Titolo | Tuciao | ||
Autore | Francesco Brunetti (AISEOP) | ||
Genere | Narrativa - Avventuroso | ||
Pubblicata il | 08/06/2011 | ||
Visite | 14234 | ||
Editore | liberodiscrivere® edizioni | ||
Collana | Il libro si libera N. 117 | ||
ISBN | 9788873883326 | ||
Pagine | 246 | ||
Prezzo Libro | 15,00 € | ![]() |
ISBN EBook | 9788893391986 | ||
Prezzo eBook |
6,99 € |
uciao, una giovane donna, il cui destino è racchiuso nelle bollicine di un vino rosso vivace e generoso che ha “favorito” la sua nascita.
Dolce e riservata, sentimentale e appassionata, è irrequieta e attratta dal fascino del pericolo.
Il pericolo sta per morderla, nell’animo e nella carne. Ritrova solo da adulta un rapporto con la madre, fatua e mondana; un rapporto così intenso che la malattia, per cui la perde, la lega e per sempre al suo cuore.
Insegue gli uomini della sua vita: quello che lei ha allontanato e quello che si è allontanato da lei.
Si intrecciano alla sua esistenza, giovane ed esuberante, i giochi della politica, della diplomazia e dei servizi di intelligence, con le loro trappole e un’oscura vendetta che viene dal passato.
Desidera una vita serena e scopre di amare anche il brivido.
In questa dualità speculare e asimmetrica gioca il suo destino con coraggio e la necessaria incoscienza.
Era nata, diciamo così, per errore in una notte di luna piena e con l’aiuto delle bollicine di un rosso vivace e generoso.
I primi contatti con la vita erano stati normali, ma come poteva capire, lei, se erano normali un bacio frettoloso sulla fronte e una carezza quasi come un saluto di una mamma che entrava e usciva di casa sempre di fretta, elegante e profumata, timorosa di rovinare il trucco?
Vi chiederete: - E il padre?
Beh… quello era proprio assente, un illustre assente, che sorrideva da una foto incorniciata, esposta nemmeno troppo in vista, seminascosta com’era da: la mamma alla festa dei suoi 18 anni, la mamma nel mare di Sharm, la mamma davanti al rifugio dolomitico sul Pordoi, la mamma all’ultimo vernissage della sua galleria d’arte.
In famiglia era nominato poche volte, il papà, se non per ricordare che viveva lontano per lavoro, per necessità insomma. Lei, comunque sia, non fu messa in grado di comprendere e le sue domande, anche le più dirette e precise, vennero lasciate cadere fino a che non si stancò o si dimenticò di riproporle.
Era così e basta.
Nonostante queste premesse viveva la giornata intensamente: scuola, corso di lingue, palestra, compiti a casa, poca TV e tante ore per pensare in solitudine. Ma non era mai triste, anzi spesso si sorrideva specchiandosi; prima lo fece per caso, poi con curiosità, infine come fosse un gioco: si raccontava le sue giornate, sceneggiava le sue fantasie, forse cercava inconsciamente, nel riflesso allo specchio dei suoi occhi profondi, la risposta a domande inespresse. Vicino a lei o sulla sua spalla o in braccio c’era quasi sempre Minosse, un soriano docile e sornione, dolce e riservato, che diventava permaloso e vendicativo solo se lei, rientrando a casa, non gli faceva almeno una coccola.
Lei a proposito si chiamava, o meglio, si chiama…
Perché in effetti, a volte, lei davvero si chiamava, guardando la sua immagine riflessa nella grande specchiera dell’immenso soggiorno arredato su AD e tutto firmato.
Così salutava la sua immagine e il suo vero nome, al momento, non è poi così importante a sapersi, perché tutti o quasi la conoscono come TUCIAO.
Era stata la sua tata, una delle tante che si erano alternate nei primi anni della sua vita, a chiamarla così.
In quel periodo era di moda avere personale domestico proveniente dall’estremo oriente e questa era nientemeno che giapponese, la giovane figlia della donna di servizio di una delle tante amiche VIP che popolavano i pomeriggi e le serate mondane della sua cara mamma.
Fu lei a chiamarla per la prima volta Tuciao, proprio per averla sorpresa a fare teatrino davanti alla specchiera a muro del soggiorno.
Ho dimenticato di dire che la nostra protagonista ha gli occhi un poco a mandorla, la carnagione scura e un’espressione enigmatica che può sembrare orientaleggiante. Questo è l’antefatto della storia, diciamo l’imprinting, che rende Tuciao la giovane donna di cui vorrei raccontare la storia.
I
Quel mattino di marzo Tuciao si era svegliata con un che di diverso, una sensazione di cui percepiva solamente la novità senza riuscire a metterne a fuoco l’essenza.
