Titolo | Cristina. VII La scelta | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Narrativa | ||
Pubblicata il | 11/02/2012 | ||
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Vittoria sentiva molto la mancanza della sua primogenita. La casa era sempre animata dai rimanenti figli, dalla servitù e dagli ospiti, ma questo non le bastava: con Cristina il feeling era particolare e le era sufficiente incrociare il suo sguardo per coglierne al volo il giudizio su persone o eventi e l’incoraggiamento ad andare avanti nella gestione complicata del faticoso microcosmo domestico. Le sue responsabilità erano aumentate a dismisura dalla disavventura patriottica di Alessandro, dalla quale, malgrado il tempo trascorso, egli non si riprendeva continuando ad abdicare ai suoi doveri sul lavoro e in famiglia.
Per Vittoria era diventato un figlio vecchio da accudire piuttosto che il marito affettuoso ed energico che aveva conosciuto e amato.
Alessandro si aggrappava a lei per vincere il trauma dell’esperienza giudiziaria e carceraria ma ormai la disponibilità e la pazienza della moglie erano esaurite.
Vittoria non era una donna da stare senza un uomo vero ed infatti, pur detestandosi a volte per la sua condotta, si era progressivamente avvicinata ad un conte napoletano, non bello né giovane ma pieno di vitalità e di buonumore. Accanto a lui la vita le appariva leggera e piacevole, come riteneva che dovesse essere; inoltre il conte era un ottimo suonatore di flauto e lei adorava la musica. Così, molto presto erano diventati amanti. Non temeva il giudizio della figlia su questa relazione, la sapeva infatti abbastanza sensibile e intelligente da comprendere sua madre; neppure si preoccupava della diffusione della notizia che ormai negli ambienti altolocati era diventata di dominio pubblico e che suscitava pettegolezzi a non finire: era abbastanza navigata per conoscere le conseguenze di un atteggiamento spregiudicato come il suo. Quel che invece la angustiava era la sorte di Cristina accanto a quello sciagurato d’Emilio. Ormai le chiacchiere sul bel principe dilagavano: si mormorava che avesse cominciato a tradire la moglie già poche settimane dopo il matrimonio e che saltasse allegramente da un letto all’altro, come fosse ancora celibe. Era questo che le faceva male: la sua Cristina, quel fiore di ragazza strapazzato e vilipeso da un farabutto del genere. Col rischio concreto che le passasse qualche malattia, puttaniere com’era. Qualcuno mormorava che lui avesse già contratto la sifilide! Dunque doveva muoversi, mettere in guardia la sua primogenita sui rischi che correva, cercarne la confidenza, scoprire come andava tra loro e cominciare a prepararla ad una separazione. Al diavolo il matrimonio! La salute e la felicità di sua figlia valevano cento volte di più.
Si sedette al suo scrittoio, vergò una breve lettere indirizzata alla principessa di Belgiojoso, per invitarla a palazzo appena potesse e ordinò al maggiordomo di farla recapitare al più presto. L’ansia le serrava la gola. Fu solo in tarda serata, dopo aver messo a letto figli e marito, che la compagnia e i non disprezzabili argomenti del suo conte napoletano riuscirono a calmarla e a farla addormentare relativamente serena tra le seriche lenzuola.
L’effetto che la visita alla madre ebbe su Cristina fu la drammatica presa di coscienza della sua condizione di giovane moglie già tradita dal marito e dei rischi che la sua salute correva accanto a lui. A questi ultimi non aveva pensato e fu sgradevole e necessario farselo spiegare da lei. In quell’occasione Vittoria fu impietosa e le ricordò anche gli attacchi epilettici di cui aveva sofferto da bambina. Sapesse che pochi giorni fa ne ho avuto un altro! pensò subito e per un attimo ebbe la tentazione di rivelarglielo, ma fece marcia indietro Non voglio darle anche questa preoccupazione rifletté e continuò ad ascoltarla con lo spillo dell’angoscia conficcato nel cuore.
Eppure, malgrado le raccomandazioni di prudenza e la consapevolezza del pericolo, ancora per due lunghi anni, continuò ad essere di nome e di fatto la moglie di Emilio: la teneva legata a lui una dipendenza fisica da cui non riusciva a liberarsi. Gli attimi di pura estasi che lui le regalava la compensavano delle umiliazioni e delle paure che la rincorrevano e che alimentavano i suoi sogni inquieti. Era una sfida che lanciava alla sua razionalità e al suo ambiente: dimostrare a se stessa e agli altri che ce l’avrebbe fatta a convertire il marito libertino alla fedeltà matrimoniale o ad una parvenza di essa, risparmiandole la sfacciataggine dei tradimenti consumati senza pudore.
Le capitava spesso di pregare, di avvertire l’urgenza di rivolgersi a chi poteva ascoltarla e forse esaudirla senza chiederle nulla in cambio, se non il riconoscimento della sua superiorità, della sua grandezza e bontà infinite. L’educazione religiosa che aveva ricevuto si era nutrita di cerimonie fastose, come quella della cresima e della prima comunione, ma lei preferiva all’esibizione della fede un colloquio interiore con la divinità, senza neppure sapere bene a chi si rivolgeva: alle sue labbra saliva un’invocazione generica Signore e a quell’entità, a quell’assoluto, inviava la richiesta della grazia. Dopo si sentiva più serena, come se avesse compiuto tutto quello che era nelle sue facoltà e si potesse rilassare, abbandonandosi fiduciosamente alla volontà divina.
