Titolo | 150 anni d´Italia | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Saggistica | ||
Pubblicata il | 17/03/2011 | ||
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Quando si parla di Risorgimento si allude ad una rinascita. In effetti, il lungo processo che porta all’unificazione italiana è un tortuoso cammino di riscatto e di redenzione. Rispetto ai quattro secoli di dominazione straniera che l’hanno preceduto.
Fin dalla fine del XV° secolo, l’Italia, divisa in stati regionali equivalenti e conflittuali, appare debole e vulnerabile agli occhi dei potenti stati nazionali europei e perciò appetibile, terra da conquistare e colonizzare. Con i suoi tesori di paesaggio, arte e cultura. Così subiamo la dominazione francese, spagnola e austriaca, che si dipana nei secoli col suo fardello di umiliazioni, angherie, soprusi. Fino a Napoleone, che unifica l’Italia nel nome di un Regno destinato a durare quanto le sue alterne fortune, sebbene proprio lui, l’imbronciato Corso, avesse ceduto Venezia agli Austriaci, facendo perdere alla Serenissima Repubblica l’indipendenza di cui godeva da undici secoli: offesa incancellabile per Ugo Foscolo, che farà dipendere proprio dall’onta del trattato di Campoformio, oltre che dalla delusione amorosa, la drammatica scelta del suicidio da parte della sua creatura letteraria –e alter ego- Jacopo Ortis.
Dopo la burrasca napoleonica, il Congresso di Vienna ridisegnerà i confini territoriali e politici d’Europa, riservando all’Italia una suddivisione in una diecina di stati, tutti più o meno legati a doppio filo all’Austria. Metternich spargerà sale sulle ferite, definendo il Belpaese una semplice espressione geografica.
Il regime poliziesco imposto dalla Restaurazione e dalla Santa Alleanza riesce per cinque anni a far tacere ogni dissenso. Poi, come i semi di grano che germogliano sotto la neve, fino a bucare il suolo gelato e miracolosamente uscire, così, timidamente spuntano in Italia le prime piantine del dissenso e della ricerca di maggiore libertà. Sono le società segrete: la Carboneria prima, la Giovine Italia poi.. I moti che organizzano falliscono tutti provocando la morte per fucilazione e impiccagione di molti patrioti; altri finiscono nelle famigerate carceri austriache o sono costretti all’esilio o alla fuga. Così accade a Silvio Pellico e Federico Confalonieri che trascorrono i migliori anni della loro vita nel carcere dello Spielberg; a Ciro Menotti che viene giustiziato; a Giuseppe Mazzini che ripara in Francia e Svizzera, a Giuseppe Garibaldi che attraversa l’Atlantico e combatte a fianco dei patrioti sudamericani. Poi ci saranno i trecento giovani e forti della tragica spedizione di Sapri, nel salernitano, guidata da Carlo Pisacane, trucidati da quei contadini che si erano illusi di far sollevare contro i Borboni. Almeno due generazioni di italiani diventano carne da macello per gli ideali di libertà e indipendenza. Li nutre il Romanticismo imperante che sublima l’amor di patria e il sacrificio estremo come in Marzo 1821, nell’Adelchi o nel Conte di Carmagnola, tragedie che, pure ambientate in epoche anteriori, alludono chiaramente al presente. Nel Giuramento di Pontida di Giovanni Berchet il patto contro il Barbarossa diventa metafora di un’unità italiana capace di superare qualsiasi particolarismo. Echi patriottici suscitano naturalmente le Ultime lettere di Jacopo Ortis, i Sepolcri di Ugo Foscolo e la Francesca da Rimini di Silvio Pellico mentre, tra i romanzi storici, oltre ai Promessi Sposi, in cui la condanna della dominazione spagnola secentesca è letta come allusione implicita di quella austriaca di due secoli dopo, grande successo riscuotono Ettore Fieramosca e Niccolò de’ Lapi di Massimo d’Azeglio.
Anche il melodramma accende fuochi libertari: a infiammare gli animi sono soprattutto il Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini e il celeberrimo Nabucco di Giuseppe Verdi, dove il lamento degli ebrei esuli a Babilonia, che piangono la patria perduta, diventa il pianto degli Italiani oppressi. Del resto W V.E.R.D.I non è forse l’acronimo di Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia?
