Bruna Scalamera
Camminatori di Dio

Titolo Camminatori di Dio
Diario di pellegrinaggio verso Santiago de Compostela e oltre
Autore Bruna Scalamera
Genere Narrativa - Viaggio      
Pubblicata il 08/12/2009
Visite 11042
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Altroviaggio  N.  2922
ISBN 9788873882145
Pagine 430
Prezzo Libro 24,00 € PayPal

Un giorno, improvvisi, lo sguardo e il cuore si levano al cielo per cogliere un suono che invita ad un movimento diverso: è la vocatio. Allora, zaino in spalla, si parte en quête, come i cavalieri erranti, come i pellegrini di ogni parte e di ogni tempo, pronti ad un viaggio
di trasformazione interiore.
Facilmente ci si ritrova sulla Via Lattea, verso Santiago de Compostela e oltre, verso Finisterra: essenziale cammino di fede, esso nutre e tempra la naturale  dimensione cosmica, spirituale dell’Uomo.
Da questo momento si diventa “pellegrini” per antonomasia - come ricorda Dante - Camminatori di Dio sempre, dentro e fuori del Camino: la ricerca di Sé, del senso della Vita, di Dio, non ha più fine.
 

PRELUDIO

 

Questo libro è come se fosse stato partorito da me: ho prestato infatti il mio corpo per questo figlio proprio mentre macinavo chilometri su strade, stradine, boschi, prati. Il percorso insolito mi faceva riscoprire il mondo passo dopo passo, alla velocità di un metro al secondo, mi riavvicinava all’umanità.
Ammirando tutto ciò che Dio Creatore ci ha donato, nutrivo il desiderio crescente che le bellezze della sua creazione, colte nella rete delle mie emozioni e dei miei sentimenti, venissero tramandate a coloro che non potevano né forse avrebbero mai potuto vederle percorrendo il Camino.
Così nascevano e così morivano questi pensieri e desideri di tradurre in un libro quello che provavo. Ora mi rendo conto di quanto sia fertile un certo pensare. Ogni mia idea che moriva, nasceva in un’amica, come se il seme che io lasciavo sul terreno, fertilizzato, venisse raccolto da chi mi seguiva: Bruna ha realizzato un progetto che io avevo lasciato dietro di me sul suolo spagnolo.
Non mi aspettavo che un semplice incontro su un cammino, per me spirituale, potesse dare dei frutti meravigliosi, che i miei figli, nipoti, parenti e amici potranno gustare negli anni a venire. Sono certa che questo libro avrà lunga vita ed ogni volta che qualcuno lo leggerà, troverà cibo per la sua anima, la sua mente, il suo corpo.
Grazie Bruna,
la tua compagna e sorella peregrina, Marisa.

 

 

 

 

Come sono arrivata al Camino?

 

Ho conosciuto l’esistenza del Camino de Santiago de Compostela anni fa. Subito ho vagheggiato di percorrerlo e l’ho riposto nel mio segreto baule interiore delle cose che mi sarebbe piaciuto fare, seguire, acquisire.
A tratti nel tempo emergeva una notizia da una parte, un accenno da un’altra. Era l’occasione per accarezzare le aspirazioni nascoste: aprivo il baule, alitavo su di esse un poco per accertarmi che fossero ancora immutate e vive, le nutrivo con la notizia o l’accenno e le riponevo nuovamente sotterrandole sotto il cumulo dei ferrei impegni programmati, oppure sotto un giudizio di generica inopportunità (“Non è ancora il momento”). Rimandavo ad un indefinito tempo futuro. Rimandare... Ci sembra talvolta che le maglie della realtà sociale, nella quale abbiamo intrecciato la nostra vita quotidiana personale, non lascino spiragli per slanci e movimenti apparentemente molto diversi dal consueto. Eppure è solo grazie a questi slanci e movimenti che tutto il resto prende senso e significato.
Non saprei dire con precisione quando il Camino si è ripresentato, l’ultima volta. La mia memoria ha perso gli anelli precisi degli episodi, degli spunti, dei ganci della concatenazione iniziale. Grosso modo riesco a dire che è stato nella tarda primavera 2003. E che aveva la connotazione della possibilità: il Camino era divenuto tutto ad un tratto “possibile”, e quindi più vicino e più reale. Solo successivamente tuttavia mi sono accorta di quello che stavo veramente vivendo: ero portata. Non conducevo io la cosa. Non posso dire, in effetti, di aver mai preso una decisione a questo proposito.