Si guardò attorno: la stanza era la solita, solo la luce che filtrava dalle persiane era più intensa e rendeva visibili miriadi di granelli di polvere.
La stanza era piuttosto sobria per una giovane ragazza e nemmeno molto ampia. Aveva scelto lei di dormire lì, nonostante la malcelata disapprovazione mista a sottile indifferenza della mamma a cui gli anni non avevano regalato altro che tante piccole rughe contro cui combatteva una estenuante battaglia insieme ai chirurghi plastici di grido presenti sulla piazza: li aveva provati tutti!
Le chiamava rughe di espressione ma non le addolcivano per nulla i tratti del viso.
Ma, tornando alla stanza di Tuciao, ecco che, a rompere l’inconsueta sobrietà della camera, avremmo potuto vedere, sul letto, un coniglio rosa con il naso bianco e nero, in peluche, reso irriconoscibile per avere il pelo logorato da tanti e reiterati abbracci, e, sulla parete, un mega poster di Brad Pitt.
Sulla piccola scrivania una pila di libri in equilibrio precario e alcuni quaderni dai bordi consumati, inoltre due asticelle verticali con anellini e braccialetti dai colori vivaci e dalle fogge più diverse.
Tuciao, che era coricata, quasi di scatto, come scossa da un pensiero improvviso, si mise a sedere sul bordo del letto, poi si alzò e andò ad aprire un’anta della finestra, scostò le persiane cosicché la luce di prepotenza colpì con un taglio netto il piano della scrivania.
Il fascio di luce fece da polo di attrazione: lei si sedette, prese una penna in mano, aprì uno dei quaderni già fitto di scritture - versi, raccontini, appunti - e cominciò a scrivere mentre riaffioravano alla mente le emozioni del giorno prima, quel qualcosa che le era germogliato dentro e che la turbava ma che non aveva ancora messo bene a fuoco.
Ci sono sguardi di primavera anche nelle sere di frastuono, tra musica metallica e risate franche, tintinnio di bicchieri e qualche voce sopratono. Ci sono luci dentro le luci e al di fuori di esse e, quando le intravvedi, è un po’ come annaffiare il giardino e osservare ortensie e azalee, sofferenti per una vampa di sole, riprendere vita come per incanto.
Dicono che ogni mattina il risveglio sia come una rinascita di cui non sempre o quasi mai ci rendiamo conto. Non fu così per Tuciao che, proprio in quel momento, sentì questo soffio vitale con una percezione così acuta e vibrante che, mossa da una energia incomprimibile, si alzò dalla scrivania e quasi di corsa andò nel salone, si mise davanti al grande specchio, sopravvissuto alle rivoluzioni che aveva subito l’arredamento di casa negli anni, e si mise a danzare roteando sulle punte, leggera, ispirata, trasognata. Finì la piroetta con un inchino al pubblico immaginario e sorrise soddisfatta di sé. Sentiva che le era nato dentro qualcosa di importante e voleva essere protagonista di questo evento.
Ma adesso per capire dobbiamo tornare un poco indietro nel tempo. In quel periodo stava frequentando, oramai da tre mesi, una scuola di danza, una delle più prestigiose; era una cosa che aveva sempre desiderato, ma in qualche modo la mamma aveva dato la precedenza ad altro senza fornire spiegazioni precise ai suoi dinieghi.
L’iscrizione era stata una sua conquista o forse, per meglio dire, una prima vittoria della sua determinazione unita a una buona dose di scaltrezza. Aveva approfittato, per strapparle un sì, di uno dei momenti di euforia della mamma seguito ad uno dei suoi successi mondani.
Il giorno in cui se ne presentò l’occasione sfruttò i suoi ottimi voti a scuola, cosa per cui non aveva dovuto fare sforzi, e la complicità di una coetanea che invece doveva frequentare a forza quella scuola.
Il caso volle che le rispettive mamme fossero amiche e si copiassero nei comportamenti stereotipi della loro vita, dirigendo secondo quei parametri, almeno in apparenza, anche tutto il resto della famiglia e della casa, muri compresi.
In un lampo due più due fecero quattro quando squillò il telefono.
Era l’altra mamma che telefonava alla sua:
- Che ne diresti se anche Tuciao frequentasse il corso di danza di mia figlia? Si farebbero compagnia e forse Elena (così si chiamava la compagna) ritroverebbe un entusiasmo che non ha più.
Fece finta di non essersi accorta della telefonata quando esordì con:
- Mamma, posso? Dovrei farti vedere la valutazione scolastica, devi mettere la tua firma, sai…
L’ebbe vinta, ebbe anche la sfrontatezza di apparire non solo sorpresa ma anche un poco esitante prima di accondiscendere. Sapeva che così avrebbe rafforzato la decisione della mamma rendendola irrevocabile.
