Passarono gli anni. Junichiro studiava con profitto, ci teneva a formarsi una solida cultura e in questo era incoraggiato dai suoi, che non avevano potuto permettersela e inevitabilmente riversavano sul figlio aspettative e speranze.
Non gli pesava stare sui libri, anzi, il tempo che trascorreva chino su di loro gli volava via in un lampo. Era sensibile e attento, gli piaceva scrivere versi quando avvertiva che il suo animo traboccava di sentimento e d’inquietudine, come un fiume che per le eccessive piogge esce dal suo letto. Così, poteva essere una foglia che cadeva da un ramo a ispirargli parole sulla precarietà umana, mentre, al contrario, lo schiudersi delle prime gemme del suo giardino gli suggeriva un haiku sulla bellezza irripetibile della natura.
Tra emozioni forti e contrastanti si dipanava la sua vita di adolescente quattordicenne, quando, un pomeriggio estivo, conobbe una persona speciale. In realtà la conosceva già perché era sua cugina Erika, che abitava a Kyoto, di due anni più giovane di lui, in visita con i genitori. Ma quel pomeriggio fu come se la vedesse per la prima volta: l’aveva lasciata bambina, non particolarmente carina né aggraziata di modi –un corpo magro magro, le spalle ossute, una timidezza scontrosa, lo sguardo sempre rivolto in basso- la ritrovava ora completamente diversa: cresciuta, il seno in boccio, gli occhi meno timidi e di un grigio-azzurro che incantava –come aveva fatto a non accorgersene prima?- i capelli neri raccolti in uno chignon sulla nuca.
Junikiro rimase folgorato: il suo pensiero andò subito all’apprendista geisha incontrata per le strade di Tokio quattro anni prima e mai più uscita dai suoi desideri.
La settimana che gli zii e la cugina trascorsero in famiglia fu deliziosa per Junikiro: lasciando da parte qualsiasi timidezza, coinvolse Erika nel suo mondo: lo studio, la poesia, la natura. E lei, dal canto suo, fece altrettanto. Quando fu il momento di lasciarsi, le fece una promessa:
“Non sei solo la mia cugina e la mia amica più grande, sei la ragazza della mia vita, lo sento. Non perdiamoci. Appena posso vengo a prenderti e ti sposo.”
Sfiorò la sua bocca di pesca con un sussurro di bacio. Lei lo lasciò fare e arrossì di piacere e d’emozione.
Junichiro non si capacitava di dover stare lontano da Erika: o meglio lo comprendeva razionalmente e cercava di farsene una ragione, ma il suo cuore era come un cavallo scalpitante che non accettava di essere domato dalla logica e dal buon senso. Era innamorato così fortemente da provarne quasi imbarazzo. Si sorprendeva a pensare a lei quando avrebbe dovuto imparare la storia o applicarsi nella matematica; risaliva a fatica dal pozzo dei desideri che si era creato per sopperire alla solitudine, quando qualcuno lo riscuoteva dal torpore per invitarlo al dovere; non avvertiva la fame e se mangiava, ma molto meno del solito, era solo per compiacere a sua madre che vedeva preoccupata.
“Siamo stati innamorati tutti, ma tu esageri!!” sbottò una sera suo padre, dopo l’ennesima figuraccia per via della cronica disattenzione.
Fu per questo che, quando lei compì quattordici anni e lui sedici, cioè l’età minima per farlo, Junichiro e Erika si sposarono. La cerimonia si svolse a Kyoto, presso il tempio shintoista di Umemiya–taisha, dedicato alle divinità dei matrimoni, della nascita e della prosperità dei figli. Il giardino che lo circondava era famoso per la sua bellezza e le colorate fioriture di tutto l’anno.
I due giovanissimi coniugi sarebbero poi andati ad abitare a Tokyo sotto l’ala protettrice della famiglia di lui, in attesa che l’impaziente ragazzo trovasse un’occupazione e l’indipendenza economica.
Lo shiromoku, l’abito bianco che Erika indossava abbagliò Junikiro, in tradizionale kimono da cerimonia: l’immagine gli rammentava per associazione il candore dei ciliegi in fiore. La coppia, prima di entrare nel tempio, si purificò con l’acqua della fontana posta all’ingresso, seguita in quei gesti rituali, antichi come il Giappone stesso, da tutti i partecipanti. Varcata la soglia e avvicinatisi al celebrante, gli sposi lo udirono annunciare il loro matrimonio agli dei e pronunciare preghiere e benedizioni. Poi furono invitati a bere tre sorsi di sakè da tre tazze di differenti dimensioni.
Junichirò pronunciò il suo nome e Erika altrettanto. Quindi, come avevano provato nei giorni precedenti, tenendo in mano un ramo sempreverde, si inchinarono due volte e per due volte batterono le mani, inchinandosi di nuovo e offrendo i rami alla divinità per dimostrare la sincerità delle loro intenzioni. Seguì infine lo scambio degli anelli. L’emozione li faceva tremare e arrossire. Erano usciti da poco dalla fanciullezza e a tratti quella cerimonia pareva loro la prosecuzione degli antichi giochi. Ma c’era anche consapevolezza e desiderio e sfida nella scelta coraggiosa (o avventata?) che avevano fatto. Seppure tanto giovani riconoscevano come esclusiva l’attrazione che li univa: non ci poteva essere per Junichiro un’altra Erika e viceversa. Di questo erano sicuri. E non si sbagliavano. L’unione sarebbe stata viva fino alla fine dei loro giorni e i loro giorni sarebbero stati tanti. Il celebrante quel giorno aveva pregato con forza e determinazione, evidentemente, e così tutti gli invitati. Loro molto meno: erano distratti da troppi stimoli, esterni e interiori. Ma le divinità, intenerite dalla loro età, sorrisero e compresero.
Marito e moglie, moglie e marito. Finalmente da soli, senza la sorveglianza occhiuta dei genitori, a dividere la stessa stanza, lo stesso futon, lo stesso sonno e sogno! A esprimere liberamente il desiderio di baciarsi, abbracciarsi, intrecciarsi nell’amore.
La prima notte, nella casa della sposa, la trascorsero così, a sperimentare la tenerezza di addormentarsi insieme, senza il coraggio o l’audacia di esplorare le loro diversità, le loro complementarità, sfiniti dalla stanchezza, dai saluti, dai festeggiamenti. Crollarono come bambini saturi di giochi e di movimento. Inutilmente la madre di Erika cercò sul viso della figlia, la mattina dopo, traccia dell’accaduto, il segno della sua bambina diventata donna. Non trovò nulla, ma naturalmente tacque. La vide serena, gioiosa e questo le bastò. Occorreva prepararla alla partenza, nel pomeriggio, per Tokio, con marito e suoceri al seguito. Fu brava quasi fino all’ultimo; poi, quando la vide al finestrino del treno sorriderle e salutarla col fazzoletto, crollò e lasciò le lacrime libere di bagnarle il viso e le spalle di sussultare al pianto. Quattordici anni. E già la perdeva.
(3.continua)