Titolo | Cristina (XII. Provenza, profumo di mare e di libertà) | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Narrativa | ||
Pubblicata il | 25/03/2012 | ||
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Del lillà dei campi di lavanda, che si estendevano a perdita d’occhio in quell’angolo incantato di Francia, Cristina poteva solo immaginarsi il colore e il profumo, perché era novembre quando approdò come un naufrago in Provenza; ma i villaggi arroccati sulle colline, le vestigia romane dalle quali echeggiava l’eco dell’antichità, le stradine acciottolate, gli scalini che si arrampicavano agli usci delle case di pietra con i gerani ancora accesi di rosso alle finestre, i tetti mediterranei, così armoniosi, così caldi da vedere, le parvero tutti là per accogliere e consolare le sparse membra della sua esistenza dopo una fuga penosa e rocambolesca per sottrarsi all’arresto della polizia austriaca e alla monacazione forzata.
La clinica del dottor D’Espine era una villa a due passi dal mare, circondata dal verde dei pini e da spalliere di bounganvillea, dove il medico viveva con la famiglia e curava privatamente i suoi clienti. Tra gli ospiti di quel periodo c’era un giovane intellettuale poco più che trentenne, Augustin Thierry, bello e sfortunato, contro cui la sorte sembrava accanirsi. Oltre ad aver perso la vista – per i suoi studi e scritti, infatti, doveva sempre avvalersi dell’aiuto di un segretario- era affetto da una malattia muscolare che progressivamente ne impediva la locomozione. D’Espine sperava di contribuire a risolvere quest’ultimo problema, ma intanto l’uomo si muoveva trascinandosi con le stampelle. La sua immensa cultura, specialmente storica, unita alla profonda sensibilità attirarono irresistibilmente Cristina, che ne divenne subito amica. Ben presto li si vide infatti passeggiare all’aperto, sotto i pini, sedersi sulle panchine e parlare ore insieme:
“Augustin, mi hai aperto gli occhi della mente, con la tua idea dello storico che non deve offrire solo documenti e cifre in maniera arida, ma narrare piacevolmente gli eventi, divulgare quello che è accaduto, dimostrare il ruolo dei popoli, oltre quello de governanti, nel processo storico…dico bene?”
“Sì, Cristina…e occorre anche tener conto della missione morale e politica che è affidata a noi intellettuali di diffondere teorie come quelle di Saint-Simon, che guarda ad una società dove non esistano scandalose disuguaglianze e dove trionfi la giustizia sociale che oggi è negata!”
“Ma questi principi non li troviamo già nel Vangelo? Ricordi? E’ più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che un ricco vada in paradiso”
“Eppure, dopo 1800 anni non ce l’abbiamo ancora fatta…”
“Ma abbiamo qualche speranza, vero, amico mio? Guarda la rivoluzione di luglio a Parigi! Quando il popolo si solleva…”
“Ma sai chi ha spinto il popolo a sollevarsi? Noi, gli storici! François Mignet, Adolphe Thiers, François Guizot ed io abbiamo scritto un sacco d’articoli su Le National…e il ruolo della stampa, Cristina mia, è stato, è e sarà fondamentale, soprattutto in futuro, per guidare gli avvenimenti, non te lo scordare. E poi c’è stata la carboneria francese, a cui anch’io appartengo, a fare il resto…invitando il vecchio
“Oh, se qualcosa di simile avvenisse in Italia! Una rivoluzione di popolo, con a capo Carlo Alberto, principe di Carignano! E’ lui la nostra unica speranza.”
“Me lo auguro di cuore anch’io…ma ora parliamo di noi, di te, non mi hai ancora raccontato nei particolari come sei arrivata in Provenza…dai, sono tutto orecchi!”
Cristina lo guardò con affetto, riconoscente: era sinceramente affezionato a lei, la chiamava soeur sorella e la ascoltava sempre con attenzione.
“Augustin, è una lunga storia e il sole sta per lasciarci…ma cercherò di accontentarti…
Allora, ero in viaggio per Genova, Stato di Sardegna, per arrivare tranquillamente in Provenza a farmi curare. Avevo il mio passaporto e un po’ di soldi, non molti a dire la verità, ma mia madre stava per farmeli recapitare.