In quegli anni travagliati, di velleitarie illusioni e di cocenti disillusioni, un altro conforto, oltre la frequentazione delle amiche e della famiglia, fu lo studio. Si gettò con inesausta fame di conoscenza sulla storia, sulle lingue, sull’economia e la statistica. Ogni disciplina le spalancava porte prima sigillate, le allargava a dismisura gli orizzonti dello spirito, la innalzava sopra la mediocrità dell’ambiente mondano che era costretta a frequentare e che pure, non raramente, l’attraeva. Ma all’alba dei suoi sofferti vent’anni capì che il tempo delle decisioni forti era maturo.
La goccia che fece traboccare il vaso della sua disperata pazienza fu l’invito che le fece Emilio di una sorta di ménage a tre con la sua nuova amante, insomma una concubina in casa.
Nella furibonda litigata che ne seguì e che sconvolse per un’intera giornata la torpida quiete del palazzo, Cristina gli rinfacciò la vita d’inferno a cui l’aveva costretta, il terribile regalo della sua vergognosa malattia ma, in un momento di relativa calma, lo ringraziò anche di averle fatto toccare il fondo dell’abiezione, con quella assurda richiesta. Ora non avrebbe potuto che risalire la china, riappropriandosi della sua libertà.
La sera stessa, con un bauletto nel quale aveva rinchiuso, alla rinfusa, indumenti, documenti, soldi, gioielli e la fierezza ritrovata, si presentò al portone della casa di Ernesta, che la accolse a braccia aperte.
Dalla finestra della cameretta, Cristina vedeva fioccare la neve, lenta e insistente, che si posava sulle strade, sui marciapiedi, sulle carrozze, sui pastrani e sulle mantelline dei passanti, che procedevano frettolosi, seppure a piccoli passi, per prudenza. Notò che qualche fiocco si era posato anche sui mazzetti di vischio e d’agrifoglio che la giovane fioraia all’angolo, intirizzita, offriva alle signore con cappello e manicotto, ringraziando con un inchino ogni acquisto. Ovunque posasse lo sguardo, il consueto paesaggio era trasfigurato: non esistevano più i tetti ma inclinate superfici di bianco e i rami degli alberi avevano dismesso il loro aspetto spoglio per vestirsi di candore. Il cielo era grigio e impenetrabile come una sfinge ma capannelli di ragazzi che, nelle vicina piazzetta, avevano cominciato a tirarsi palle di neve, rossi per il freddo e l’eccitazione, rallegravano il quadretto e l’umore della ragazza. Le sembrava che anche sulla sua mente stesse nevicando, perché tutte il dolore che aveva vissuto fino a quel momento era attutito e reso impalpabile dall’amore disinteressato che aveva finalmente trovato.
Trascorse da Ernesta quasi tutto quel dicembre 1828, che le rimase stampato nel cuore per il resto della sua vita, per il calore che ne ricevette. Già dopo una settimana le pareva di vivere una rinascita, di essere una farfalla appena liberata dalla prigione della crisalide, si sentiva pronta a cominciare un’esistenza finalmente degna di questo nome. Il suo letto solitario le appariva un privilegio e casa Bisi, affollata e allegra, più preziosa di una reggia. Aspettava il Natale con l’entusiasmo di una bambina.
“Sei anche diventata più bella!” assicurava Ernesta
“Tutto merito vostro” e gli occhi le brillavano di gratitudine
“Non desideri uscire, andare a trovare tua madre?”
“Fra poco sarò pronta ad uscire e…ad andarmene da Milano. Ci ho pensato tanto, Ernesta, non credo di poter continuare a stare in questa città. Sono troppo conosciuta, sono la moglie del principe di Belgiojoso, che ha abbandonato il marito…troppi pettegolezzi, troppe chiacchiere…mi dispiace soltanto per la causa, per gli amici patrioti, ma sono certa di poterli aiutare ovunque andrò, anzi di più e meglio di adesso. Mi darete una mano voi e Bianca a mantenere i contatti. Spero soltanto che Emilio non mi metta i bastoni tra le ruote…spero di zittirlo pagandogli i debiti….sempre che Vienna mi lasci in pace e non mi sequestri il patrimonio.”
“Abita tranquilla in questa casa come fosse la tua e per tutto il tempo che vuoi, va’ soltanto quando ti senti sicura di farlo. Lo sai che le bambine ti adorano, che per me e Giuseppe sei una sorella…se te ne andrai dalla città, staremo in contatto e, quando ritornerai, ci troverai felici d’accoglierti! Ma ora non pensiamo alle partenze, pensiamo al pranzo di Natale! Pensi di farcela a rifiutare l’invito di tua madre e a stare con noi, Bianca e famiglia?”
“Sì, Ernesta, m’inventerò una scusa, mi dispiace per i miei fratelli…per tutti, ma preferisco stare qui per le feste. Sono sicura che mi perdoneranno”
“Allora preparati, dobbiamo fare i tortei con la zucca, la buseca, gli ossibuchi col riso giallo allo zafferano, il torrone”
“Evviva! Sarà il Natale più bello della mia vita” esclamò felice Cristina abbracciando commossa la sua amica-sorella e le bambine che le saltellavano intorno.
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