M. Gisella Catuogno
Cristina (III. Adolescenza )

Titolo Cristina (III. Adolescenza )
Autore M. Gisella Catuogno
Genere Narrativa      
Pubblicata il 20/01/2012
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 Il tempo deponeva a favore di Cristina e della sua bellezza. A dodici anni, aveva già il fascino e la grazia di una giovane donna: a differenza della madre, robusta e prosperosa, lei era alta e esile come un giunco, con occhi grandi, neri come la notte, e una chioma abbondante, fluente, naturalmente mossa, che portava, con la scriminatura nel mezzo, semiraccolta o a chignon sullo splendido collo. Quel che colpiva l’osservatore era il contrasto tra il colore corvino dei capelli e delle sopracciglia e il candore della carnagione. In questa alternanza di bianco e nero spiccava il rosso delle labbra, ben disegnate e piene.  La vita era sottilissima, le spalle leggermente cadenti, il seno piccolo e alto. Aveva ereditato il meglio delle caratteristiche fisiche dei suoi genitori.

La pubertà la imbarazzò, l’arrivo del menarca la sconvolse. Sua madre le aveva detto poco o nulla di quello che le sarebbe accaduto, delle trasformazioni interne  del suo corpo. Per fortuna Ernesta sopperì alla mancanza, le disse con chiarezza e semplicità ciò che le sarebbe successo tutti i mesi da allora in avanti e come affrontarlo. Allora si calmò e accettò la sua femminilità.

Lo studio, la musica, la pittura le riempivano le giornate: tutto la affascinava e la gratificava. Non c’era una disciplina o un’arte, in cui, applicandosi, non riuscisse e di cui non fosse disposta a scoprire la profondità e il valore. Dedicandosi a tali attività, il tempo volava e lei dimenticava, concentrata com’era, la sua corporeità trascurando anche di cibarsi o di dissetarsi.

Al contrario, le pesava enormemente partecipare al salotto di sua madre, dover conversare con gli ospiti, fingere di interessarsi ai discorsi spesso futili delle signore e signorine tutte agghindate che si presentavano a palazzo, nei giorni stabiliti, allontanandosene soltanto diverse ore più tardi, non senza l’abituale consumazione di caffè e di pasticcini. In quelle occasioni, piuttosto che parlare del più o del meno o scervellarsi a trovare argomenti che fossero apprezzati dall’ uditorio, preferiva mettersi al pianoforte. Così, mentre le mani affusolate e candide come la neve, danzavano sulla tastiera, lei poteva staccare la mente e viaggiare altrove, verso orizzonti più confacenti alla sua sensibilità e intelligenza.

Tra quelle ospiti, una soltanto, negli anni, l’aveva attratta per certe affinità elettive che gliela avvicinavano: era una sua omonima, la marchesina Cristina Trivulzio, lontana parente di suo padre, che proprio l’anno prima, a vent’anni, si era sposata con un marchese.

Tra di loro correvano quasi nove anni di differenza ma la simpatia e l’attrazione reciproche, quando si erano conosciute, erano state immediate. Questa cugina poi era in particolare sintonia anche con la sua Ernesta e lei le aveva sentite un giorno parlare sottovoce di politica e dir male degli austriaci.

Nell’estate precedente, qualche mese prima delle sue nozze novembrine, la ragazza le aveva scritto una bella lettera da Balbianino, dove si trovava in villeggiatura con la famiglia, confidandole un incontro importante, che  sarebbe potuto essere decisivo per la sua vita, se i genitori avessero condiviso i suoi voti: quello con Silvio Pellico, giovane intellettuale di belle speranze e ardente patriota.

Quel nome non era ignoto a Cristina: si ricordò di averlo sentito da Alessandro, più volte, e non escluse che egli fosse stato ospite dei suoi in tempi recenti. La ragazza le confidava di essere felice, come mai si era sentita in vita sua, e lusingata dalle pressanti attenzioni del giovane. Le prometteva di rifarsi viva al più presto per raccontarle l’evoluzione della storia.

Ma, invece di una seconda lettera, nel mese d’ottobre, proprio in un giorno di pioggerella uggiosa, che intristiva i tigli del parco e spengeva i colori del cielo sotto una coltre grigiastra, a palazzo Trivulzio era arrivato un invito di nozze. Il cameriere l’aveva recapitato a sua madre mentre stavano per andare a tavola:

“ Ah, si sposa la nostra Cristina! Il prossimo mese…”

“Con chi…?” chiese lei sommessamente temendo una risposta sgradita

“ Col marchese Giuseppe Archinto…lo conosciamo, vero, Alessandro?”

“Sì, certo, è una bella casata, ma di sentimenti austriacanti…lui, poi, non ha un carattere facile. Dicono che sia un tipo geloso e possessivo. Speriamo bene per la nostra Cristina…però ha la passione per la musica, è un bravo violinista…questo li può unire, anche lei è musicista…ti ricordi, Cris, l’ultima volta che è stata da noi, che bel duetto avete fatto insieme al pianoforte?” domandò il patrigno

“Sì, sì…” rispose lei distrattamente, perché la notizia che quella cara ragazza, che pochi mesi prima le aveva confidato un suo innamoramento, dovesse sposarsi con un altro –sicuramente per obbedire alla famiglia- le riusciva intollerabile.

