Titolo | La lettera perduta
Storie di marinai e banchieri nella Genova del Medio Evo |
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Autore | Pier Guido Quartero | ||
Genere | Narrativa - Storico | ||
Pubblicata il | 14/10/2011 | ||
Visite | 9917 | ||
Editore | Liberodiscrivere® edizioni | ||
Collana | Il libro si libera N. 120 | ||
ISBN | 9788873883463 | ||
Pagine | 176 | ||
Prezzo Libro | 12,00 € | ![]() |
ISBN EBook | 9788899137496 | ||
Prezzo eBook |
4,99 € |
[.. ] sono gli anni in cui il Medio Evo, poco a poco, sboccia nella modernità, più tardi formalizzata da una data, in realtà, importante ad altri fini, il mitico 1492.
Genova, raccontata con occhi innamorati, e Costantinopoli, Barcellona, Aigues Mortes sono le quinte mediterranee entro le quali volteggiano i personaggi, veri semiveri o inventati, di un vivacissimo teatrino (era appena terminata un’epidemia di peste e, si dice, in simili casi il morale dei mortali si fa euforico) dove, qualunque cosa accada, mai si perde l’occasione per una mangiata (o per soddisfare altri sensi, il cessato timore della malattia, si sa, li acuisce tutti…). Sono questi gli anni in cui nasce l’assicurazione ed essa nasce come assicurazione marittima. Ma sono anche gli anni in cui la Chiesa fulmina l’usura, evangelicamente intesa (peccato per la Chiesa, reato e reato grave per il braccio secolare) e, proprio in quegli anni che avevano visto la disgregazione dell’intelligente struttura finanziaria impiantata dai Templari...
Tra un colpo di scena e l’altro, le figure del teatrino mediterraneo di Quartero ci conducono, arzille, all’epilogo, che viene propiziato dalla (ri)comparsa della lettera che dà il titolo al libro. E altro non dico per non togliere al lettore il piacere della lettura, e della sorpresa.
Alfredo Dani
LA PESTE NERA
La piccola colonia di topi macilenti e pulciosi che verso il 1340, nascosta in qualche sacco di granaglie trasportato da una carovana di mercanti asiatici, si stava trasferendo dalla sponde del Mar Caspio a quelle del Mar Nero, non sapeva di essere protagonista dell’inizio di una delle peggiori catastrofi che avrebbero travagliato l’Europa nel corso dell’intero millennio. La peste che gli animali inconsapevoli portavano con sé, la morte nera, avrebbe infierito per più di tre anni, tra il 1347 e il 1350, sulla popolazione del continente, riducendola di un terzo.
I topi sono piccoli e il mondo grande: non conosciamo nulla di questo primo episodio, che rimane confinato nel mondo delle ipotesi. Abbiamo invece abbastanza elementi per prospettare un quadro attendibile dei successivi sviluppi.
Il Khan Janibeg, mentre assediava la colonia genovese di Caffa, concepì un’idea anticipatrice della guerra batteriologica: poiché tra le sue truppe già serpeggiava la peste, fece lanciare dalle catapulte il corpo di alcuni morti al di là delle mura nemiche.
Quando, poco tempo dopo, una dozzina di galee genovesi lasciarono Caffa dirette verso la madre patria, portarono il contagio con sé, disseminandolo in tutti i porti in cui fecero tappa. Il primo approdo in Italia fu a Messina, dove il morbo scoppiò con eccezionale virulenza, tanto che, individuata dalla popolazione l’origine del male, i genovesi furono costretti ad allontanarsi rapidamente a scanso di peggiori conseguenze. Pochi giorni dopo la piccola flotta raggiunse la propria meta. Da lì, anche con l’aiuto degli attivissimi mercanti della Repubblica, la peste dilagò per tutta l’Europa.
I sintomi della malattia, che, con poche eccezioni, portava alla morte le proprie vittime nello spazio di tre o quattro giorni, erano bubboni nerastri che fiorivano sul corpo dell’ammalato per poi ulcerarsi e lasciar scorrere sangue e altri liquidi dall’odore disgustoso.
