Percorrendo le strade di Ginza, uno dei quartieri più caotici di Tokio, verso la fine dello scorso millennio, quel che colpiva di più lo sguardo dei passanti era vedere un uomo vecchissimo, curvato dal peso invincibile degli anni, camminare a passi minuscoli tenendo al guinzaglio una tartaruga. Insieme facevano una magnifica coppia: mai due creature così sproporzionate erano apparse tanto sincronizzate nel loro lento procedere.
Di solito, il loro andare seguiva il percorso dei marciapiedi, costeggiava le minuscole botteghe artigianali dalle quali si esalava l’odore dei manufatti all’interno, fossero essi scarpe appena riparate o borse e cinture tirate a lucido nel pellame lavorato di fresco.
Più spesso, però, il tragitto era interrotto da soste prolungate davanti a vetrine che esibivano con sfacciata innocenza le più sublimi delizie del palato: dolcetti di riso d’ogni forma e dimensione, torte che imitavano con la panna il candore innevato del Fujiyama o budini ricoperti da fiori di ciliegio.
Questi ultimi, in particolare, attraevano lo sguardo di Junichiro; allora le fessure dei suoi occhietti brillavano e parevano quelli di un ragazzo innamorato della vita.
Capitava così che la tartaruga lo superasse di qualche passo e che lui fosse costretto a tirare un pochino la corda del guinzaglio, per persuaderla a minor fretta.
Quando procedere diligentemente lungo il marciapiede non era più possibile e occorreva attraversare la strada –impresa che durava una buona mezz’ora- il traffico rallentava per Junichiro: a turno le macchine si fermavano e ricominciavano lentamente ad andare solo dopo il suo passaggio, scorrendogli dietro piano piano.
Nessuno si lamentava, nessuno inveiva o manifestava segni d’impazienza. Quel signore con la tartaruga al guinzaglio era Junichiro Kawasaki, una gloria del Giappone e la città di Ginza era fiera di lui.
A qualcuno che aveva osato chiedere, talvolta, al gran vecchio perché passeggiasse con quel singolare animale da compagnia, era stato risposto: “La tartaruga è un esempio di pazienza e di sicurezza. La sua lentezza mi costringe ad essere lento a mia volta.”
Naturalmente nessuno aveva osato pensare che fosse il contrario e che Junichiro cercasse in quella maniera originale di mascherare la sua debole andatura.
Quel che lui diceva andava soltanto ascoltato, non messo in discussione.
Il 15 agosto 1898, la spiaggia di Kujukurihama, nella Penisola di Boso, era particolarmente affollata. La gente, in costume di cotone chiaro, cercava nel mare un po’ di refrigerio all’afa che ormai incombeva da settimane sul Giappone e che non risparmiava la penisola che pure godeva generalmente, per la sua conformazione geografica, di maggiore ventilazione e quindi di migliori condizioni climatiche.
Lo specchio di mare antistante Teteyama, all’estremità meridionale, era punteggiato di barche di pescatori che in quel periodo intensificavano la loro attività, per rifornire di pesce fresco le trattorie sul lungomare. Tokio non era distante e se ne percepiva la vicinanza per intuizione: bastava lasciar vagare lo sguardo sulla Baia.
Junichiro venne alla luce nel tardo pomeriggio, dopo doglie durate un’intera giornata. La puerpera, madida di sudore, guardava quel fagottino con i capelli nerissimi accanto a lei sul futon, come si trattasse di una creatura approdata per avventura da un lontano pianeta.
Era giovane e inesperta, ma intelligente, piena d’amore e di buona volontà. Si sarebbe rivelata un’ottima madre.
Nella casa della sua nascita, dove la città cedeva il posto alla campagna, Junichiro sarebbe vissuto fino a ventun anni e quella casa, pur nella sua essenzialità, o forse proprio per quello, sarebbe stata sempre la sua preferita anche rispetto alle abitazioni più grandi e comode delle età successive, specie della maturità.
Il profumo del legno dell’intelaiatura e dei pannelli scorrevoli era il primo che avvertiva al suo risveglio e precedeva quello del tè e delle focacce di riso.
Prima di andare a scuola aiutava i suoi a liberare il pavimento dai futon della notte, che venivano arrotolati e deposti negli armadi per lasciare il posto ai tatami. Così era pronto lo spazio alla vita del giorno, ai pasti, al lavoro, al gioco, al ricevimento e all’intrattenimento.
L’insegnamento buddista secondo cui tutto è caduco, transitorio, effimero; quello scintoista, profondamente rispettoso della natura e delle sue creature, entrambi veicolati in lui prima dalla famiglia e poi dalla scuola, avevano fatto breccia presto nella sua mente e nel suo cuore e l’avevano persuaso della necessità di una simbiosi armoniosa ed essenziale con l’ambiente in cui era immerso.
Junichiro sapeva che la sua casa fatta di legno e carta di riso non solo poteva resistere ai terremoti ma esprimeva anche la ricerca di un rapporto positivo e reciproco con il paesaggio che lo circondava.
Egli amava particolarmente, d’estate, aiutare i suoi a rimuovere gli shosi, i pannelli mobili che formano le pareti interne ed esterne: allora gli pareva che lo spazio si ampliasse a dismisura e potesse contenere l’universo intero. La brezza poteva entrare a rinfrescare le stanze e la vita domestica si svolgeva a stretto contatto col giardino. La sua abitazione diventava una tenda, un padiglione immerso nel verde: gli uccelli, gli insetti e le farfalle si trasformavano in compagni di gioco e il contatto con l’erba lo faceva sentire uno di loro.
Ma l’estate, la sua stagione preferita, era preceduta da un avvenimento che lo esaltava: la fioritura dei tre alberi di ciliegio del suo giardino.
Junichiro seguiva la lenta comparsa delle gemme e poi la loro quasi impercettibile evoluzione verso l’apertura della minuscola corolla: l’albero allora si vestiva di una luce delicata, di un pallore di perla. Era una gioia, al mattino, prima dell’uscita per andare a scuola, sostare qualche minuto a godersi quella meraviglia.
Poi, dopo qualche settimana, i petali cominciavano a cadere in una pioggia aerea e rosata: qualcuno era più veloce a toccare il suolo, altri indugiavano sulle ali di un insetto di passaggio e solo più tardi si univano ai fratelli, a terra, in un soffice tappeto bianco. (1.continua)