonda, gioia dell’essere o preghiera. Le parole non hanno grande importanza.
Se invece siamo distratti, indaffarati, frettolosi, se siamo tesi e preoccupati, percepiamo solo la superficie delle cose. Lo stesso accade se siamo concentrati solo nella testa, distaccata dal corpo e dalle emozioni: in tal caso le idee in cui ci identifichiamo vengono prima delle persone e dei fatti reali. Le idee, perduta la loro base nell’esperienza sensoriale, per sua natura fluida e impermanente, si cristallizzano, si induriscono e si trasformano in ideologie, politiche, filosofiche o religiose, non ha importanza. Le ideologie sono schemi fissi, precostituiti, nei quali vogliamo inquadrare la realtà del presente, distorcendola alla radice ed esercitando violenza sulla natura e sulle persone.
In entrambi i casi perdiamo contatto con il nostro vero sé e con gli altri. Gradualmente usciamo dal fiume della vita e ci ritroviamo ingabbiati nella pozza della deformazione della realtà, dell’ignoranza e della mancanza di empatia: in una parola della nevrosi.
Il termine nevrosi richiama la sofferenza, l’essere preda di emozioni e pensieri che non si vorrebbe avere, l’essere in balia di forze che non si controllano. Nevrosi è sinonimo di scissione, separazione, conflitto. Con chi? Con il proprio inconscio. Essenza della nevrosi è l’ignoranza di sé, e di conseguenza, ignoranza del mondo che ci circonda.
Nonostante le straordinarie imprese della scienza e della tecnica nel mondo materiale, o forse proprio a causa di esse, la condizione nevrotica è comune all’uomo moderno civilizzato: ciò che varia tra le persone è il grado di intensità. L’ignoranza non è quindi un fenomeno individuale, ma collettivo. E’ il frutto dello stato di coscienza ordinario in cui normalmente abitiamo, e che ci conduce inesorabilmente a percepire la superficie delle persone e degli altri esseri, e a lasciarci sfuggire ciò che è più importante: il loro cuore, i loro sentimenti, le loro ragioni profonde .
Lo stato ordinario di coscienza è uno stato egoico, in cui il senso di separatività, estraneità, esclusione è la tonalità di fondo della musica in cui siamo immersi, inconsapevoli come i pesci rispetto all’acqua in cui nuotano .

La conoscenza vi renderà liberi. Ma quale conoscenza?

Socrate, Buddha, Freud non avevano dubbi al riguardo: la conoscenza di sé. Ovvero la conoscenza della natura illusoria della mente condizionata. Diversi erano solo i metodi che proponevano per raggiungerla: la meditazione (il Buddha); la dialettica (Socrate); la psicoanalisi (Freud).

Nessuno di loro ha creduto, neppure per un minuto, che la conoscenza che rende l’uomo libero possa ottenersi con l’apprendimento astratto o meccanico di dati, concetti, teorie. Cioè con quel tipo di conoscenza che ancora oggi viene praticata nella maggioranza delle scuole e dei corsi universitari, e che ha fatto dire ad uno spirito libero come Ivan Illich: “Descolarizziamo la società!”.

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