Titolo | LA GUERRA RUSSO–GIAPPONESE (1904 – 1905) | ||
Autore | Alberto Caminiti | ||
Genere | Storia | ||
Pubblicata il | 17/04/2012 | ||
Visite | 8975 | ||
Editore | Liberodiscrivere® edizioni | ||
Collana | Koine´ N. 21 | ||
ISBN | 9788873883838 | ||
Pagine | 160 | ||
Prezzo Libro | 15,00 € | ![]() |
All'inizio del secolo scorso (1904 - 05) il mondo fu scosso da un evento bellico che lasciò senza fiato politici e militari: il Giappone aveva risolto a proprio favore il conflitto con l'Impero Russo, distruggendo completamente la flotta zarista a Tsushima e annientando le armate russe nelle grandi battaglie campali di Port Arthur, Mukden e di Manciuria. Era quindi comparsa una nuova potenza nel settore asiatico che lanciava una sfida al mondo occidentale: l'assetto geopolitico nel Pacifico non sarebbe stato mai più quello di prima. Non solo, per la prima volta al mondo, un potente esercito europeo (quello zarista) era stato sconfitto da un'armata asiatica. L'intero sistema di alleanze e strategie mondiali veniva messo in discussione: il Giappone era salito al rango di grande potenza militare.L'evento passò ben presto nel dimenticatoio sia per la lontananza geografica, sia perché l'immane massacro della successiva Prima Guerra Mondiale e della Rivoluzione bolscevica spazzarono, dall'immaginario collettivo, i ricordi di quel conflitto, lontano e particolarmente sanguinoso.
Proprio perché nessuno rammenta più la guerra russo-giapponese, sembra opportuno richiamare alla memoria delle nuove generazioni quei memorabili fatti d'armi che segnarono il declino inarrestabile della Russia zarista ed evidenziarono al mondo la nascita della nuova grande potenza: l'Impero del Sol Levante!
INTRODUZIONE ED ANTEFATTO
Parlare della guerra russo–giapponese significa riesumare dopo oltre un secolo un conflitto di cui ancor oggi si ha scarsa memoria.
Quando poi si intendesse approfondire l’argomento, si scoprirà che pochi sono i libri o comunque gli scritti contemporanei su quello scontro che, invece, fu importantissimo per gli assetti mondiali, come cercheremo di chiarire.
Allora la prima domanda è: perché se ne è parlato poco?
Ritengo che principalmente abbia influito il successivo –di poco– immane carnaio della Prima Guerra Mondiale che “oscurò” senza dubbio la limitata (al confronto) campagna di guerra nell’Estremo Oriente, per noi europei così distante nello spazio.
L’altro motivo, sempre a mio personale parere, va ricercato nel fatto che per una inesplicabile legge di natura (o “forma mentis”?) tutta la storia sia a livello scolastico che scientifico, è ancora oggi impostata su un assoluto euro–centrismo.
Se riguarda noi o un paese europeo: bene; altrimenti è come se non ci riguardasse. Abbiamo recentemente seguito le vicende della Bosnia e del Kossovo, ma le Malvine (Falkland) ci hanno lasciati totalmente indifferenti.
Eppure quel conflitto asiatico del 1904–05 fu di enorme importanza, sia perché evidenziò l’ormai inarrestabile indebolimento dell’Impero Zarista (un decennio dopo sarebbe crollato a seguito della Rivoluzione d’Ottobre), sia perché pose all’attenzione del mondo intero la nascita di una nuova grande potenza in Asia: il Sol Levante!
Strategicamente quella guerra rappresentò, poi, il crinale fra il passato e la condotta militare dei conflitti moderni: l’ultimo assedio statico di una piazzaforte (Port Arthur), la prima grande battaglia navale (Tsushima) in cui telecomunicazioni e tiro centralizzato delle artiglierie di bordo furono la carta vincente; ed infine la dimensione globale della guerra, che ebbe allora il suo apice nel periplo del continente africano da parte della Squadra navale russa partita dal Baltico quale rinforzo alla Flotta zarista del Pacifico di base a Vladivostock ed a Port Arthur.