Il contagio avveniva non solo per il morso delle pulci, che trasmetteva agli uomini la malattia portata dai topi, ma anche per contatto con gli appestati. La medicina, a quei tempi poco più che agli albori, era impotente. Quasi tutte le città europee vissero così tre anni di terrore.
I modi di rispondere a questa drammatica situazione furono, come sempre accade, impostati secondo due diverse modalità: vi fu chi cercò soluzioni razionali, tentando, in mancanza di meglio, di sfuggire al morbo con l’isolamento o l’abbandono delle città e curando l’eliminazione dei possibili focolai di infezione attraverso la distruzione, col fuoco, dei cadaveri e degli abiti degli appestati; vi fu invece chi, leggendo nell’immane catastrofe una punizione divina per il male commesso dagli uomini, assunse idee ed atteggiamenti millenaristici, ricorrendo alla preghiera ed alla penitenza per allontanare dal mondo l’ira del Signore. Questo secondo modo di affrontare un male sconosciuto è sempre stato nelle corde dell’animo umano, ma certamente lo spirito del tempo era particolarmente adatto ad un approccio di questo tipo, come già avevano dimostrato gli eccessi dei pauperisti avvenuti solo pochi decenni prima. Flagellanti e incappucciati percorsero le terre d’Europa invocando il perdono di Dio e contribuendo a diffondere il morbo. Poi, in un modo o nell’altro, l’epidemia si estinse.
Il mondo che riemergeva dalla lunga notte di terrore era prostrato. La cura dei campi, l’esercizio delle arti e dei commerci, tutto era stato trascurato o abbandonato. Le popolazioni, decimate, deboli e spaurite, fecero quello che dovevano fare: ricominciarono da capo. È a questo punto che comincia la nostra storia.
CABIB
- Ma non è Cabib, quello?
Davanti a San Lorenzo, due gendarmi della Repubblica stavano trascinando un ometto recalcitrante, mentre la gente contemplava la scena con animo diviso. Giacomo e Matteo, che stavano passando diretti a Banchi, avevano riconosciuto nel prigioniero un vecchio amico.
- Ci risiamo con questa storia dell’usura. Ogni tanto prendono qualche ebreo e lo conciano per le feste…
- Bisogna dargli una mano. Fai finta di inseguirmi e cerchiamo di andargli a sbattere addosso. David è vecchio, ma è svelto e furbo come una faina: se gli diamo l’occasione vedrai che se la squaglia in un momento.
Non stettero a pensarci su troppo. Giacomo, malaticcio e di costituzione non tanto robusta, si finse l’inseguito, mentre Matteo, col suo fisico prestante, assunse il ruolo dell’inseguitore. La cosa riuscì benissimo. Il primo si catapultò contro le guardie, avendo cura di correre con il capo voltato, in modo da giustificare la collisione. Il secondo lo seguì a ruota. Una delle guardie rovinò a terra insieme a Giacomo. L’altra perse per un momento il controllo del prigioniero che ne approfittò per dileguarsi a gambe levate giù per i carruggi. La persone che avevano assistito alla scena si avvicinarono, attente.
Il potere e i suoi servitori raramente hanno goduto la simpatia popolare nel corso della storia. La Genova del 1350 non faceva eccezione. La situazione confusa determinatasi dopo l’allontanamento del primo Doge eletto dal popolo, Simone Boccanegra, giustificava a maggior ragione l’atteggiamento sospettoso della gente in una città che ha sempre avuto la divisione politica e sociale come un aspetto determinante del proprio carattere. Per di più, nella circostanza, sia il vecchio Cabib che i due fratelli Capurro erano abbastanza conosciuti in quel quartiere, dove contavano diversi amici. Era chiaro a tutti che l’incidente era stato creato a bella posta, ma, circondati com’erano da una folla non proprio amichevole, i gendarmi furono costretti ad un atteggiamento meno duro di quanto avrebbero voluto.
- Chiedo perdono. - si scusò Matteo aiutando il milite caduto a rialzarsi.
- Vi venisse un accidente - rispose quello tirandosi su - Mi avete mezzo storpiato e il giudeo se ne è scappato!
