M. Gisella Catuogno
Cronaca semiseria della didattica della letteratura in una terza delle scuole superiori

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Titolo Cronaca semiseria della didattica della letteratura in una terza delle scuole superiori
Autore M. Gisella Catuogno
Genere Attualità cultura      
Pubblicata il 20/11/2008
Visite 3740
Scritta il 01/10/2008  
Punteggio Lettori 56
Note Articolo contenuto nel secondo numero della rivista on-line Viadellebelledonne
Quando un insegnante di Materie Letterarie negli Istituti tecnici approda al triennio delle scuole superiori, dopo un viaggio alle scuole medie e una sosta prolungata al biennio successivo, si sente come Ulisse quando baciò la sua “petrosa Itaca”.
Per il semplice motivo che, dopo aver rafforzato le famose quattro abilità del parlare, scrivere leggere e ascoltare alle medie; dopo aver lasciato intravvedere, senza dimenticare le ancora tentennanti suddette abilità, gli allettanti arcipelaghi dei vari generi narrativi, dalla favola alla fiaba, al racconto, nelle sue varie tipologie di storico, poliziesco, giallo, filosofico; su su verso il romanzo storico, verista, decadente, contemporaneo, fino alle vette sublimi della poesia, epica e lirica, sempre naturalmente offrendo agli allievi assaggi di questo e di quello, per nutrirli senza disgustarli; finalmente, giunto in terza, quarta e quinta, dapprima con un po’ di batticuore per il timore di non essere all’altezza, poi, sempre più sicuro nella navigazione perigliosa ma di soddisfazione che è l’insegnamento, il docente può cominciare a dipanare il filo della storia della nostra letteratura, cercando anzitutto di motivare il lavoro che sta per iniziare.
Perché, infatti, se per la Storia è intuitivo, anche a un ragazzo di quindici anni, che, per conoscere il presente è necessario non ignorare il passato, prossimo e remoto; altrettanto non lo è per la Letteratura che è prodotto culturale mediato e non immediato di un determinato contesto storico, a propria volta generatore di riflessioni, valutazioni e idee che incidono sull’ hic et nunc e lo modificano, seppure lentamente. Per far capire questo, il suddetto scomoda Dante: certo, il Medioevo l’avrebbero conosciuto anche senza di lui; ma chi meglio del Poeta fa comprendere l’afflato religioso degli uomini del tempo, l’ossessione del peccato, e della necessità della redenzione, l’intuizione del mistero divino, il livello di degrado a cui era giunta l’esperienza comunale a Firenze?
“Vedrete, ragazzi, come sarà affascinante leggere Dante!” prometto all’inizio della terza e quasi sempre riesce a mantenere la promessa. Il merito non è certo suo ma dell’incipit fantastico della Commedia: di quella selva oscura, di quel colle luminoso inutilmente vagheggiato, di quelle tre fiere che incutono timore anche a loro. E che vorrà dire “tra feltro e feltro” e chi sarà mai il “veltro” che ricaccerà la lupa nell’Inferno!? La Commedia crea suspence. Ma anche pietà e immedesimazione: non tanto verso gli ignavi (chi mai si sente ignavo a quindici anni? Corrano pure dietro la banderuola, siano pure tormentati da insetti e vermi schifosi!) quanto verso i lussuriosi…Che bel peccato, vorrebbero essere anche loro in quel cerchio, con Cleopatra e Semiramide, Paride e Didone, travolti dal vento incessante, come nella vita dalla forza della passione ( Chissà che avranno fatto? Sesso sfrenato, si suppone…) Il racconto di Francesca li commuove (Povera Francesca! Ha fatto bene a tradire Gianciotto con Paolo, quello zoppo e deforme, questo bello come il sole…Ma prof., non è nemmeno peccato, il matrimonio era combinato! Si vede che a Dante dispiace farli stare all’Inferno! Tira fuori il paragone con le colombe, alla fine si sviene…); e quando la peccatrice racconta del “punto” che rivelò il reciproco amore, a loro che si intrattenevano con i romanzi cortese-cavallereschi, durante la lettura galeotta del bacio di Ginevra a Lancillotto, potrebbe anche scattare l’allarme di evacuazione della scuola, che per qualche istante non si muoverebbero dal banco.
