Riflettendo su Acciaio
Un sapore acre nel palato: questa la sensazione che provo dopo l’ultima pagina di Acciaio di Silvia Avallone, Edizioni Rizzoli, il romanzo sostenuto da un battage pubblicitario intenso e da una fascetta di copertina che definisce l’autrice una nuova straordinaria scrittrice italiana.
Che la Avallone sia una scrittrice non c’è dubbio: riesce a tenere avvinto il lettore alle sue pagine, intreccia con perizia le (dis)avventure dei personaggi, ne penetra i turbamenti e i drammi, sfiora toni epici nel racconto della morte bianca, usa un lessico che va dal triviale al sublime (mi ha colpito nella descrizione di Francesca l’espressione lucore lattile che mi ricorda D’Annunzio),
Quello che mi disorienta è il fondale su cui agiscono le protagoniste –due adolescenti irrequiete e spregiudicate- : una Piombino greve, dominata dalla fabbrica che la fagocita, una classe operaia inesistente per iniziativa sindacale e dignità, famiglie operaie allo sbando che vivono in quartieri degradati moralmente e materialmente.
Non c’è luce, non c’è speranza in un tessuto urbano raccontato con spietatezza e di cui non si rammenta mai una certa vivacità culturale e intellettuale. Manca la suggestione di certi angoli della città vecchia o di certe strade lungo la costa, in bilico tra il promontorio e il mare; la stessa bellissima Piazza Bovio, la terrazza sull’Arcipelago, è solo la proiezione verso un mondo altro, quello delle isole, irraggiungibili anche se a poche miglia di distanza. E’ nell’insularità infatti che i personaggi concentrano il sogno, la fuga da una realtà meschina: l’Elba è terra di paesi-presepi, di spiagge bianche, della vita come dovrebbe essere.
I giovani operai della Lucchini (Alessio, Cristiano) sniffano cocaina per andare avanti, rubano il rame, sognano la bella macchina e votano a destra perché Berlusconi non è uno sfigato; quelli maturi non potrebbero essere peggiori: Arturo rinnega la fabbrica per trafficare sporco e rischia la galera; Enrico, gelosissimo della figlia stupenda che sta crescendo, la spia col binocolo dal balcone di casa mentre è al mare con i coetanei e riempie di botte lei e la madre quando sgarrano.
Le mogli, pur con qualche velleità di ribellione, restano alla fine passive e succubi: Sandra, che pure lavora ed è impegnata politicamente, si lascia abbagliare dai soldi e dal diamante che il marito-filibustiere le porta in casa; Rosa che ha poco più di trent’anni e ne dimostra il doppio, dopo le violenze di tutta la sua disgraziata vita matrimoniale, non riesce, neppure dopo l’ennesimo gravissimo episodio a trovare la forza di denunciare il marito e finisce inebetita a imbottirsi di tranquillanti e a diventare l’infermiera di un Enrico finalmente innocuo a causa di un incidente stradale.
Le case operaie, le scale, i cortili sono squallidi e maleodoranti: vi brulica un’umanità disperata, senza memoria né futuro, plagiata dalla televisione e dalle mode effimere.
La scuola per Anna sarà forse un’occasione di riscatto ma Francesca dovrà invece rinunciarci a causa del padre, che la esige a casa, a aiutare la madre, frustrata e depressa: da qui la sua ribellione scandalosa e masochista. Fino al ritrovamento dell’amica che credeva persa per sempre e a quella fuga nell’isola-sogno, anche soltanto per un tuffo nell’acqua trasparente delle Ghiaie.
Non conosco bene la Piombino d’oggi, ma vi ho abitato per un decennio fino a metà degli anni Settanta: il Liceo Classico che frequentavo era a Marina e tutti i giorni, andandoci, potevo salutare la mia Elba.
Ho conosciuto una Piombino attiva, dignitosa, fiera del suo stabilimento, popolata da una classe operaia preparata e sensibile, che conosceva il valore della cultura e mandava con grandi sacrifici, i propri figli, se erano bravi, al Liceo Classico, la scuola dei ricchi, della futura classe dirigente.
Ho così avuto compagni di scuola che erano di estrazione sociale borghese e che avevano padri medici o avvocati o impiegati e vivevano nelle belle palazzine stile liberty di Salivoli o in quelle, nascoste tra gli olivi, di Montemazzano; ma ho avuto anche compagni, i più –Alessandra Patrizia Stefania Rita Manrico Angela Carla…- che avevano i babbi operai, come il mio, che era un operaio-di mare, e abitavano in case accoglienti, pulitissime e con i fiori sul balcone. E i loro figli erano quelli, spesso, che andavano meglio a scuola, per loro merito ma anche perché la cultura era un valore imprescindibile per le famiglie.