- Non l’ho fatto apposta - intervenne Giacomo umilmente - Mio fratello è più giovane di me, ma non ha nessun rispetto: è un prepotente. Voleva i soldi per la taverna e io non volevo darglieli…
- I fatti vostri non ci interessano. Risponderete di questo. Presentatevi al Palazzo domattina.
- È proprio necessario? Lo scontro è avvenuto per caso…
- Poche storie. Domattina a Palazzo.
- Come volete - concluse Giacomo con fare fintamente remissivo, mentre le guardie, voltate le spalle, avevano già cominciato ad allontanarsi.
I due fratelli si scambiarono un’occhiata d’intesa e si allontanarono nella direzione opposta a quella presa dai militi. La situazione era a rischio, ma c’era modo di metterla a posto. Camminavano svelti, senza parlare. Scesi dalla parte di Banchi, si diressero verso i moli, dove si sedettero su una catasta di legname. Il sole di luglio era caldo, ma la brezza leggera che spirava dal mare rendeva l’aria gradevole.
Giacomo parlò per primo.
- Bisogna che andiamo a parlare con il Vicario di città. Vedrai che ce ne tira fuori lui.
- Ecco. Io sono già stufo. Quando ero sulla nave non vedevo l’ora di tornare. Ora invece ho voglia di partire il prima possibile: qui a Genova non c’è verso di quietare. Tutti i giorni ne salta fuori una nuova… A bordo si fa una vitaccia, ma almeno il mondo è quello e sai quello che devi fare. Qui non fa per me.
Matteo navigava ormai da più di dieci anni. Si era imbarcato giovanissimo e aveva già percorso più volte le rotte dei genovesi verso il Mediterraneo orientale e verso l’Inghilterra e le Fiandre. Malgrado sapesse a malapena scrivere, una vivace intelligenza gli aveva fatto apprendere velocemente l’arte della marineria. L’esperienza derivata dal suo girare per il mondo e conoscere genti e persone diverse ne aveva completata la formazione. Era un uomo fatto ormai. Poco meno che trentenne, alto e asciutto, ma con una muscolatura forte e nervosa, esibiva con orgoglio la sua pelle abbronzata e il passo ciondolante del marinaio.
Il fratello, per qualche scherzo della natura, era del tutto diverso. Basso di statura, di pelame biondo, univa una certa debolezza fisica alla figura tozza e tarchiata, accentuata dal ventre alquanto prominente. La sua condizione fisica era in parte conseguenza e in parte motivo delle sue scelte di vita. Di qualche anno più anziano di Matteo, aveva sempre prediletto la vita sedentaria ed aveva mostrato fin da piccolo una discreta propensione allo studio. Era stato proprio il vecchio Cabib ad insegnargli i segreti della partita doppia. Qualche studio su testi giuridici e la frequentazione di notai e mercanti per motivi di lavoro ne avevano fatto un topo di scagno piuttosto apprezzato nell’area di Banchi, malgrado le precarie condizioni di salute non gli consentissero di mantenere sempre una perfetta efficienza.
Si può dire, in sostanza, che i due erano diametralmente opposti l’uno all’altro sia nell’aspetto che nello spirito, il che non toglie che la comunanza di sangue e di educazione facesse sì che quando uno di loro cominciava una frase l’altro sapesse già come questa sarebbe finita e che il più delle volte bastasse un gesto o un’occhiata perché i due, senza usare una parola, si intendessero a meraviglia.
- Non preoccuparti per questo. Un imbarco lo trovi appena vuoi - disse Giacomo, consolando il fratello - Andiamo da Luxardo e ne parliamo. Tra l’altro ora avrà bisogno di lavorare: dopo che i Catalani gli hanno fatto fuori l’ultimo carico deve cercare di coprire il buco in fretta. È vero che la merce era assicurata, ma con Gentileschi non si può mai sapere…
- Gentileschi? - si informò Matteo - Chi è? Non lo conosco.