Senza contare, per la parte squisitamente politica, l’alleanza fra Giappone ed Inghilterra (che durerà fino a tutta la 1^ G. M.) e l’asse antinipponico che si venne a formare tra Russia – Germania – Francia che volevano bloccare sul nascere il sorgente espansionismo del Sol Levante che, a loro parere, perturbava gli equilibri asiatici.
Non si può utilmente trattare dell’argomento se non si va a rappresentare la situazione politica dell’Estremo Oriente conseguente alla Pace di Shimonoseki (17 aprile 1895) che aveva posto fine al 1° conflitto cino–giapponese. Quest’ultimo era sorto per il comune interesse che entrambe le potenze asiatiche avevano sul regno di Corea, vassallo nominale della Cina, ma agognato obiettivo d’espansione politico–economica dell’Impero nipponico in piena esplosione demografica.
Bisogna comprendere lo stato d’animo giapponese in ordine alla incombente (geograficamente) penisola coreana; sia nel subconscio, in quanto da lì erano partiti nel passato i vari tentativi d’invasione da parte delle armate mongole; sia nella più immediata necessità di trovare uno sbocco alla propria emigrazione, storicamente orientata, appunto, verso la Corea.
Appare chiaro che il punto nevralgico di tale conflitto fu proprio la Corea: la dinastia Qing (Cina) non voleva perdere il controllo della citata penisola, mentre l’Impero nipponico (dinastia della Restaurazione Meiji) ne aveva assolutamente bisogno ai fini della propria espansione commerciale, ma anche, si ripete, demografica. Ricordiamo che la Corea era ricca di risorse naturali indispensabili per una moderna industria (carbone e materiali ferrosi).
Sicché la guerra cino–giapponese sarebbe diventata lo specchio della reale situazione politica nell’Estremo Oriente, dove la Cina appariva in fase di avanzata degenerazione e declino della dinastia Qing, presso la cui Corte la corruzione dei dignitari era diffusissima e praticata apertamente.
Dall’altra parte stava il Giappone in piena apertura alla occidentalizzazione e modernizzazione, che cercava di emulare le politiche imperialistiche esercitate dai suoi maestri occidentali.
Il concetto era il seguente: se tutti gli Stati europei si stanno impadronendo dei porti e dei commerci cinesi, perché non possiamo farlo anche noi?
La campagna di guerra nipponica iniziata il 1° agosto del 1894 con lo sbarco di un forte contingente di truppe a Chemulpo (oggi Inchon, Corea del Sud) e l’immediato rafforzamento da parte cinese dell’esercito stanziato in quella penisola, rappresentarono quindi le naturali conseguenze delle rispettive posizioni militari. Chiaro obiettivo strategico del Giappone era il controllo della Corea, ed altrettanto evidente era l’alzata d’orgoglio cinese, che non tollerava offese al proprio prestigio né perdite d’influenza sulla malcapitata penisola coreana.
Non è questo il posto per esporre le vicende di quest’altro conflitto, ma si deve pur accennare al fatto che per il Giappone fu di assoluta necessità assicurarsi il dominio del mare, dovendo trasportare il proprio esercito (7 divisioni per 120.000 uomini) dall’arcipelago nipponico sul territorio coreano prima, e nella Manciuria dopo.
Qui salta evidente per la prima volta l’accortezza della politica di modernizzazione dell’esercito e della flotta svolta negli anni precedenti dal Giappone, che si era ispirato ai più avanzati concetti militari europei. Infatti le moderne navi giapponesi, quasi al completo acquistate nei principali cantieri d’Europa (Germania, Inghilterra ed Italia) hanno ragione in più riprese dell’antiquata flotta cinese; mentre sul fronte terrestre, le magistrali manovre dei Corpi d’esercito del Sol Levante consentono il superamento delle linee del Celeste Impero, le cui truppe mal comandate e poco o nulla addestrate ad un conflitto moderno e, soprattutto, prive di regolari rifornimenti vanno rapidamente allo sbando.