Ero come la foglia nell’acqua che entra in un gorgo. Le prime spirali del vortice sono più ampie, più delicate e leggere, accarezzano e cullano la foglia, invitandola ad avviarsi dalla periferia acquea, dove si contatta anche l’aria, verso strati più profondi e più interni, in immersione completa. Lì il movimento si fa più rapido, la pressione più forte, è troppo tardi per sfuggire al vortice. Non resta che lasciarsi portare in un moto rapidissimo a vite verso il centro, l’occhio del gorgo, dove, stranamente, tutto si acquieta. In questa quiete si apre un passaggio, un tunnel invisibile: è sempre acqua, ma è acqua diversa, è acqua che convoglia ogni oggetto - e anche la foglia - da un’altra parte, al di là, oltre. E presto la foglia si ritrova in un altro luogo, il suo paesaggio è mutato, il suo procedere continua diverso, nuovo.
Contemplando giù da una chiusa l’acqua di un canale castigliano, mi è apparsa dunque evidente la dinamica che mi aveva portato al Camino. C’è già tutto in natura, basta solo osservare e confrontare, e rapidamente appare evidente come i modelli attivi sul piano della materia fisica siano corrispondenti a modelli su un piano invisibile ma reale, interiore, psichico se si vuole, che preferisco definire come “sottile”, di cui percepisco la radice pur sempre nell’energia vitale che tutto muove e porta e conduce ad un fine.
Così posso dire di essermi scoperta un giorno rapita nel gorgo del Camino.