Nella pittura, sono soprattutto i quadri di Francesco Hayez a riverberare amor di patria: in Pietro l’Eremita la crociata per liberare i luoghi santi dagli infedeli rimanda direttamente alla lotta per liberare il sacro suolo della patria dagli oppressori; nei Vespri siciliani , l’episodio della violenza alla donna dell’isola, da parte dei dominatori francesi, diventa emblema della terra madre violata; nel famoso Il bacio, l’appassionato saluto alla donna amata, al di là delle intenzioni dell’autore, assurge a simbolo dell’ addio del volontario che parte per la liberazione del suolo della patria tradita.
I giovani patrioti italiani sono dunque sostenuti da una cieca fiducia nella possibilità di forgiare un futuro diverso per loro e per chi verrà dopo. Mettono in conto la morte, fascinoso mito romantico, la bella morte per una giusta causa. Sono giovani, talvolta giovanissimi: l’età media è molto più bassa di oggi e il sogno pare a portata di mano. Il 1848 incendia l’Europa intera e spazza via il vecchio. Da noi, il 17 marzo (un altro 17 marzo!) Venezia insorge e, a furor di popolo, caccia gli Austriaci; il giorno successivo è la volta di Milano: tutti partecipano, nelle Cinque giornate, alla sollevazione della città, anche le donne, anche i ragazzini: si costruiscono barricate, si combatte con quel che capita. La guarnigione cittadina comandata da Radetzky è costretta a ritirarsi nelle fortezze del Quadrilatero. E’ un momento complesso ma di grande entusiasmo collettivo. A Torino, Carlo Alberto, il Re Tentenna, pensa sia giunto il momento di varcare il Ticino e portare guerra all’Austria: è la prima guerra d’Indipendenza. Dallo Stato della Chiesa, dal Granducato di Toscana, dal Regno delle Due Sicilie, la pressione della popolazione obbliga i rispettivi sovrani a mandare rinforzi al Re di Sardegna. Da Pisa partono gli studenti universitari che combatteranno a Curtatone e Montanara, con eroismo, dopo aver tagliato la punta del loro cappello, che è d’intralcio nelle operazioni belliche. Le prime battaglie vanno bene, poi l’inizio della fine: i rinforzi sono ritirati, Carlo Alberto perde a Custoza e definitivamente a Novara. Il sacrificio della prima guerra d’Indipendenza italiana non porta alcun risultato.
Il movimento democratico ne riceve un duro contraccolpo. La Repubblica Romana, nel febbraio del ’49, proclama la fine del potere temporale del papa; vive soltanto qualche mese ma si regala un’Assemblea costituente eletta a suffragio universale, che scrive Costituzione, rimasta in vigore un giorno, talmente avanzata per i tempi, da divenire molto dopo ispiratrice dell’attuale. Nella sua disperata difesa contro il corpo di spedizione francese inviato a sostegno dei papalini, cadono molti volontari repubblicani guidati da Garibaldi, tra i quali il ventiduenne Goffredo Mameli, l’autore dell’omonimo Inno.
L’ora della sconfitta è già suonata anche per Brescia, che si è ribellata nella speranza di un’imminente liberazione della Lombardia, per Firenze, ripresa dagli Austriaci, per la Sicilia, dove l’esercito borbonico dopo aspri combattimenti, a metà maggio, riconquista l’isola, abbattendo il governo provvisorio che chiedeva la secessione dal Regno e la costituzione del 1812.
Ultima a cadere, stremata dalla fame e da un’epidemia di colera, dopo il lungo assedio austriaco, è Venezia. L’esperienza delle repubbliche democratiche si conclude drammaticamente.