L’Impero cinese, pur lungi dall’aver esaurito le proprie capacità di resistenza, era tuttavia gravemente scosso, avendo perduto le migliori navi, le poche truppe modernamente armate e le più importanti piazzeforti. Quindi, anche per le pressioni franco–russo–tedesche, la Cina si indusse a chiedere un armistizio (30 marzo 1895), cui fece seguito la Pace di Shimonoseki (17 aprile 1895).
Se le potenze europee fossero state più attente, il segnale doveva esser chiaro: era nata in Asia una nuova, grande entità politica (il Giappone).
Negli anni a venire non si sarebbe potuta assumere alcuna decisione nell’Estremo Oriente senza tenere conto dell’Impero del Sol Levante!
E veniamo alle conseguenze del trattato di pace, che avrebbe dovuto accogliere in toto le aspettative nipponiche. Il Giappone infatti ottenne l’isola di Formosa, il gruppo delle Pescadores, una forte indennità di guerra (oltre 200 milioni di taels, pari al prezzo pagato dalla Marina nipponica per l’acquisto delle nuove corazzate dai cantieri europei), nonché la libertà di traffico commerciale delle navi giapponesi in alcuni porti continentali.
Sembrava a questo punto soddisfatta ogni istanza nipponica ed il Giappone si aspettava di essere riconosciuto come prima potenza asiatica e pari delle nazioni occidentali. Non avvenne però così.
Infatti proprio le potenze europee compresero che il colpo definitivo assestato dal Giappone alla dinastia Qing consentiva di fatto il predominio sulla esausta Cina. Intervenendo sul territorio della quale avrebbero impedito l’ulteriore espansione della nuova minacciosa potenza asiatica.
Russia, Francia e Germania si allearono tra loro con un patto (chiamato “Triplice Intervento”) per bloccare le mire imperialistiche giapponesi e sfruttare le ancora abbastanza floride ricchezze cinesi soprattutto nella regione settentrionale della Manciuria.
Con un atto d’imperio obbligarono il Celeste Impero a consegnare loro i principali porti commerciali; la Russia occupò quasi immediatamente la penisola di Liaotung ed iniziò a fortificare la città di Port Arthur. Per le pressioni di tale Triplice dunque i nipponici furono costretti ad abbandonare i territori cinesi continentali faticosamente conquistati. L’orgoglio giapponese ne risentì pesantemente, per cui vennero gettate le premesse per il futuro conflitto russo–giapponese.
Ecco che rimane evidenziata la funzione di antefatto che la c. d. Prima guerra cino–giapponese costituì rispetto all’imminente scontro fra gli Imperi dello Zar e del Sol Levante.
La Cina da parte sua capì l’antifona: era l’ora di modernizzarsi se voleva salvare un minimo di indipendenza e di sovranità. E passiamo al nostro argomento. La cessione della penisola di Liaotung, per la cui conquista migliaia di soldati giapponesi si erano inutilmente immolati, amareggiò profondamente l’opinione pubblica nipponica. Ancor più la colpì la politica di strisciante inserimento svolta dall’Impero zarista che ottenne, in quegli anni, dalla stremata Cina il passaggio attraverso la Manciuria cinese della ferrovia Transiberiana che collegava Mosca a Vladivostock, la grande piazzaforte marittima russa sul Pacifico (ferrovia lunga ben 9. 280 km.).
Subito dopo, la Russia, proprio giustificandosi col dover costruire il tratto manciuriano della linea e di doverlo rendere sicuro, occupò militarmente la regione e si fece cedere in affitto, a lunga scadenza, Port Arthur e Talien–van, da cui i giapponesi erano stati allontanati dopo Shimonoseki.
