Titolo | Cristina (II. La “Gazza ladra“ e dintorni) | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Narrativa | ||
Pubblicata il | 14/01/2012 | ||
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II
Vittoria ed Alessandro, già alle sei di pomeriggio, secondo consuetudine, erano pronti per raggiungere il Teatro.
La serata era splendida: un’aria mite e profumata delle mille essenze della vicina campagna rammentava il pieno trionfo della primavera e l’avvicinarsi della stagione estiva.
Poco lontano dall’ingresso, sotto i portici, dove si fermavano le carrozze, ragazze con cestini di giunco sottobraccio offrivano alle ricche signore milanesi che ne uscivano, attente a non sciuparsi gli eleganti abiti e le elaborate acconciature, mazzolini di fiori freschi che i loro accompagnatori si affrettavano a comprare in segno di omaggio galante.
Quelle fioriste, negli abitini modesti che indossavano, sorridevano timide alle gran dame, sognando anche per sé, magari solo per una sera, tali vesti, tali gioielli.
Erano povere, come gran parte degli abitanti di quella città, che pure era una delle più evolute d’Italia: operai, artigiani, facchini, sartine, serve, lavandaie lavoravano dalla mattina alla sera, senza alzare la testa, per avere almeno il minimo per sopravvivere. Costituivano il nucleo laborioso e onesto della popolazione, abituato a sopportare, a soffrire per mettere insieme, quando andava bene, il pranzo con la cena, ritenendo le disuguaglianze sociali anche più vistose una legge di natura, il volere del destino o di chi sa chi.
I ricchi palazzi patrizi facevano da contraltare alle casupole più modeste, talvolta misere; i bei giardini privati risplendevano d’armonia e di colori, in stridente contrasto con le brutte case operaie che trasudavano stenti e fatica. I poveri s’avvicinavano ai ricchi per tendere la mano, per servire, per garantire loro il meglio di quanto era possibile per i tempi. Libertà, uguaglianza, fraternità, le parole che erano risuonate a lungo nella vicina Francia e poi anche nel Belpaese, portate in cima alle baionette dalle armate napoleoniche, apparivano ora sbiadite, quasi un’eco impercettibile di quel frastuono rivoluzionario che aveva partorito un impero. Poi, gli antichi padroni erano tornati, garantendo, dopo la burrasca, privilegi consueti e consuete disuguaglianze.
A teatro, comunque, una qualche forma di democrazia, seppure embrionale e stonata, si affermava, perché i poveri avevano il loro posto nel loggione e un po’ del dorato pulviscolo del melodramma arrivava fin lassù.
“ Ve la ricordate, amica mia, la prima di due anni fa? Cadeva di marzo, il trentuno…e proprio di fronte al nostro palco, c’era Ugo Foscolo…io me lo guardavo, ammirata, perché conoscete la mia passione per la sua poesia. Lo vedevo particolarmente accigliato e preoccupato, ma non ci ho fatto caso più di tanto…è il suo carattere tempestoso, mi dicevo…e, invece, il giorno dopo ha tagliato la corda! Via da Milano, via dell’Italia, via dai suoi amori –e sapete bene quanti ne aveva, un vero tombeur de femme, passatemi l’espressione…- prima in Svizzera, poi in Francia, ora sembra in Inghilterra, senza pace…e senza gloria. Sembra che si stia mangiando tutti i suoi averi…finirà in miseria, povero Ugo! Cara mia, chi volta el cùu a Milan, il volta al pan…” sospirò la contessa Teresa, l’amica di Vittoria, finendo di parlarle sottovoce e agitando più velocemente il suo ventaglio.
“ Hai ragione, cara… dispiace anche a me…grand’uomo, gran patriota quel Foscolo. Che coerenza, che moralità! Non ha voluto servire i tedeschi, lui, come invece fanno tanti voltagabbana, che sono qui stasera” –e col mento indicò Vincenzo Monti a poca distanza da loro- “aveva già la direzione della Biblioteca italiana, aveva già stilato il programma, bastava la sua firma in calce…ma poi ci ha ripensato: voleva dire servire gli austriaci che disprezzava, lui che li aveva tanto vituperati nelle Ultime lettere…voleva dire far morire un’altra volta il suo Jacopo Ortis, poveretto o far rivoltare nella tomba il povero Parini, che una tomba a modo nemmeno ce l’ha. Allora, alla chetichella, senza dire nulla a nessuno, dopo la prima della Scala, ha fatto le valigie, ha scritto una bella lettera …ed è partito! Come lui, ce ne sono pochi, va’ là…” e Vittoria si accomodò meglio sulla poltroncina, si assicurò di avere a posto la coroncina di perle e brillanti che le sosteneva la capigliatura, si aggiustò sulle mani e le braccia i guanti lunghi di filo di cotone che pure la facevano sudare e si apprestò a godersi lo spettacolo.
Amava quegli appuntamenti, non tanto per l’opera in sé, che a volte trovava stucchevole e noiosa, quanto per l’occasione mondana e politica che offrivano, prima dell’apertura del sipario, durante gli intervalli e alla fine della rappresentazione. la possibilità, cioè, di vedere il bel mondo milanese e austriaco, fare qualche pettegolezzo ma rinfocolare anche i mai sopiti spiriti patriottici e indipendentisti. In questo era in particolare armonia con suo marito, a due passi da lei, anche lui immerso nella conversazione col conte Federico, marito di Teresa.