Ora è il momento dei moderati: Camillo Benso Conte di Cavour, finissimo diplomatico e politico, intuisce che il suo Regno di Sardegna non potrà mai vincere l’Impero austro-ungarico senza un aiuto esterno. E comincia a tessere la complessa tela diplomatica che lo porterà all’alleanza con Napoleone III, l’ambizioso sovrano francese, nipote del grande Corso. Per far parlare dell’Italia in un consesso europeo, il Ministro savoiardo qualche anno prima, nel 1855, aveva spedito in Crimea diciottomila bersaglieri del suo piccolo regno, un apporto straordinario, che aveva contribuito alla vittoria dell’inedita alleanza di Francia, Inghilterra e Turchia contro la Russia, da sempre interessata all’area mediterranea. Il frutto di tale incredibile sacrificio consiste per Cavour nel potersi sedere al tavolo dei vincitori e offrire alla riflessione di quei navigati uomini di stato la condizione pietosa in cui versa il nostro Paese. Napoleone III non si allea ovviamente per compassione, ma, come sempre nella grande storia, per tornaconto politico e territoriale. Cavour accetta di accollarsi l’onerosissimo costo delle spese militari e promette la cessione di Nizza (quanto si arrabbierà Garibaldi che vi era nato nel 1807!) e della Savoia. Gli accordi di Plombières prevedono la nascita di quattro stati: un Regno dell’Alta Italia, comprendente il Piemonte, il Lombardo-Veneto, i ducati di Parma e Modena e le Legazioni pontificie, sotto i Savoia; lo Stato Pontificio, con Roma e il Lazio, affidato al papa e alla protezione francese; un Regno dell’Italia centrale, composto da Toscana, Marche e Umbria ed infine il Regno delle Due Sicilie. In queste due ultime compagini statali, Napoleone conta di insediare sovrani a lui imparentati. In pratica, l’accordo prevede una pesante ipoteca francese sul territorio italiano.
Quanto basta perché l’imperatore d’oltralpe, fatto anche opportunamente abbagliare dalle mitiche grazie della Contessa di Castiglione, cugina di Camillo Benso, si decida ad intervenire a fianco dei Piemontesi contro l’Austria. Purché sia l’Impero di Francesco Giuseppe a dichiarare guerra al Regno di Sardegna. Questo è l’accordo. Come fare? Cavour non si perde d’animo: alla frontiera col Lombardo-Veneto stuzzica il nemico, sconfina con le esercitazioni, insomma spinge l’Austria a inviare un ultimatum al piccolo Piemonte, più noioso di un nugolo di zanzare in piena estate. L’ultimatum è naturalmente respinto ed è guerra. Centoventimila soldati francesi insieme a sessantamila piemontesi oltrepassano il Ticino e cominciano a scontrarsi con centosessantamila militari austriaci. Uno scarto di ventimila uomini non è un bruscolino e i risultati si vedono subito: Montebello, Palestro, Magenta sono i nomi di altrettante meritate vittorie per i Franco-Piemontesi. Francesco Giuseppe si allarma, interviene personalmente. Alla battaglia di Solferino e San Martino assistono tre teste coronate: l’Imperatore austriaco, quello francese e Vittorio Emanuele.
E’ un’autentica carneficina più cruenta della stessa Waterloo, che si protrae per quattordici ore, con un bilancio tragico di ottantamila morti. Un’ecatombe. Per non parlare dello strazio dei feriti e degli agonizzanti abbandonati a se stessi.
Lo svizzero Henry Dunant, testimone della battaglia, rimane sconvolto dallo scenario di morte e di sofferenza e dall’inefficienza dei soccorsi: si attiva allora personalmente, fa portare i feriti nel duomo di Castiglione delle Stiviere, senza badare alla divisa che indossano e là, aiutato dalla popolazione, offre assistenza al motto di Tutti fratelli.
Qualche tempo dopo racconterà la tragica esperienza nel libro Un souvenir de Solforino e fonderà la Croce Rossa Internazionale, che gli varrà il Premio Nobel per la pace nel 1901.
Di fronte alle cifre spaventose della guerra, Napoleone III arretra: l’opinione pubblica francese gli è sempre più ostile e teme un appoggio della Prussia al nemico: il 12 luglio, tenendo all’oscuro l’alleato della sua decisione, a Villafranca, firma l’armistizio con l’Austria, rinunciando a Nizza e Savoia. Per Cavour è un colpo durissimo: il risultato di tante battaglie, di tanto sangue sparso, è soltanto la Lombardia. Il suo furore è alle stelle e si dimette. Per i patrioti italiani la delusione è immensa. Ma in quella situazione di stallo, variabili storiche imprevedibili depongono inaspettatamente a favore del progetto unitario: in Toscana, a Parma, a Modena e nelle Legazioni pontificie, dove i regnanti, dopo la battaglia di Magenta, avevano lasciato in fretta e in furia trono e paese, nel marzo del 1860, col consenso inglese e francese, si svolgono i plebisciti: il 97% della popolazione vota a favore dell’annessione al Regno di Sardegna, che ora si estende dunque all’Italia centrale. In cambio del consenso Napoleone III ottiene Nizza e Savoia.