La pressione russa era adesso pesante e continua e minacciava di estendere la propria influenza sulla intera penisola coreana.
Peraltro la 1^ guerra cino–giapponese aveva causato un fondamentale riorientamento della politica estera russa dall’Europa verso l’Asia. Il governo zarista comprendeva che il Giappone ora costituiva una minaccia importante per la sua frontiera siberiana, la quale si manifestava come debolmente difesa. Vennero pertanto accelerati i piani per “colonizzare” l’intera Manciuria e per prima mossa –come già sopra accennato– si decise di prolungare la Transiberiana fino a Port Arthur (il progetto segreto ne prevedeva addirittura il proseguimento fino a Pekino!).
Quando i Boxer nel 1900 fecero scoppiare la rivolta xenofoba e danneggiarono gravemente la citata linea ferroviaria, i russi colsero l’occasione; inviarono ben 100.000 soldati ed occuparono l’intera Manciuria.
Il Governo giapponese non poté interpretare tale mossa che in un solo modo: la Russia intendeva stabilirsi in Manciuria, anzi avrebbe tentato di espandersi ancora più a sud.
Il Giappone quindi si sentì attanagliare alla gola, non poteva più consentire che la morsa russa lo soffocasse. All’interno esplodevano forti movimenti nazionalistici popolari; i circoli militari soffiavano sul fuoco del patriottismo, sicché i contrasti con l’espansionismo zarista raggiunsero rapidamente il loro acme.
Il Governo nipponico si mosse politicamente bene, da una parte iniziando tutta una serie di trattative con la Russia, dall’altra con azioni tendenti ad accaparrarsi le simpatie cinesi o quanto meno a procurarsi la neutralità del Celeste Impero sulla questione in corso. Infine strinse nel 1902 un importante trattato d’alleanza con la Gran Bretagna, quale contrappeso all’alleanza antinipponica corrente fra Russia, Francia e Germania.
Le premesse diplomatiche vi erano tutte; ora necessitava rinforzare le armate di terra e di mare. Venne sviluppato un intenso programma di potenziamento militare. Fu acquistata direttamente dai cantieri inglesi Armstrong la corazzata ammiraglia della Flotta d’alto mare, la “Mikasa”; mentre dall’Italia si ritiravano i velocissimi incrociatori “Nisshin” e “Kasuga”.
Equipaggi misti anglo–giapponesi ed italo–giapponesi condussero le navi verso il Giappone, e già il viaggio fu sfruttato per l’addestramento dei marinai nipponici, soprattutto quelli addetti alle radiocomunicazioni ed alle artiglierie di bordo (con continue manovre di fuoco notturno).
Chi scrive ha potuto vedere di persona, anni fa, il Diploma e la Medaglia–ricordo che il padre di uno zio della propria moglie aveva ricevuto per riconoscenza dalla Marina del Tenno, avendo fatto parte dell’equipaggio che aveva condotto uno dei sopra menzionati incrociatori dai cantieri Ansaldo di Sestri Ponente (Genova) in Giappone.
Ricordiamo che entrambi gli incrociatori di costruzione italiana sopra citati si coprirono di gloria sia nella Battaglia del Mar Giallo che in quella finale di Tsushima.
Inoltre i cantieri del Sol Levante provvedevano alla costruzione del naviglio sottile, specialmente delle micidiali torpediniere veloci, mentre le industrie d’armamento sfornavano a getto continuo cannoni, proiettili, spolette, oltre agli strumenti ottici ed elettrici necessari al riallestimento delle navi e al potenziamento delle armate terrestri.