Ai primi di giugno ho chiesto alle colleghe di scuola se conoscevano qualcuno che organizzasse il pellegrinaggio a Compostela. Era mia intenzione unirmi ad una qualche organizzazione, che però non fosse prevalentemente turistica. Ho cominciato a muovermi. Sono andata in un’agenzia turistica specializzata in pellegrinaggi, ma la loro proposta era troppo riduttiva per la mia esigenza. Ho contattato un sacerdote che progettava di portare a Santiago un gruppo di giovani. Ci siamo conosciuti. L’idea di accompagnare dei ragazzi mi piaceva: mi sembrava di tornare ai tempi in cui accompagnavo gli studenti in viaggi didattici o formativi.
Soprattutto non volevo andare sola. Resistevo fortemente a questa ipotesi, la escludevo proprio.
Vivere da sola in mezzo alle colline mi sembra naturale come respirare (anche se talvolta lo stesso respirare può risultare un’impresa) e non riesco a comprendere la meraviglia e la titubanza di chi mi domanda se non ho paura. Qui, in mezzo al verde, dentro il silenzio, tra poiane e cinghiali, mi sento al sicuro, veramente a casa.
Al contrario, l’idea di muovermi, di uscire nel mondo da sola mi spaventava. Mi sono sempre mossa perché c’era qualcuno dall’altra parte che mi aspettava, un parente, un’amica o altro (un rappresentante del ministero della cultura!). C’era dunque un filo teso tra la mia persona alla partenza e un’altra persona all’arrivo, e io mi muovevo su questo filo. Era un percorso stabilito, predefinito, all’interno comunque di una relazione umana più o meno personale e ciò mi dava sicurezza. Ricordo di aver invidiato molto Silvio, amato amico siciliano, per la libertà con la quale si muoveva da solo nei suoi viaggi. Io provavo ad immaginarmi nel tentativo di avviarmi passo dopo passo fuori dalla mia cascina, nel mondo. Arrivavo fino all’asfalto. E poi, come si faceva a procedere oltre? Dinanzi a me non si apriva il mondo, bensì il vuoto.
Ho cercato più di una volta di restare affacciata sul vuoto del mondo, per abituarmici, prendere confidenza, soprattutto capire cosa ci fosse di tanto spaventevole. Ma senza esito. Era come un muro trasparente, impalpabile, nel quale potevo sprofondare senza fine e senza ritorno. Non c’era consistenza né un terreno su cui poggiare. Solo il vuoto. Un vuoto chiaro peraltro, ma muto, silenzioso, blank: il regno dell’ignoto, imperscrutabile, presumibilmente difficile e aspro. Immaginavo di inoltrarmici e la mia pancia si popolava di colpo di vermi. Panico. La paura dell’ignoto, che mi divorava l’ hara, il mio centro vitale, il mio ubi consistam.
Per questo, allora, aspiravo, sì, al Camino, aspiravo a realizzare un desiderio profondo, da lungo tempo cullato, ma al contempo volevo effettuarlo in sicurezza. Cioè, con qualcuno. Cercavo qualcuno cui appoggiarmi - il salvagente - pur sentendomi spaventosamente patella e pur sapendo certissimamente che questo abbarbicamento era improprio ormai, obsoleto, e doveva essere superato. Volevo due cose per me ancora contrapposte: uscire nel mondo e la sicurezza, “la botte piena e la moglie ubriaca”. Dovevo scegliere. Perché giustizia vuole che per avere una cosa se ne debba dare in cambio un’altra. Del resto, mi si chiedeva di sacrificare la paura - con i suoi vermi. Perché non lasciarla andare, dunque? Tuttavia, restavo abbarbicata all’ipotesi, peraltro realistica, del viaggio col sacerdote e i ragazzi. Non riconoscevo ancora la mia sfida in questo limite.
Ricordo poi che un giorno ho fatto visita dopo tanto tempo ad una coppia di amici, Vittorio ed Elisabetta, che mi hanno mostrato le foto del loro viaggio in Spagna dell’estate precedente. In una pagina dell’album, in alto, in un timbro azzurro stampigliato su un foglietto bianco, si stagliava la silhouette della vieira, la cappasanta - la conchiglia dell’Atlantico simbolo di questo pellegrinaggio. Dietro era riportato il titolo di una guida del Camino edita a Genova. Grazie ad un’amica, dopo qualche giorno la guida era nelle mie mani. Risalire all’autore è stato facile, parlargli, molto piacevole: ha rafforzato il mio entusiasmo.
Tutti questi elementi dunque erano come le spire periferiche del gorgo che mi convogliavano dolcemente verso cerchi più interni. Sentivo questo. Incontravo le persone ed esse mi chiedevano se avessi deciso di partire e quando. Cercavo di rintracciare dentro di me la decisione e non la trovavo. Né la decisione né tanto meno l’impulso a decidere. Ero in una spirale intermedia del gorgo. Stavo procedendo, ma non sembrava dipendere da me.
La pressione della spinta è diventata più forte quando ho parlato con la figlia dell’autore della guida. Quella telefonata, non credo che la dimenticherò. Ero in piedi nello studio, accanto al tavolo di lavoro. Finalmente formulavo la domanda chiave: “Ma qual’è la connotazione, la caratteristica di questo cammino?” e ricevevo una risposta semplice:”È un cammino in solitaria”. Poche parole, chiare. Per me definitive e irrefutabili come l’immagine nitida offerta da uno specchio.
La pelle mi si è arricciata in rapide ondate successive di fremiti, mentre dal petto s’innalzava una colonna di calore fino alla testa. Che strane manifestazioni assume la consapevolezza, quando da inevitabile diventa accettata! Che esplosione di energia produce l’accettazione!
Accettare significa per me riconoscere che una carta da gioco di quel mazzo di carte che è la nostra personale esistenza trova la sua risposta speculare, contrapposta e complementare, nella carta che la vita ci offre in un dato momento estraendola dal mazzo universale delle possibilità.
In quell’istante ho capito che il cammino in solitaria - el Camino de Santiago - nella sua duplice veste di difficoltà e opportunità, era una prova che mi chiamava, mi spettava e dalla quale non potevo più esimermi. Mi trovavo dunque già in spire più profonde del vortice. Sembrava non fosse più possibile tirarsi indietro. Intuii che il viaggio organizzato per i ragazzi non avrebbe avuto luogo. La telefonata successiva me lo confermò. E questo perché Dio è grande. Mi ha risparmiato la tentazione di appoggiarmi ulteriormente. Niente più salvagente. Percorso obbligato!
Da quel momento ho smesso di cercare compagni di viaggio.
Ma, perché andare? Qual’era la motivazione, ovvero il fuoco che poteva mettermi in moto? Come e dove trovare il coraggio per far fronte alla sfida? Ok, superare la paura dell’uscire nel mondo era di per sé lodevole e grande, ma era insufficiente: era l’ostacolo, non la spinta. Del resto, anche se una decisione mi sembrava prima o poi necessaria per partire, nulla di simile emergeva ancora dentro di me. Il mio hara era muto. La mia mente, per fortuna, anche.