Il suo corso era frequentato da una trentina di ragazze, ma c’erano anche tre maschi: Alberto, alto, magro e timido; Luigi, di media statura, muscoloso e determinato e infine Roberto, bel viso, capelli ondulati ed espressione trasognata.
Nelle prime prove di danza quest’ultimo sembrava il più spaesato ma ciò non impediva che una naturale eleganza di movenze lo facesse spiccare su tutti ugualmente. Aveva infatti un che di speciale, anche se, a tutta prima, non ben definibile. Quando i loro sguardi, quelli di Roberto e di Tuciao intendo, si incrociarono, il loro magnetismo fece sì che si attraessero compenetrandosi, stabilendo un’intimità profonda così misteriosa e intensa che ne rimasero turbati.
Di fatto evitarono a lungo, ambedue, di tentare un approccio che non fosse fatto di convenevoli o delle piccole frasi necessarie alla messa in pratica dell’arte di cui erano apprendisti. Si sfiorarono piroettando e furono costretti a intrecciare movimenti e mani infinite volte ma ogni volta si guardarono negli occhi senza accennare a dire nulla. Le labbra erano come sigillate in una compostezza rigida che contrastava con l’intensità balenante degli sguardi e fu così per mesi.
E venne il giorno della prova generale del saggio di metà anno sul palcoscenico del più bel teatro della città, se non dell’intera regione, carico di fascino per la sua storia e per l’eleganza calda della sua struttura. Andarono con un pulmino noleggiato per l’occasione e fecero sosta per colazione al Caffè situato vicino al teatro proprio all’ingresso del parco.
La primavera si stava timidamente affacciando tra gli alberi ancora spogli attraversati da un sole poco aggressivo. L’aria fresca era intiepidita per la prima volta dopo mesi di un inverno particolarmente rigido in cui la neve aveva più volte imbiancato di silenzio la città.
Con il toast caldo in una mano e il cappuccino fumante nell’altra, Tuciao si voltò di scatto con l’idea di sedersi nella veranda che allineava le sue sedie vuote rischiarate appena dalla luce ancora pallida del mattino.
Fu così che si scontrarono, goffamente, come nella gag di un film. Lui ebbe in dono una felpa al cappuccino e il cagnone, che stazionava tranquillo a fianco del bancone del bar, una colazione inaspettata e gradita. Roberto aprì la bocca ma non emise alcun suono, gli occhi spalancati esprimevano un misto tra sorpresa e sconcerto; lei lo fissò imbarazzata e confusa, fece per scusarsi ma le cadde l’occhio sulla macchia di caffelatte che chiazzava la felpa e, chissà come, le venne da ridere, sì una risata, subito soffocata dalla mano portata alla bocca.
Lui strinse le labbra sconcertato, la fissò e l’irritazione si trasformò rapidamente in una percezione netta e precisa, forse per la prima volta lucida, di che cosa lei rappresentasse per lui: luce, vita, emozione.
Scosse il davanti della felpa, poi la sfilò, come per tentare di salvare il salvabile, e rimase in canottiera girocollo nera. Ruotando il capo si vide allo specchio - era proprio buffo - sorrise e, sentendo i muscoli del viso allentarsi, il sorriso divenne sempre più largo, aperto e liberatorio. Prese nella mano destra la felpa e la fece roteare, poi si mise a danzare sulle punte, picador, torero e toro insieme, e finì accasciandosi, fingendo sfinimento, tra gli applausi divertiti dei presenti.
Lei lo fissò a lungo, non riusciva a staccare lo sguardo, e il cuore ebbe un’accelerazione che le finì in gola. Si voltò per nascondere in qualche modo le sue emozioni, così facendo si ritrovò a specchiarsi e vide una Tuciao diversa: non era più la stessa e ne era consapevole, emozionata e turbata allo stesso tempo.
uciao, una giovane donna, il cui destino è racchiuso nelle bollicine di un vino rosso vivace e generoso che ha “favorito” la sua nascita.
Dolce e riservata, sentimentale e appassionata, è irrequieta e attratta dal fascino del pericolo.
Il pericolo sta per morderla, nell’animo e nella carne. Ritrova solo da adulta un rapporto con la madre, fatua e mondana; un rapporto così intenso che la malattia, per cui la perde, la lega e per sempre al suo cuore.
Insegue gli uomini della sua vita: quello che lei ha allontanato e quello che si è allontanato da lei.
Si intrecciano alla sua esistenza, giovane ed esuberante, i giochi della politica, della diplomazia e dei servizi di intelligence, con le loro trappole e un’oscura vendetta che viene dal passato.
Desidera una vita serena e scopre di amare anche il brivido.
In questa dualità speculare e asimmetrica gioca il suo destino con coraggio e la necessaria incoscienza.
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