Intanto, sul trono delle Due Sicilie, in seguito alla morte del padre, è salito l’appena ventenne Francesco II, detto Franceschiello, sia per la giovane età che per la scarsa attitudine al governo: altri sono i suoi sogni e i suoi interessi. E’ proprio tale inettitudine ad accendere le speranze dei democratici verso un’estensione dell’unità alle regioni meridionali. Una prospettiva assolutamente impensabile soltanto un anno prima.
In Sicilia, due mazziniani, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, giudicano maturi i tempi per una spedizione antiborbonica. Le speranze si appuntano su Garibaldi, che ha dato il suo contributo alla recente guerra d’Indipendenza guidando i Cacciatori delle Alpi; ma il generale esita: ancora bruciante è il ricordo della tragica spedizione di Sapri con il massacro di trecento patrioti. Poi si decide: il 5 maggio, da Quarto, vicino Genova, si imbarcano sul Piemonte e Lombardo, requisiti alla società di navigazione Rubattino un migliaio di volontari. Provengono dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Toscana, dalla Sicilia e dalla Liguria. Sono intellettuali, professionisti, artigiani e operai.
Nell’isola li aspettano con entusiasmo: le fila garibaldine si ingrossano ed è possibile la vittoria di Calatafimi e la conquista di Palermo. Pare incredibile: uno stato di sette milioni di abitanti con un esercito ben organizzato, anche se probabilmente poco motivato, si lascia conquistare da truppe di straccioni. Garibaldi è un mito, suscita speranze e attese che egli stesso imprudentemente alimenta, assumendo la dittatura della Sicilia “in nome di Vittorio Emanuele II Re d’Italia”. Seguono sgravi fiscali e assegnazione di terre ai combattenti per guadagnarsi il consenso della popolazione. Ma il decreto d’arruolamento nell’esercito garibaldino non ottiene grandi risultati. Garibaldi non risolve, né forse può, il secolare conflitto che oppone contadini e proprietari terrieri. Le ribellioni che in suo nome s’accendono contro i notabili, con assalti ai municipi e ai palazzi, sono represse nel sangue. Né lui né Crispi si vogliono alienare le simpatie dei moderati e dei proprietari e riportano con durezza l’ordine nell’isola. Tristemente famosa resta la repressione della rivolta popolare a Bronte, nel catanese, ad opera del generale garibaldino Nino Bixio.
Ne parlerà Giovanni Verga nella sua novella Libertà.
Sbarcate in Calabria in agosto, le camicie rosse proseguono la conquista del regno; l’ultima debole resistenza borbonica è sul Volturno.
A Teano, il 26 ottobre 1860, Garibaldi, mazziniano e repubblicano, saluta Vittorio Emanuele II Re d’Italia: celeberrimo il dipinto che li rappresenta, uno di fronte all’altro in sella ai loro cavalli, scuro quello del generale, bianco l’altro. Chissà che sospiro di sollievo avrà tirato il Piemontese a questo saluto: il diavolo rosso gli offre l’ex Regno delle Due Sicilie su un piatto d’argento!
Intanto l’Umbria e le Marche sono già passate al regno d’Italia durante la discesa verso sud del sovrano, che ha sconfitto a Castelfidardo le truppe pontificie. Il puzzle italiano è a buon punto: manca ancora il Veneto, che passerà all’Italia solo con la Terza guerra d’Indipendenza, nel 1866; Roma, che dovrà aspettare il 20 settembre 1870; il Trentino e il Friuli che saranno italiane nel 1918.
Ma il 17 marzo 1861, a Torino, si insedia il parlamento nazionale e Vittorio Emanuele II è proclamato ufficialmente Re d’Italia.
“L’Italia è fatta, bisogna fare gli Italiani”! esclama nel suo discorso. Ma questa è un’altra storia.
Maria Gisella Catuogno
(per Viadellebelledonne)
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