Qualche giorno dopo andai da un’amica, Morena, una appassionata studiosa della Vita, per comprendere assieme a lei se e come io potessi essere ancora di aiuto per i miei figli ormai adulti. Strada facendo, avevo dei dubbi sull’op-portunità della mia richiesta: in un certo senso m’immaginavo già la risposta. Non sarebbe stata molto diversa da quella che già sapevo in profondità dentro di me, però era la mia insicurezza, il mio bisogno di conferma e rassicurazione che, in parte, mi portavano fin da lei.
Non ricordo come è avvenuto, ma quasi subito la conversazione si è spostata sul Camino. Lei l’aveva compiuto qualche anno prima. Parlando con lei, mi si definiva la motivazione: dare un contributo evolutivo (“antropico”) alla mia linea genetica, tentando di superare modelli interpretativi e comportamentali ereditati dalla mia famiglia o creati da me, e di acquisire quindi una modalità più sana di rapporto col Mondo, con la Vita, con gli Altri - da lasciare ai miei figli.
Morena chiamava il mio nodo fondamentale “dipendenza emozionale”, io lo chiamavo in vari modi, che poi erano i diversi aspetti del nodo: la solitudine dell’anima (nel senso di mancanza, di orfanità percepita) e il non-sentire-il-sostegno-della-Vita erano all’opposto della fiducia-in-Dio e del riallacciare il “cordone ombelicale d’argento” con Lui: si trattava di ritrovare la mia radice nella Vita. Era in gioco, ancora e sempre dunque, la mia relazione intima e profonda col sacro, con la fonte ed essenza della Vita - come era stato negli ultimi dieci anni, del resto.
Mancando questa, ogni altro oggetto o persona intorno a me ne diventava il sostituto, trasformandosi in salvagente, in appoggio compulsivo. Operazione impropria, effimera, poco efficace, ingiusta. C’erano state indubbiamente delle ragioni valide a suo tempo (nella primissima infanzia) perché questo modello o meccanismo psicologico si costituisse. Ora non lo erano più. Anzi, ce ne erano altre molto più valide per la sua risoluzione.
Lei mi preannunciava inoltre, sulla base della sua personale esperienza, e se io fossi stata in una condizione interiore di sufficiente apertura o maturità, una prova forte. Ad un certo punto del Camino il mio nodo (il mio personale “cane nero”, come lo chiamava lei mutuandolo da Coelho) si sarebbe presentato in tutta la sua virulenza. Avrei dovuto affrontarlo senza cercare via di scampo, stargli di fronte, fare il possibile per superarlo. Entrambe sapevamo che se si presenta una prova, vengono fornite anche le forze per sostenerla, sempre che sia salvaguardata la fiducia, che si chieda aiuto con fiduciosa apertura.
Più forte era ora la consapevolezza che andavo proprio alla ricerca di Dio, e ciò mi dava un senso di quiete e solidità, come avviene quando si individua e definisce il proprio fine liberandolo dalle nebbie della indeterminatezza. Non sapevo, né potevo saperlo, né dovevo saperlo (non era la mia parte!), sotto quale aspetto Egli si sarebbe rivelato. Mi veniva alla mente la quête dei cavalieri erranti del Medio Evo: non sapevano quale manifestazione di Dio avrebbero incontrato. Una cosa sola era importante: rispondere alla chiamata (la vocatio) e partire, mettersi in viaggio, in affidamento interiore all’Alto.