Ecco che appena giunta in città e cominciati i primi contatti, mi rendo conto che qualcosa non va: il conte di Venanson di solito molto gentile nei miei confronti, mi appare algido e in imbarazzo. Comincio a sospettare qualcosa; so che qualche giorno prima hanno fatto una retata arrestando anche il povero Mazzini. Chiedo il visto per recarmi a Nizza e commetto l’imprudenza di lasciare per pochissimo tempo sul tavolo il mio passaporto. Quando ritorno non lo trovo più. Sparito. Chiedo spiegazioni. Sono vaghe ma mi si promette che tutto sarà risolto in breve tempo e che è un semplice controllo. Sto in campana ma rientro nella mia casa genovese: ad un’ora inaspettata giunge, dalla porta di servizio, la marchesa Pallavicino, agitatissima. Dice che fra poco ci saranno i carabinieri all’ingresso e che chiami il fedele Borlasca, che lei stessa mi ha messo in casa come amministratore dei miei beni, nel mio precedente soggiorno genovese. Lui presente, mi riferisce che Venanson l’ha avvertita che il mio passaporto è nelle mani del console d’Austria, che a Nizza mi aspettano i carabinieri e che non faccia colpi di testa, perché tanto a Milano è già stato deciso di chiudermi in convento. Vado in escandescenze, mi muovo su e giù per la sala come un leone in gabbia, la povera marchesa mi implora di calmarmi e di tacere per non insospettire la servitù. Mi sussurra che ha già preso i contatti giusti e che sarò aiutata a fuggire in Francia dalla carboneria genovese. Mi calmo appellandomi alla ragione per non impazzire. Congedo la buona signora che mi abbraccia tra le lacrime e preparo il necessario da portarmi. Do licenza alla servitù annunciando che devo recarmi a Nervi, dove mi tratterrò qualche giorno. A notte fonda, con un’agitazione che ti puoi immaginare, con pochi soldi e un fagotto con lo stretto necessario, io e Barnaba Borlasca usciamo dalla porta di servizio. Qualcuno ci segue ma lo seminiamo. Vado, secondo gli ordini, a casa della mia amica Bianca Milesi, che da qualche tempo si è trasferita qui da Milano. Lei tra abbracci, lacrime e ammonimenti, cambia in oro il mio denaro e mi dice che mi sta aspettando un cugino carbonaro, l’avvocato Giuseppe Pedevilla, col suo cavallo. Un abbraccio a Bianca e uno a Barnaba, anche lui commosso, e via al galoppo con lo sconosciuto di turno. Tremo dal freddo e dalla paura, mi aggrappo a lui disperatamente, prego Dio e maledico Torresani”
Cristina s’interruppe per riprendere fiato e notò che era davvero l’ora di rientrare alla villa: il cielo era ancora rosso del tramonto appena avvenuto ed annunciava una serata quieta.
“Andiamo Augustin, è tardi…” e si chinò sull’amico per aiutarlo, sfiorandolo coi suoi ricci. Il giovane sentì sul viso quella carezza involontaria e sorrise:
“Cristine, ma soeur et mon amour” sussurrò ma lei fece finta di non aver sentito
“Ecco, camminiamo piano piano, mentre ti finisco il mio racconto…”
“Très bien, mon amie…”
“Allora, il cavallo galoppa e a me pare d’essere l’Eleonora della Ballata di Burger, che si crede abbracciata al suo amato e invece è abbracciata alla morte e va in un cimitero piuttosto che nel suo letto di nozze…ma resisto. Arriva il mattino, ci ripariamo in una casa abbandonata, mangiamo qualcosa che ho portato con me e crollo per il sonno. Dormo qualche ora accanto a Giuseppe, che si rivela un cavaliere compitissimo. Riprendiamo la fuga: per fortuna il tempo è discreto e non fa freddo. Annuso il profumo del mare, lo sento vicino anche se no lo vedo. Intorno a me campi arati, pronti alla semina e boscaglia. Ogni tanto odo versi d’uccelli e vedo qualche stormo che si appresta a partire. Come me, penso. Loro sfuggono l’inverno, io la cattiveria e l’ottusità degli esseri umani. Di certi uomini, almeno…
Sto per lasciare il mio Paese, quell’Italia disunita che sento mia nazione.
Ci avviciniamo ad una locanda che è quasi sera, abbiamo viaggiato tutto il giorno. Sono a pezzi, mi fa male la schiena e i muscoli delle gambe, sono impolverata, sporca e affamata. A pochi chilometri c’è il fiume Varo, che segna il confine con
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