L’aria che si respirava era sì viziata dal fumo ma sapeva anche di progetti, di speranze, di voglia di lottare per una società meno ingiusta: gli universitari pisani venivano nelle scuole superiori per raccontarci che succedeva; facevamo assemblee e cortei insieme agli operai dell’Italsider, difendevamo gli spazi di democrazia faticosamente conquistati a scuola
Piombino era viva: cinema, teatro, iniziative culturali di vario genere, Biblioteca comunale funzionante…
Lo so, sono passati decenni, ma è possibile che di quel fervore, di quella dignità non sia rimasto nulla nella sua gente né sia stato trasmesso, almeno minimamente, ai figli?
Non voglio crederci, anche se la Avallone mi racconta il contrario
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Come mi batte forte il tuo cuore
Un inno all’amore e alla verità è quello che innalza Benedetta Tobagi nel suo Come mi batte forte il tuo cuore Edizioni Einaudi.
Dunque ci sei?
Dritto all’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu se proprio lì’
Non c’è fine al mi stupore, al mio tacere.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
E’ dall’ultimo verso di questa poesia, Ogni caso, di Wislawa Szymborska, Nobel per la letteratura nel 1996, che è tratto il titolo che Roberto Saviano ha definito il più bello degli ultimi decenni.
E il contenuto di questo lungo racconto è all’altezza del titolo.
La Storia di mio padre, come quest’opera prima è sottotitolata, ricostruisce il percorso umano e professionale di Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera, storico e presidente del sindacato dei giornalisti lombardi , ucciso a 33 anni, il 28 maggio 1980 a Milano, a due passi da casa, da una semioscura organizzazione terroristica vicina alle Brigate Rosse.
Quando il padre morì, Benedetta aveva tre anni e suo fratello Luca sette. Non conserva ricordi del padre da vivo e l’episodio, tenerissimo, con cui si apre il libro, le è stato dunque raccontato: Bebi, appena alzata, con la sua mamma-canguro di peluche e i giornali del mattino, trotterella verso il lettone, dove il babbo indugia quella mattina perché la riunione della sera prima è finita tardi e fino a mezzogiorno non lo aspettano in redazione. Al padre sorridente e divertito la piccola cede il suo prezioso carico e ottiene in cambio il cucciolo Puntatore, che lui nascondeva sotto le lenzuola; lei lo prende e lo pone subito nel marsupio della madre, poi ritorna a giocare mentre il babbo si immerge nella lettura dei quotidiani.
Se i ricordi più lieti latitano, purtroppo impressi indelebilmente nel cuore e nella mente sono quelli atroci del padre riverso a terra:
Ho visto e sentito ogni cosa: Ho continuato a chiedere di chiamare il dottore, dopo mi hanno portato via. Ho pensato ciò che ogni bambina di tre anni avrebbe pensato: l’ho lasciato morire, è colpa mia.
E’ da questo oscuro, doloroso, infantile senso di colpa che nasce la lunga indagine di Benedetta, la necessità di ricostruire personalmente e capillarmente la tragedia, per conoscere anche gli anfratti più misteriosi del contesto sociale e culturale in cui è maturata la scelta scellerata del crimine. Ricomposto il drammatico puzzle, Benedetta si sente sollevata, avverte di aver compiuto un dovere morale irrinunciabile, d’aver colmato il debito di verità che doveva al padre e si sente pronta a vivere, finalmente.
Così scrive infatti nella bellissima lettera che gli rivolge in chiusura:
Voglio ringraziarti perché mi hai dato la vita, due volte. Quando mi hai generata, e quando mi hai dato la forza di scegliere di lottare per essere viva, invece di lasciarmi sopravvivere, senza essere.
Mi hai accompagnato incontro alla mia vita. Prendermi cura di te mi ha spinto ad aprirmi verso il mondo. Per te ho avuto fame di leggere, scrivere, conoscere, e non sono mai sazia.
L’inchiesta della Tobagi è condotta con il rigore e la precisione di una ricerca storica: una mole enorme di appunti, articoli, documenti, libri sono spulciati e studiati. Dalla libreria di casa agli archivi cittadini, dentro e fuori l’Italia, nulla è trascurato; così come gli incontri, le conversazioni con chi aveva incrociato la propria vita con quella privata e pubblica di Walter Tobagi. Ne emerge un quadro storico e sociale terribile; ne emergono responsabilità mai del tutto chiarite, con l’ombra della P2 che si allunga anche sulle organizzazioni terroristiche.
Del padre, Benedetta parla in terza persona, chiamandolo per nome e per cognome, quando prevale il ruolo della studiosa; lo chiama papà quando è invece il ruolo della figlia ad avere il sopravvento.
Tobagi spicca, nella ricostruzione, in tutto il suo valore di giornalista impegnato nell’analisi e nella comprensione di quegli anni difficili: se ne sottolinea l’intelligenza, la perspicacia, la sensibilità, lo spiccato senso di giustizia, il coraggio del fare ma anche le umanissime paure, l’onestà intellettuale, la profondità del suo cristianesimo giornalmente praticato nella professione e nella vita privata.
E’ un ritratto a tutto tondo, potente e tenero, che avvince il lettore di pagina in pagina, coinvolgendolo nella scrittura piana e lineare, eppure colta e raffinata, piena di echi filosofici e letterari, di cui Benedetta, degna figlia di tanto padre, è capace.