Se da un lato dobbiamo ammirare la spinta di modernità che il Giappone stava imprimendo alle proprie strutture militari, esaltando lo slancio vitale di un popolo che al tempo stesso era antichissimo e giovanissimo (secondo la brillante definizione di uno storico contemporaneo), dall’altro non possiamo che evidenziare l’imprevidenza e la miopia dell’Impero zarista che ignorò totalmente le necessità di sbocco della pentola a pressione nipponica ed i conseguenti pericoli di guerra. Ormai non era possibile arrestare il naturale sopravvenire del conflitto; stava per divampare l’incendio che avrebbe portato il Giappone definitivamente fuori dal Medioevo, e che avrebbe stabilito per il futuro la supremazia del Sol Levante in Estremo Oriente.
Con le vittorie di Port Arthur e di Mukden (terra) e di Tsushima (mare), come vedremo, il Giappone salirà al rango di grande potenza mondiale.
MONARCHIE A CONFRONTO
Mai forse due Case dinastiche sono state tanto differenti fra loro quanto quelle dei Sovrani russo e giapponese che guidavano all’epoca i due Imperi in conflitto.
Infatti lo “Zar di tutte le Russie” (così si denominava ufficialmente Nicola II) era l’esponente di una monarchia assoluta ormai in declino, esangue, non amata dal popolo, la cui autorità era affidata soltanto alla temibile polizia segreta (l’Ochrana) ed alle sciabole dei Cosacchi.
La triste fine sua e di tutti i familiari Romanoff tredici anni dopo in uno sperduto casolare di Jekaterinenburg, non deve coprire le sue incapacità di governo.
Il giudizio che ne ha dato la storia è univoco dopo l’infelice condotta della 1^ Guerra Mondiale: senza idee né carisma, e privo di personalità.
Un uomo che l’appuntamento col Destino trovò al posto sbagliato nel momento peggiore.
Per comprendere meglio, però, la situazione politica russa dell’epoca, dobbiamo per un istante rapportarci a quell’inizio di secolo.
All’esterno la Russia si presentava come una grande Potenza dalla forza impressionante e pressoché inesauribile; all’interno però tarli sotterranei lavoravano senza sosta per la sua disgregazione.
Chiariamo il concetto. La Grande Madre Russia poteva contare di fatto su un esercito sterminato, il più numeroso d’Europa, e su tre poderose Flotte stanziate strategicamente nel Mar Baltico, nel Mar Nero e nel Pacifico.
Già però la struttura militare aveva una grossa pecca: gli ufficiali entravano nell’esercito quasi esclusivamente in base al titolo nobiliare, senza serio addestramento, senza aver conosciuto la vera vita di caserma, le manovre e le tattiche belliche. Se parenti dello Zar, poi, o Granduchi, andavano subito al comando di Divisioni e Armate. Il divario fra gli ufficiali e la truppa era abissale; lo scudiscio serviva a confermare gli ordini e i poveri coscritti erano in pratica solo carne da macello.
La Russia zarista va vista quindi come un “Colosso dai piedi d’argilla” che abbracciava quasi un sesto dell’intera superficie terrestre, che era provvisto di ricchezze naturali e minerarie pressoché inesauribili, che poteva schierare una massa di soldati infinita, ma nella sostanza non si reggeva in piedi. Il divario enorme fra le immense ricchezze dei nobili e dei latifondisti si contrapponeva alle condizioni di abbrutimento del popolo della gleba che lottava quotidianamente contro la fame e le malattie. Su questa disastrosa situazione fece poi leva, e con successo, la Rivoluzione bolscevica.
Comunque se almeno l’amministrazione dello Stato fosse stata ben organizzata, le cose in qualche modo avrebbero potuto reggere. Invece la corruzione e il servilismo regnavano ovunque, in qualsiasi struttura statale. Chi riusciva a raggiungere una discreta posizione, una carica amministrativa ben remunerata, anzitutto aveva dovuto strisciare ed ottenere appoggi a tutti i livelli; ora –al fine di mantenerla– utilizzava per sé ogni possibile forma di tangenti e bustarelle, e verso gli altri procedeva col ricatto, la calunnia, la denuncia.