- È arrivato da Firenze mentre eri via, credo che sia un marrano ed abbia anche cambiato nome. È carico di soldi e se li è fatti tutti da solo… quindi sono soldi che puzzano. Pare che da là sia dovuto venir via perché c’erano delle voci su di lui… bambini spariti, dicono. Qua problemi non ne ha dati, in quel senso, intendo. E nel suo mestiere, si dica quel che si vuole, è uno che se ne capisce. Fin troppo, direi. Luxardo si è fidato e si è fatto assicurare il carico dell’ultimo viaggio. Poi i catalani gli hanno abbordato la nave al largo della Sardegna e gliel’hanno svuotata. Ora vedremo fino a che punto ha fatto bene a dargli retta: io ho i miei dubbi.
A quei tempi, corsari e pirati abbondavano lungo le rotte del Mediterraneo. Saraceni, Genovesi, Pisani, Turchi, Normanni, Veneziani e Aragonesi si scambiavano agguati e abbordaggi lungo le coste e in mare aperto. E non c’erano solo i professionisti. Gli stessi mercanti, all’occasione, sapevano cambiare mestiere rapidamente per svuotare le stive delle navi battenti bandiera nemica, ma anche quelle appartenenti a paesi neutrali o addirittura a propri connazionali. Per far fronte a questo rischio, normalmente le tratte più lunghe e pericolose venivano affrontate viaggiando di conserva con altri, ma chi viaggiava da solo, se incontrava un battello più armato e veloce del proprio, difficilmente aveva scampo.
Proprio in quegli anni si stavano approntando, per far fronte a questi ed agli altri rischi della navigazione, i primi strumenti assicurativi, ma la resistenza della Chiesa Cattolica, che era legata ad una concezione dell’usura largamente superata dal ceto mercantile, poteva creare non pochi problemi, nel momento in cui l’assicurato si trovasse nella condizione di dover far valere i suoi diritti.
Il mattino era ormai avanzato e il rischio di incontrare nuovamente le guardie era ormai superato. I due fratelli si alzarono dalla catasta a cui si erano appoggiati per tornare verso casa, nella zona di Sarzano.
L’abitazione dei Capurro era in una vecchia casa di pietra e legno costruita su tre piani, inserita in mezzo ad altre più moderne, nelle quali i mattoni avevano sostituito il legno quasi ovunque. Al piano terra stava la cucina con la madia e un tavolaccio che fungeva da mensa e da posto di lavoro per Giacomo; al piano di mezzo c’erano i pagliericci dei fratelli. All’ultimo, che fungeva anche da deposito, dormiva la sorella: Berta. La relativa comodità della sistemazione dipendeva dal fatto che la peste si era portata via mamma Capurro e il fratellino più piccolo, consentendo ai sopravvissuti la consolazione di avere, almeno, più spazio a disposizione. Del padre, imbarcato su una grossa nave da carico più di dieci anni prima, non si erano più avute notizie.
Berta, quando Giacomo e Matteo arrivarono a casa, era vicino al fuoco, a rimestare una minestra di carne e verdura. Era una donna alta e asciutta, già un po’ sciupata dalla fatica e dall’età, con una gran crocchia di capelli legata sulla nuca e un paio di occhi chiari, sul volto pallido, capaci di sprigionare lampi di rara efficacia. Più anziana dei fratelli, era rimasta zitella, forse per via di un carattere troppo spigoloso o forse per vocazione. Precisa e puntigliosa in tutte le sue cose, pretendeva dagli altri la stessa attenzione, talvolta maniacale, da lei dedicata ai particolari, e considerava qualunque atteggiamento non conforme a questa regola come un’offesa personale. Il fatto, poi, che in queste non rare occasioni non fosse parca di parole, spingeva i suoi familiari a tenersi il più possibile fuori tiro. A parte questo, un’ottima persona.
- Ti sei ricordato di passare alle Erbe a prendere le uova? - chiese a Giacomo.