E così questa Cosa, che era il Camino, che mi si apriva dinanzi, raccoglieva nodi della mia esistenza che forse attraverso di esso avrebbero avuto una soluzione.
I vermi in pancia si fecero sentire di più nei giorni seguenti, ma lentamente si smorzarono al fuoco della motivazione che si era riacceso: era il fuoco dell’amore per i miei figli, sempre quello.
E non si trattava di prendere una decisione. Non era operativa in me una volontà mentale, che potesse decidere in merito a questo evento. Andare o non andare era una questione di pura adesione, di intima aderenza. Qualcosa dentro di me si era mosso in quella direzione, e io potevo solo dire SI’ e procedere. Forse, in teoria, avrei anche potuto dire di no, resistere e arrestarmi. Ma questa ipotesi non si è mai presentata alla mia coscienza come reale. Non c’era posto per essa dentro di me. C’era solo il SI’. Io aderivo, e più aderivo, più grande era il senso di libertà. Mi venivano in mente a più riprese le parole latine bonum et iustum est, che mi hanno sempre trasmesso molta forza, e anche ora era così. Era cosa buona e giusta, per me, fare questo cammino, affrontare in questa prova i miei limiti.

Quando arriverò a Nájera, mi imbatterò in una poesia, scritta a grandi lettere su un muro, che esprime proprio questa condizione interiore e che per questo è diventata il manifesto ufficiale del pellegrino: “Polvo, barro, sol y lluvia”, “Polvere, fango, sole e pioggia”.

La spinta che emergeva dentro di me, quieta ma ormai determinata, senza dubbi, si palesava anche sul piano fisico: i piedi e le gambe mi formicolavano, sentivo la febbre-di-andare salire dentro di essi. Dopo anni di lavoro interiore, probabilmente era adesso venuto il momento di lavorare anche con il corpo. Tutta intera. Per tanti anni mi ero spostata, per conoscere me e la Vita, in senso verticale, nel mio intimo, ero diventata “un palombaro del profondo”. Ma si vive nel Mondo, e da sempre ho desiderato e apprezzato di conoscere nuove persone, nuovi orizzonti, nuove realtà. Mi sono sempre domandata, però, perché per altri fosse più facile, e per me molto meno, sentivo forte la mia paura ad espormi, ex-ponere: mettermi fuori, al di là del limite, fuori dal noto. Questa domanda già indicava che non accettavo la cosa con rassegnazione, che solo la rimandavo ad un tempo x per la sua soluzione. E così, proprio ora, l’energia vitale che abitava il mio corpo si agitava e chiedeva di muoversi in orizzontale, proprio concretamente, in senso geografico, sulla faccia della Terra. In Spagna. Dove avrei voluto andare da tanto tempo e non osavo. Bastava ubbidire ai piedi e l’osare era bello che fatto.
Ho comunicato al mio maestro spirituale che quest’anno avrei fatto un “seminario-intensivo-attraverso-il-corpo” chiedendo e ricevendo il suo sostegno. Più di una volta, durante il Camino, ho sentito la forza della nostra relazione, che si è rinsaldata ulteriormente da parte mia - della saldezza da parte sua non avevo dubbi.