“Che c’è Cris? –le domandò la madre, che si era accorta del suo improvviso turbamento e dei pensieri scuri che la attraversavano come nubi di temporale

“Niente niente…” ma i suoi non le cedettero, perché non toccò quasi cibo e chiese subito il permesso di ritirarsi.

Rivide Cristina Trivulzio il giorno del matrimonio: era bellissima in un abito stile impero in broccato di seta a fiorami, con i capelli biondi raccolti sulla sommità della testa, un piccolo cappello in tonalità col vestito e preziosi orecchini di brillanti che le illuminavano il viso. Ma gli occhi, quando incrociarono per un attimo i suoi, le parvero spenti, rassegnati ad una vita senza amore.

 

L’ottobre di quel 1820 fu particolarmente clemente, quasi un prolungamento dell’estate appena trascorsa. Nei parchi milanesi, dove ogni tanto si recava insieme ad Ernesta, per trovare scorci di paesaggio da rappresentare dal vivo, Cristina si riempiva gli occhi del giallo e dell’indaco dei piccoli fiori di croco disseminati nelle aiuole, della fiamma dei cespugli d’erica, del bianco perlaceo delle gardenie. Il loro profumo la rallegrava e la disponeva al buon umore.

Gradiva quella stagione più di altre perché la ricchezza delle sfumature cromatiche e olfattive la interpretava come un invito all’analisi complessa del reale, evitando semplicistiche soluzioni o giudizi superficiali su persone ed eventi.

Rientrava perciò a casa contenta, pronta a intrattenersi con i suoi e a far giocare Teresa, Virginia, Giulia, le sue tremende ma irresistibili sorelle, e il piccolo Alberto, che lei adorava per il viso d’angelo su cui stampava baci che lasciavano il segno.

Ma la sera del giorno 13 tutto andò diversamente: un imperioso suono di campanello fece trasalire Vittoria, in pensiero già da un paio d’ore per lo strano ritardo del marito. Da quando, in giugno, aveva intrapreso la nuova attività di gestore della società di navigazione che operava sui fiumi e sui laghi lombardi, egli era molto indaffarato, ma mai aveva fatto così tardi senza avvertirla.

Perciò, vivamente preoccupata, si presentò personalmente al portone d’ingresso, incapace di dominare un minuto di più la sua ansia. Dalla carrozza scortata da poliziotti austriaci a cavallo scese barcollando Alessandro. Quando lo vide, la moglie si spaventò: sembrava invecchiato di dieci anni, col soprabito spiegazzato, il cilindro di sghimbescio sulla testa,  e un’ espressione di autentico terrore negli occhi.

I poliziotti biascicarono un discorso in cattivo italiano che suonò alle orecchie di Vittoria come un monito imperioso a non commettere corbellerie e ad essere grato alle loro illustri casate se finiva così, senza un arresto o peggio. Poi finalmente se ne andarono.

“Li hanno presi, li hanno arrestati…” continuava a ripetere, in un ritornello ossessivo, tremando come una foglia, senza rispondere alle domande pressanti della moglie.

Non si cenò come le altre sere nella sala da pranzo: le bambinaie ebbero l’ordine di far mangiare in camera i bambini e di trattenerli lontano dai genitori.

Cristina, prima di ritirarsi, fu appena in tempo a sentire, finalmente, una risposta un po’ più articolata uscire dalle labbra del patrigno:

“Silvio Pellico e  Pietro Maroncelli…li hanno presi e portati via…li uccideranno, sono capaci di tutto”

“Calmati! El primm che s’è imesso l’è mort ” ordinò la moglie ad Alessandro “e spiegami cosa c’entri con loro e cosa ti hanno fatto per essere ridotto in questa maniera!”

“Anch’io, anch’io ci sono nella società…”

“Quale società?”

“Quella dei Federati…”

“Come hai potuto…? Con quattro figli e Cristina e me…non hai pensato alla famiglia? Va bene essere patrioti, amare l’Italia, sperare in un suo riscatto, ma mettere a repentaglio così la propria sicurezza e quella di tutti noi…” gridò Vittoria fuori di sé e intuendo davvero soltanto allora quello che avevano rischiato.

 “Che ti hanno fatto?”

“ Niente di grave, solo minacce. Sospettano ma non hanno prove. A meno che uno di loro non spifferi qualcosa, sono salvo…Ma…quei poveri amici miei, che fine faranno?...”

Vittoria lo aiutò a spogliarsi, a levarsi le scarpe, gli fece bere un infuso calmante e lo lasciò riposare, seduta a due metri da lui, mentre le fiammelle del candelabro giocavano a formare ombre sempre diverse sulla parete.

 

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