“Amor ch’a nullo amato amar perdona”, si ingegna a spiegare l’insegnante…
“Ma come, qui Dante ha toppato [=sbagliato, nel loro slang], prof., non è vero che non esiste l’amore non ricambiato…”
E come dargli torto? Ognuno pensa a qualche passioncella insoddisfatta e sospira, compreso l’insegnante, ma senza farsi scorgere.
Con la Commedia, il rischio di provocare sbadigli soffocati non esiste, anche perché il docente si guarda bene dall’offrir loro pietanze poco saporite: con tre ore la settimana d’Italiano e una programmazione che esige di giungere a Tasso alla fine del terza, occorre fare una selezione anche dei luoghi infernali. Ma si può rinunciare a Ulisse? Mai! E’ troppo affascinante, troppo “ganzo”, dicono loro: e così lasciano insieme a lui l’isola di Circe, dove, a dir la verità, non stavano niente male e con la “compagna picciola” si mettono a navigare il Mediterraneo: che bello avere a destra l’isola dei Sardi e a sinistra Ceuta, sembra di vederne le coste soffuse di nebbia nel chiarore del primo mattino; il richiamo della famiglia è una spina nel cuore, ma di quelle piccole, di rosa canina, la voglia di andare oltre è tanto più grande! Li assale un po’ di spavento: non sono lontane le Colonne che Ercole ha posto a segnare i confini del mondo e la loro nave va avanti troppo velocemente…”Torniamo indietro, usiamo la ragione!” azzarda spaventato qualcuno, ma Ulisse li chiama e sussurra loro con quella sua voce bassa e suadente:
“Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza/.”
Che effetto fanno quelle parole… tremano le gambe, il cuore batte forte nel petto: il desiderio di andare avanti e sfidare le leggi umane e divine lotta con la razionalità, con la tradizione, con la norma, con il sacro divieto. Ma è una lotta impari, prevale l’istinto di conoscere, di esplorare: si va avanti, si superano con senso di sfida quei traguardi, si guardano con senso di superiorità, meravigliati che fermino tanti marinai meno coraggiosi e sacrileghi di loro.
Procedono trattenendo il respiro: “Non è successo nulla! Avevamo ragione a andare avanti, festeggiamo!”
Dall’anfora levano un vino che sembra miele e brindano al coraggio. La navigazione procede verso sud-ovest, in tranquillità: superano l’Equatore, contemplano le stelle dell’altro emisfero e la luna che compare per la quinta volta a bagnare di luce lo sguardo. Al mattino, quando l’aurora ancora trattiene nel cielo i suoi petali rosati, si stropicciano bene gli occhi per evitare di prendere abbagli…ma no, è proprio una montagna, quella che tutti vedono, alta e scura, che nasce all’improvviso dall’acqua, come l’isola di Montecristo, se si avvicinano d’estate a assaporarne i colori, seppure più imponente e misteriosa.
Si rallegrano, abbracciandosi l’un l’altro, quando all’improvviso da quella terra straniera s’alza un vento che diventa vortice, solleva l’acqua impazzita che gira con lui e si abbatte su di loro, facendoli mulinare per tre volte : in un flash, prima che il mare si chiuda sopra, rivedono quelle colonne e il “folle volo”…
Quando la lettura del XXVI canto si conclude ai ragazzi dispiace lasciare Ulisse nell’VIII Bolgia dell’VIII Cerchio, seppure in compagnia di Diomede, entrambi nell’inusuale foggia di due lingue di fuoco parlanti.
“Meglio l’Ulisse omerico?” chiede il prof. Forse sì, almeno finisce bene: la strage dei Proci non li turba più di tanto, in fondo se la sono andata a cercare; finalmente la fedeltà di Penelope sarà premiata e Itaca ritornerà a essere un’isola di operosa legalità.
“E la sete di conoscenza?” azzarda
Non ci stanno! Meglio Itaca che il fondo del mare e l’Inferno.
Altrettanto interesse, seppure venato d’orrore, suscita la lettura del XXXIII canto: Ugolino che rosicchia il cranio dell’arcivescovo Ruggieri li schifa e li attrae, avvertono l’angoscia del sogno che “del futuro squarciò il velame” e sentono negli orecchi il suono di quella porta inchiavardata. Soffrono con Gaddo… il Brigata e l’Anselmuccio, intuiscono (loro che non l’hanno mai conosciuta, per fortuna) la rabbia della fame e l’atrocità della sete; brancolano con Ugolino sopra i corpi dei figli e sperano che muoia presto per soffrire meno. Ascoltano silenziosi la violenza profetica di Dante contro Pisa: “Movasi la Capraia e la Gorgona …”Quell’ora passa in un soffio.