In pratica nell’Amministrazione zarista ci si logorava a difesa della propria carica, si ignoravano possibili riforme migliorative, si aderiva supinamente alle superiori direttive. Al vertice stava, come abbiamo visto, lo Zar; ma egli, che pur era agli occhi del suo popolo come un “Piccolo Padre Santo”, personalmente rifuggiva dalle decisioni, temeva le novità e correva a rifugiarsi presso l’adorata famiglia ogni volta che invece ci sarebbe stata necessità di un’azione vigorosa.
Così, vedremo, accadde per il conflitto russo–giapponese.
Lo scrittore tedesco Frank Thiess al riguardo lapidariamente afferma:
“Da questo Imperatore furono prese delle decisioni che, quando erano giuste, vennero trasmesse a uomini inetti oppure arrivarono quando era troppo tardi. Dette la sua fiducia a uomini indegni e la lasciò loro finché non ci fu più nulla da fare. Allora venne la volta di coloro ai quali non restava che morire per lui”!
Dall’altro lato vi era l’Imperatore Mutshuito (1852 – 1912) che guidava con mano ferma il nuovo Giappone, “nato” nel 1868 con la estromissione dal potere dell’ultimo Shogun. Egli aveva iniziato la cosiddetta “Era Meiji”, ossia della “Restaurazione imperiale”; aveva dato ai giapponesi nel 1889 una Costituzione di impronta moderna, spostando la capitale a Yedo e ribattezzandola Tokio.
Pur se la Costituzione era ottriata, ossia era stata elargita al popolo, e pur se in pratica nella prima parte era una lunga conferma della natura divina dell’Imperatore e della Casa imperiale, era pur sempre un inizio di democrazia dopo secoli di ottuso feudalesimo.
Non che fosse stato facile, poi, liberarsi dall’ultimo Shogun.
A metà Ottocento il Giappone era ancora terribilmente in ritardo per quanto atteneva a politica ed economia. Gli storici hanno calcolato che, rispetto ai paesi europei, era arretrato di almeno due secoli.
Nel contempo però era maturo per un’apertura più democratica grazie al pieno sviluppo dei suoi traffici mercantili, alla laboriosità del suo popolo, al comune desiderio di modernità serpeggiante negli studenti, nelle Forze Armate e nella popolazione tutta. Ognuno sapeva di essere pronto per il grande salto.
La palla al piede, però, era rappresentata dai Tokugawa, gli Shogun allora in carica, che da secoli amministravano realmente il Giappone, mentre l‘Imperatore, chiuso nella sua reggia e fisicamente lontano dai propri sudditi, viveva una vita totalmente separata e –soprattutto– distante dalla politica e dalla realtà quotidiana. Fu proprio questo il magnifico progetto dell’uomo forte Mutshuito: riprendersi il potere.
Come spesso avviene nei momenti storici cruciali, l’aiuto gli giunse dall’esterno, dai “diavoli stranieri”, in particolare dagli americani. Nel luglio del 1853 una grossa Squadra navale USA agli ordini del Commodoro Perry, entrava in quella che oggi è la baia di Tokio.
Gli Stati Uniti non intendevano più attendere l’eventuale spontanea apertura dei porti giapponesi ai traffici marittimi, e minacciosamente la richiesero con questo schieramento navale.
Francamente i giapponesi rimasero spaventati dalle dimensioni e dai cannoni delle “navi nere” (come le chiamarono) e compresero che le loro antiquate artiglierie costiere settecentesche poco avrebbero potuto fare contro i grandi vascelli a vapore (si pensi che le navi nipponiche andavano ancora tutte a vela).
Il governo, in mano allo Shogun, si divise in due fazioni, diciamo dei conservatori e dei realisti; questi ultimi avevano compreso che non c’era altro da fare che accedere alle richieste americane.