Ogni cosa che facevo, aveva ora il colore del preparativo, era finalizzata al Camino. Così, un giorno, poiché non sapevo ancora quale fosse la mia capacità di marcia, seguendo un impulso improvviso e trascurando il fatto che era il primo pomeriggio di un’estate eccezionalmente torrida - e quindi il tempo della sosta piuttosto che quello del movimento - ho telefonato a Vittorio, che abita tra le colline come me e gli ho comunicato che sarei andata a trovarlo, a piedi, con lo zaino pieno a metà. Non sapevamo quanti chilometri fossero, non li avevamo mai contati prima fino ad allora, né io né lui. Mi sono preparata rapidamente, prima di una eventuale resipiscenza, e mi sono lanciata all’aperto.
Ho trovato strano, questa volta, avviarmi su per il sentiero e uscire dal territorio della cascina senza l’automobile, anche se, naturalmente, l’avevo già fatto moltissime volte per una passeggiata o per controllare le condizioni della strada dopo il maltempo. Ho trovato ancora più strano poi, uscire dallo sterrato e immettermi sull’asfalto. Senza ruote. Con gli scarponi da montagna e lo zaino. Ero sola nel silenzio caldo e luminoso delle due. Ero leggermente a disagio, mi sentivo un poco fuori luogo, e non mi era ben chiaro il perché. Forse perché non sapevo bene che cosa fossi di preciso: non un’escursionista, perché questi partono di primo mattino; una sperimentatrice piuttosto, una camminatrice insolita perché il caldo pomeridiano, se non è l’optimum per una camminata, forse lo è per un esperimento di resistenza allo stress.
Da subito l’asfalto mi ha dato fastidio, e da subito ho cercato di camminare, quando era possibile, sul secco terreno friabile a lato, sui pani d’erba che per l’arsura si erano ridotti a lunghi ciuffi gialli. Di quando in quando guardavo l’orologio, ma sapevo già che non serviva, perché non conoscevo la lunghezza del tragitto. Passava rara qualche automobile, per il resto tutto era silenzio. Camminando a piedi notavo tanti particolari che dal veicolo, sia per la velocità sia per la distanza da essi, ovviamente di solito non si possono cogliere. Le buche e le asperità della strada, le diverse caratteristiche della vegetazione ai lati, degli edifici nelle frazioni e nei paesini, soprattutto la enorme quantità e varietà di carte stinte e consunte e di residui plastici sparsi ovunque - il nastro sottile, lucido, marrone di una audio-cassetta correva mimetizzato tra i fili d’erba.
Di curva in curva, salendo e scendendo sul nastro asfaltato, mi godevo il panorama delle colline del Monferrato, sempre vario, sempre nuovo. Camminando, anche la mia energia si metteva in movimento, cresceva, mentre passavo tra una villetta e un tratto di gerbide, tra un cane che abbaiava dietro un cancello e un albero che ombreggiava sulla stretta strada, tra una piscina in un giardino e un casolare tutto serrato. Cominciava a piacermi quell’andare solitario, anzi ci prendevo proprio gusto, era un godimento progressivo: lo zaino non pesava affatto e il bastone di nocciolo scandiva il ritmo nell’ambiente che si apriva ad accogliermi.
Fischiettavo come quando ero bambina, e il suono si faceva sempre più alto nel tunnel di alberi che ora, salendo e poi scendendo, accompagnava la strada rifattasi piacevolmente sterrata. Dopo aver modulato il fischio in strani accenni ripetuti di improvvisate melodie, che in quel momento erano il mio ritmo, mi sono lanciata a provare alternativamente la voce in vocalizzi e sillabe, ricercando suoni e frasi musicali che mi corrispondessero. Che meraviglia, l’effetto! Sentivo che mi aprivo tutta: e petto, e polmoni, e gola, e occhi e tutto il resto del corpo, che si faceva in questo modo più forte. Procedendo gagliarda ho trovato quello che ero: una camminatrice. Semplice, ovvio.