Del Poeta apprezzano e gustano la Commedia, glissano sulla Vita Nuova, si annoiano col De vulgari eloquentia, il Convivio, la Monarchia e le Epistole.
Problematico traghettarli dalla corposa plasticità del poema alla levità del Petrarca: il conflitto interiore tra l’aspirazione alla spiritualità e l’irresistibile attrazione dei beni mondani; l’oscillazione tra l’ideale religioso vissuto senza compromessi e le delizie di un amore terreno che si materializza nelle bionde trecce di Laura, nel suo bel fianco, negli occhi splendenti, non li coinvolge più di tanto.
“Quante paranoie, prof!!”
Però, mettendo a confronto “Benedetto sia il giorno, il mese e l’anno” con “Padre del ciel dopo i perduti giorni”, un barlume si accende e intuiscono la lacerazione del povero Francesco.
Passare a Boccaccio è un sollievo: evapora come neve al sole l’esasperato senso di colpa dell’epoca precedente; la pagina si affolla di mercanti avventurosi che respirano la brezza del mare e amano i vasti orizzonti; di sprovveduti sensali di cavalli che perdono la testa per le belle “ciciliane”di donne innamorate che non disdegnano audaci convegni d’amore; di frati lazzaroni che approfittano dell’ingenuità popolare; di nobiluomini che, spendendo e spandendo, si rovinano per la fanciulla del cuore; di individui che combinano tranelli e si prendono beffa del prossimo anche in punto di morte. E’ un caleidoscopio di vita e di gusto per la vita: lo spazio geografico diventa orizzontale e si estende dalle città alle campagne, da oriente a occidente: il mare ne è un protagonista privilegiato perché esso, per volubilità di carattere e capacità di furore, è metafora stessa della vita. Sfuma l’anelito verso Dio, il miraggio dantesco al cielo: nemmeno Boccaccio disdegna l’elemento religioso, ma ciò da cui è irresistibilmente attratto è l’inesauribile potenzialità del quotidiano nella tragicomica vicenda umana, le infinite avventure del mondo terreno; l’altro, l’oltremondo è meno interessante e fascinoso. I ragazzi lo deducono dalle novelle: da Chichibio cuoco, che, per la pronta e gustosa risposta placa l’ira di Currado Gianfigliazzi; da Andreuccio da Perugia, prima vittima poi baciato dalla sorte; da Lisabetta da Messina, uccisa della cupidigia dei fratelli; da Frate Cipolla, ingannatore beffato; da Federigo degli Alberighi, che imprudentemente sacrifica il suo falcone, unico oggetto di desiderio della ritrosa Giovanna; da Cisti fornaio, che sa stare al suo posto ma indica anche i limiti della democrazia boccacciana.
Dal Decamerone escono a fatica, riluttanti. Ma presto sono travolti dal vortice dell’Orlando furioso. La cornice storico-culturale in cui collocarlo, la recepiscono bene. L’Umanesimo e il Rinascimento piacciono: non il neo-platonismo fiorentino, l’affermarsi della filologia, la riscoperta delle civiltà classiche; quanto invece la valorizzazione dell’esperienza umana, l’uomo misura del mondo, di leonardiana memoria (l’euro aiuta!). Afferrano bene le motivazioni del costruire cattedrali meno esagerate di quelle medievali; dello scolpire figure umane che esaltano la bellezza corporea o del dipingere tele d’ispirata armonia. Meno gradito risulta il contrasto tra lo splendore della cultura e la crisi politica, tra la raffinatezza delle corti principesche e la debolezza degli stati italiani, che inesorabilmente si avviano alla perdita dell’indipendenza:
“Ragazzi, passeranno quattro secoli prima che l’Italia sia di nuovo unita e indipendente, quattrocento anni, capite?! Ci invaderanno i francesi, gli spagnoli, gli austriaci! L’Italia debole diventa terra di conquista, ve ne rendete conto!?”