Dopo sei secoli di regime dittatoriale, stranamente –in quanto nessuno se lo sarebbe immaginato– lo Shogun richiese il parere dell’Imperatore, che colse al volo l’occasione schierandosi subito con i modernizzatori.
Così riacquistò di colpo l’antico prestigio e quando nel febbraio del 1854 Perry comparve di nuovo nella baia, Mutshuito ordinò l’apertura di trattative commerciali e la stesura di un Trattato in base al quale due porti giapponesi (Shimoda e Hakodate) venivano aperti alle navi americane (e subito dopo anche a quelle europee) e si autorizzava un certo volume di scambi mercantili.
Da lì il passo successivo fu più breve e facile; e così iniziò la modernizzazione del Giappone.
Risorse il potere imperiale, crollò la fiducia verso il regime dei Tokugawa. Vi furono negli anni successivi (1862 – 65) scontri fra i sostenitori dello Shogun e i fedeli dell’Imperatore, ma solo alla fine –era ormai il 1868– lo Shogunato fu spazzato via con un minimo spargimento di sangue essendosi dimostrato come un sistema anacronistico, feudale e definitivamente superato.
Mutshuito si era imposto e per il Giappone iniziava la già citata epoca di modernizzazione che la storia inquadra nell’”Era Meiji”, ossia –come già detto– della “Restaurazione imperiale”.
L’Imperatore gradualmente, ma con energia, portò il paese verso il progresso in tutti i settori, dall’economia all’industria, alle Forze armate.
Inviò giovani funzionari all’estero per studiare e laurearsi, creando così i nuovi quadri dirigenziali moderni. I risultati di questa evoluzione compiutasi con relativa rapidità, si tradussero in una significativa trasformazione sociale, politica e militare, che portò di fatto il Giappone a vincere sia Cina che Russia nell’arco di pochi anni.
Inutile sprecare poi parole per descrivere la devozione del popolo nipponico alla propria Dinastia millenaria, che addirittura si faceva risalire alla Dea Amaterasu (“la grande Dea che illumina il mondo”), la quale nacque dall’occhio sinistro del Dio Izanagi ed insegnò agli uomini la coltivazione del riso, l’allevamento del baco da seta e l’arte della tessitura. Secondo la tradizione scintoista da un suo pronipote in linea diretta discendeva l’attuale Casa regnante nel Sol Levante.
A tale dinastia i giapponesi erano devotissimi e lo dimostrarono degnamente i soldati nipponici nei conflitti che quasi subito li opposero ai cinesi e ai russi.
All'inizio del secolo scorso (1904 - 05) il mondo fu scosso da un evento bellico che lasciò senza fiato politici e militari: il Giappone aveva risolto a proprio favore il conflitto con l'Impero Russo, distruggendo completamente la flotta zarista a Tsushima e annientando le armate russe nelle grandi battaglie campali di Port Arthur, Mukden e di Manciuria. Era quindi comparsa una nuova potenza nel settore asiatico che lanciava una sfida al mondo occidentale: l'assetto geopolitico nel Pacifico non sarebbe stato mai più quello di prima. Non solo, per la prima volta al mondo, un potente esercito europeo (quello zarista) era stato sconfitto da un'armata asiatica. L'intero sistema di alleanze e strategie mondiali veniva messo in discussione: il Giappone era salito al rango di grande potenza militare.L'evento passò ben presto nel dimenticatoio sia per la lontananza geografica, sia perché l'immane massacro della successiva Prima Guerra Mondiale e della Rivoluzione bolscevica spazzarono, dall'immaginario collettivo, i ricordi di quel conflitto, lontano e particolarmente sanguinoso. Proprio perché nessuno rammenta più la guerra russo-giapponese, sembra opportuno richiamare alla memoria delle nuove generazioni quei memorabili fatti d'armi che segnarono il declino inarrestabile della Russia zarista ed evidenziarono al mondo la nascita della nuova grande potenza: l'Impero del Sol Levante!
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