Mi stava a pennello quest’abito. Questa comprensione ha permesso all’energia, già abbastanza alta, di montare ancora, rinvigorendomi ulteriormente. Allora ho cominciato ad agitare gambe e piedi, saltellare, balzare in avanti, correre, e la camminata è diventata una danza: danzavo sulle punte e sui talloni degli scarponi - che non mi sembravano più così giganteschi - accompagnando col corpo la voce.
La gioia cresceva, un’ondata di slancio si succedeva ad un’altra, mentre piroettavo davanti a due cavalli che pascolavano tranquilli e si avvicinavano al recinto perché gli dessi qualche ciuffo d’erba che cresceva fuori della loro portata. Come mi sono sollevata allontanandomi da loro, hanno fatto irruzione sulla lavagna trasparente della mia fronte interiore alcune parole: camminatrice di Dio.
È stata così forte questa esplosione che mi ha scosso tutta costringendomi
ad arrestarmi di colpo. Mi sono accasciata sul bastone che reggevo con entrambe le mani, ho appoggiato la fronte su di esse, e mi sono lasciata piangere, squassata dall’emozione, lunghi rivoli di lacrime straordinariamente dolci. Più che colpita, mi sono sentita penetrata dalla folgore della comprensione che, con la velocità che le è propria, è dilagata dentro di me come oro liquido - o rosolio, “nettare degli dei”.
Ho vissuto la commozione del riconoscimento innegabile e ho detto di sì, ancora una volta: “Sì, sono camminatrice di Dio”. Mi è tornata in mente l’esperienza intensa di due estati prima, quando avevo riconosciuto di essere “slancio di gioia verso Dio”, e ho riconosciuto, una volta di più, che ciò che è veramente vero permane e si ripresenta anche a distanza di tempo, attraverso l’occasione giusta.
Il Camino si spalancava di fronte a me. Era impensabile, ora, non farlo. Era la cosa più naturale che io potessi ora intraprendere. Senza più indugi.
Sono arrivata da Vittorio cantando e danzando sotto due ali di fronde basse, sudata marcia ma straripante di vitalità. Dopo una chiacchierata e un tè, il mio amico mi ha riaccompagnato a casa in auto, accertando così la distanza e calcolando il ritmo di marcia: circa tre chilometri e mezzo all’ora. Non male.
Giorno dopo giorno sono scivolata nella corrente sempre più rapida che mi portava al centro del gorgo. Al centro c’era limpida quiete ad aspettarmi, come nell’occhio del ciclone, come sempre dentro il cuore delle cose.

Ho trascorso il tempo successivo occupandomi di particolari tecnici. Sarei partita dopo ferragosto perché l’estate era ardente e la penisola iberica in preda agli incendi.
Inoltre, non avendo una credenziale vera e propria, mi sono fatta rilasciare dal parroco del mio comune una lettera di accompagnamento (il mio primo timbro!) come nei tempi antichi. La coincidenza era curiosa e ben promettente: partivo da S. Giacomo Pellegrino di Rocca Grimalda per arrivare a Santiago Peregrino de Compostela.
Soprattutto mi sono occupata di preparare lo zaino con scrupolosa fedeltà alle varie istruzioni ricevute, con una variante personale: un piccolo quaderno dove avrei scritto le impressioni del viaggio e che avrei spedito ogni due, tre giorni a familiari ed amici in sostituzione delle tradizionali lettere e cartoline, così avrebbero potuto seguirmi più da vicino nel Cammino.


 

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Da questo momento si diventa “pellegrini” per antonomasia - come ricorda Dante - Camminatori di Dio sempre, dentro e fuori del Camino: la ricerca di Sé, del senso della Vita, di Dio, non ha più fine.

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