Questi rabbrividì nel proprio intimo, temendo di subire la solita ramanzina: - Oh! Mi dispiace… Abbiamo avuto un contrattempo con le guardie e me ne sono dimenticato. Berta si girò verso i fratelli: - Ecco. Io passo la giornata a curarvi tutte le vostre cose. Vi chiedo un piacere una volta e mai che me lo facciate. E questa, lasciatemelo dire, non è solo infingardaggine: è mancanza di rispetto. Non mi state mai a sentire quando parlo. E poi dite che ho un cattivo carattere! Lavoro per voi tutte le ore del giorno e voi non mi guardate nemmeno. E adesso la frittata con cosa la faccio, eh? E mai un momento di svago. Lo so bene, anche se non esco mai di casa, che sono arrivati i girovaghi: c’è il giocoliere e l’orso e recitano un duetto provenzale. Sono venuti per le feste dell’Assunzione, e c’è la processione e tutto il resto. Ma voi non mi dite niente perché se no magari vi tocca accompagnarmici, eh? Cosa sono? Scema? E già che ci siamo - rivolgendosi al fratello minore - quella cassa che ti sei portato nella stanza ti decidi a farle prendere aria?
E sarebbe andata avanti così per un pezzo, se Matteo non le si fosse avvicinato mettendole un braccio intorno alle spalle. Era sempre stato il suo preferito e sapeva come prenderla.
- Dai, Berta. Te l’ha detto Giacomo che abbiamo avuto un problema con le guardie…
La curiosità e un po’ di preoccupazione si affacciarono negli occhi della donna. Il suo tono accusatorio assunse immediatamente sfumature apprensive.
- Cosa avete combinato, adesso?
- Stavano portando via Cabib. Lo sai che ogni tanto prendono un ebreo e lo mettono a perdere. Con l’epidemia di peste c’erano anche quelli che dicevano che erano loro, i giudei, a diffondere la malattia; insomma, dato che ci tengono alle loro tradizioni, tutti i motivi sono buoni per dargli addosso. Ora, che l’epidemia è passata, è tornata di moda la storia dell’usura.
- Ma Cabib è una persona come si deve: era il maestro di Giacomo…
- Appunto. Siamo riusciti a farlo scappare… - E descrisse alla sorella, a tratti vivaci, la scenetta avvenuta in San Lorenzo.
- E ora?
- E ora, domani ce ne andiamo direttamente dal Vicario di città, che ci conosce, e glielo spiega lui al Podestà di lasciarci stare - Giacomo si era intromesso nel discorso con l’autorità del maschio anziano di famiglia - Anzi, gli voglio anche chiedere se ci dà una mano con Luxardo, soprattutto per il caso che quella storia dell’assicurazione non vada a buon fine, che me la sento già colare giù per il naso…
- E Cabib?
- Cabib avrà cambiato aria. Ha quella casetta su a Vico Morasso, vicino a Sant’Olcese. Si sarà trasferito là, ad aspettare che in città si calmino le acque. Le guardie non ci vanno sicuro, a pigliarlo fin lassù.
[.. ] sono gli anni in cui il Medio Evo, poco a poco, sboccia nella modernità, più tardi formalizzata da una data, in realtà, importante ad altri fini, il mitico 1492.
Genova, raccontata con occhi innamorati, e Costantinopoli, Barcellona, Aigues Mortes sono le quinte mediterranee entro le quali volteggiano i personaggi, veri semiveri o inventati, di un vivacissimo teatrino (era appena terminata un’epidemia di peste e, si dice, in simili casi il morale dei mortali si fa euforico) dove, qualunque cosa accada, mai si perde l’occasione per una mangiata (o per soddisfare altri sensi, il cessato timore della malattia, si sa, li acuisce tutti…). Sono questi gli anni in cui nasce l’assicurazione ed essa nasce come assicurazione marittima. Ma sono anche gli anni in cui la Chiesa fulmina l’usura, evangelicamente intesa (peccato per la Chiesa, reato e reato grave per il braccio secolare) e, proprio in quegli anni che avevano visto la disgregazione dell’intelligente struttura finanziaria impiantata dai Templari...
Tra un colpo di scena e l’altro, le figure del teatrino mediterraneo di Quartero ci conducono, arzille, all’epilogo, che viene propiziato dalla (ri)comparsa della lettera che dà il titolo al libro. E altro non dico per non togliere al lettore il piacere della lettura, e della sorpresa.
Alfredo Dani
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