E Ariosto? Ne aveva consapevolezza? Certo, che ne aveva! Sceglie un genere accattivante, conosciuto nelle corti principesche, il poema cavalleresco compiendo un viaggio a ritroso nel tempo: rispolvera le vecchie figurine di Carlo Magno, del paladino Orlando (“Ricordate, ne abbiamo fatto la conoscenza all’inizio dell’anno, con le chansons de geste!?”), della lotta contro i musulmani, della bella principessa del Catai di cui tutti si innamorano, l’inafferrabile Angelica; e costruisce un intreccio incredibilmente complesso e affascinante, in cui non mancano escursioni sulla luna, castelli incantati, paladini valorosi che perdono il senno per amore e miraggi di nozze principesche. La selva in cui si ritrova Angelica sfuggita a Gano di Maganza è labirintica e in essa tutti si perdono, tornando sempre al punto di partenza La parola chiave è ricerca -recherche, dice il libro- quasi sempre destinata al fallimento. Tutte le possibilità sono aperte fino ai due terzi del romanzo: i tre filoni pricipali, la lotta tra cristiani e musulmani, la pazzia di Orlando, la promessa d’amore tra Ruggiero e Bradamante non giungono a compimento. Sembra un romanzo cavalleresco! Tutte le soluzioni sono ancora possibili. Perché, -lo capite, ragazzi?- il poema per Ariosto è un pretesto per parlare della sua vita e di quella del suo tempo: la condizione del cortigiano, prigioniero di lusso di un principe, che lo usa come cassa di risonanza del potere, che lo ricopre di beni materiali ma non sopporta nessuna critica; la follia umana, che fa continuamente ricercare beni effimeri e trascurare quelli autentici; l’amore, consolazione e schiavitù…Per questo, si diverte a creare storie che a loro volta ne generano altre, apparentemente all’infinito, senza una conclusione. E invece no! A un certo punto Ariosto mette i remi in barca, trasforma quello che sembrava un romanzo cavalleresco in un poema epico e dà una chiusa a tutti e tre i filoni principali: il conflitto tra cristiani e musulmani termina con la vittoria dei primi; Orlando, grazie a Astolfo che è andato sulla luna, recupera il senno custodito in un’ampolla e ritorna a essere la consolazione di re Carlo; Bradamante può convolare a nozze con quel donnaiolo di Ruggiero e portare in grembo il seme della dinastia estense.
Perché!? Per quale motivo Ariosto fa questa scelta? Probabilmente per il fatto che, di fronte a una realtà storica fuori del suo controllo, di cui andava intuendo, senza poter costruire argini, la dilagante rovina, il poema era il solo luogo dove poter esercitare un potere e una volontà non destinati allo smacco. Insomma la creazione artistica come risarcimento alla sconfitta e all’impotenza nei confronti del reale. Come un dio creatore, lo scrittore fa e disfa, apre infinite strade, ma regala una conclusione positiva alle vicende, un esito che non poteva imporre invece all’intricata matassa dei fatti contemporanei.
Ecco, questo concetto, per qualcuno di loro, è un po’ difficile da cogliere…ma mediamente è metabolizzato bene.
Di solito, quando arrivano a parlare d’Ariosto è già primavera inoltrata, il tempo stringe, le verifiche incalzano, gli scrutini incombono.
C’è tempo solo per Machiavelli; Torquato Tasso sarà affrontato al rientro, con più calma, meglio per lui e per loro…
Niccolò è più tosto: del Principe leggono solo i passi meno ostici, ma la stringatezza del ragionamento logico, la potenza delle immagini, l’urgenza della sintesi, per l’uso concreto del libello da parte di signori volitivi e senza scrupoli, tengono desta l’attenzione e suggeriscono riflessioni non banali. E poi c’è la Mandragola, la più importante commedia del Cinquecento di cui non perdono una battuta e da cui trasuda, come negli altri scritti, il sostanziale pessimismo dell’autore.
“Perché prof.”pessimismo”? Finisce bene! Lucrezia si tiene tutti e due…”
“Ma non vedete? Anche lei scende a compromessi con la moralità, si adegua alla disinvoltura etica di chi la circonda, vi sembra positivo, questo!?” chiede ansioso il docente
Nicchiano…l’estate, stagione più di altre del compromesso, è alle porte. Si sentono molto vicini alla bella signora fiorentina.

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