Ogni tanto se lo guardava, quell’uomo che le era al fianco ormai da quattro anni e che aveva saputo far vibrare le corde più nascoste del suo spirito e del suo corpo. Lo amava, più di Gerolamo, non solo perché le aveva dato già tre figli, ma perché era sapiente nell’arte dell’amore. Prima di lui, lei non aveva conosciuto la forza della passione, non perché non desiderasse suo marito ma perché lui estingueva la fiamma che c’era dentro di lei riducendola a un fuoco di legna bagnata. Aveva accettato tale tiepidezza perché credeva che forse esagerava lei a riporre nel partner tutte quelle aspettative; lei che si nutriva dei nuovi principi del romanticismo imperante e quindi del trionfo dei sentimenti e del forte sentire. Aveva pensato d’essere sbagliata lei, amante della vita e soprattutto del cibo e del sesso. A letto il suo appetito non era inferiore a quello che sentiva a tavola, ma il cibo che Gerolamo le offriva era scarso, le lasciava una fame che reprimeva sublimandola nell’affetto per lui e per la piccola Cristina. Poi, in Alessandro, aveva trovata un vero uomo, capace di soddisfarla senza suscitarle sensi di colpa. Era diventata più donna con lui, malgrado fosse quattro volte madre; e di questo gli era profondamente grata. Ora se lo guardava quasi commossa quel marito a due passi da lei e rifletteva se condividere o meno i suoi pensieri con l’amica. Decise di farlo, era proprio in vena quella sera.
“Lo sapevo, lo sapevo…ti si legge nello sguardo, in tutto quello che fai o dici. Si vede che sei felice. Sono contenta per te…” le mormorò Teresa, come sempre sorridente e generosa.
Poi le confidenze si spensero in tutto il teatro, lentamente, insieme alle fiammelle delle luci, perché stava per aprirsi il sipario.
“Godiamoci questa prima di Rossini! –sussurrò Vittoria- dicono che il soggetto sia strepitoso…un uccello, in fondo…un pennuto protagonista di un melodramma!”
E queste furono le ultime parole che intercorsero tra loro fino alla fine dell’ atto, perché, già dalle prime scene, l’originalità della trama, i caratteri di Fabrizio, Lucia, Ninetta e Giannetto, il clima di festa per il ritorno del giovane, la rivelazione del loro amore e le lagnanze della padrona di casa su certe strane sparizioni di posate d’argento, coinvolsero immediatamente le due signore e tutto il pubblico, che, appena calato il sipario, dopo un attimo di esitazione per il ritorno sgradito alla realtà, si spellò le mani in applausi.
“Grande Gioachino!” esclamò sorridente, sotto i baffi curatissimi Alessandro, rivolgendosi alle due donne e all’amico Federico.
“Una storia che ha incantato anzitutto
“Bellissimo! Meraviglioso!” approvarono le signore alzandosi per sgranchirsi le gambe e recarsi alla toilette a rinfrescare il trucco e la pettinatura.
“Non fate tardi come al solito…” raccomandarono i due uomini, avviandosi verso il foyer per scambiare qualche impressione sulla serata, ma, quel che stava loro più a cuore, ascoltare qualche battuta a mezza voce, sulla situazione politica, ora che con i tedeschi erano passati dalla padella alla brace.
Malgrado la calma piatta apparente, infatti, il fuoco covava sotto la cenere: molti aristocratici milanesi erano ferventi patrioti, appartenevano alla generazione che, insieme al latte materno, aveva assorbito l’idea di un rinnovamento della società, almeno in senso libertario, se non egualitario. L’ubriacatura napoleonica li aveva resi prudenti ma non vaccinati contro la restaurazione e soprattutto contro un governo liberticida e straniero. La sufficienza con cui gli austriaci intendevano governarli, facendo a meno di loro e relegandoli alla prigionia dorata delle feste e delle iniziative culturali, come aveva fatto il re Sole nel 1600 con la nobiltà francese, li offendeva indicibilmente.
Inoltre, il fascino dei principi romantici, esaltati da Madame de Stael nell’articolo Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni, per invitare gli intellettuali nostrani a svecchiarsi e ad abbracciare il nuovo credo, agiva come lievito anche nel loro malcontento facendo innalzare il livello dell’insofferenza al dominatore.
Federico e Alessandro trovarono il foyer pieno di spettatori entusiasti. C’erano tutte le premesse perché
Dopo il patema d’animo ispirato dalle disavventure di Ninetta, le festose scene finali dello scioglimento del dramma e del coronamento del sogno d’amore tra i due innamorati, galvanizzarono il pubblico. Quando calò il sipario, all’unisono, milanesi e austriaci delle prime file si alzarono e cominciarono a battere freneticamente le mani esprimendo il loro entusiasmo con lo scandire senza interruzione il nome dell’eroe del momento: “Ro-ssi-ni!” “Ro-ssi-ni” Veniva giù il teatro perché molti battevano anche i piedi e il rumore divenne assordante quando comparve sul palco il musicista, commosso e chino davanti al pubblico a godersi il trionfo mentre le ovazioni non sembravano avere più fine. Fu necessario che i cantanti riprendessero qualche aria, si prodigassero nuovamente in ringraziamenti e inchini perché finalmente la gente cominciasse a defluire dal teatro.
Quando la carrozza si fermò nell’atrio di palazzo Trivulzio, un bellissimo plenilunio illuminava il porticato, gli alberelli d’arancio nei grandi vasi, la spalliera di gelsomino appena fiorito. Fu con quel profumo nelle narici che Vittoria, prima di ritirarsi col marito nella sua camera, sbirciò dalla porta socchiusa la sua primogenita serenamente addormentata. Riaccostò lentamente la porta.
Si sentiva felice: della serata e della sua vita.
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