Titolo | Nicola Bombacci
Storia e Ideologia di un rivoluzionario fascio-comunista |
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Autore | Claudio Cabona | ||
Genere | Saggistica | ||
Pubblicata il | 16/08/2012 | ||
Visite | 12553 | ||
Editore | Liberodiscrivere® edizioni | ||
Collana | Koine´ N. 22 | ||
ISBN | 9788873883883 | ||
Pagine | 138 | ||
Prezzo Libro | 12,00 € | ![]() |
ISBN EBook | 9788893392341 | ||
Prezzo eBook |
4,99 € |
Compagni! Guardatemi in faccia, compagni!
Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre…
Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, quella dell’Ottobre rosso del 1917 in Russia, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno… Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito… ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario… ".
Nicola Bombacci 15 marzo 1945 a Genova, discorso rivolto alle camicie nere dell’RSI.
PREFAZIONE
di Stefano Monti Bragadin
Nicola Bombacci: il “comunista in camicia nera”, o anche il “socialista rivoluzionario” delle origini nelle vesti postume di “nazionalista bolscevico”.
In effetti, per un verso, egli fu coestensore nel 1919 del Progamma massimalista, poi del Manifesto programmatico della frazione comunista; quella che sfociò nella scissione di Livorno e nella fondazione del Partito Comunista d’Italia nel ‘21. Obiettivo, in entrambi i casi, l’abbattimento dello Stato borghese e l’istituzione dei “Soviet” dei lavoratori, come in Russia, ritenuti indispensabili al funzionamento della “dittatura del proletariato”.
Per altro verso, fu coartefice, quanto ad ispirazione, e materiale estensore del Manifesto di Verona nel 1943: un progetto “costituente” che doveva aprire un grande processo di “socializzazione”, quale volevasi realizzare nella Repubblica di Salò. Essa era, invece, destinata a diventare l’ultima spiaggia di un fascismo ormai travolto nella sua dimensione istituzionale dal disastro della guerra, per quanto riportato prepotentemente alle sue radici movimentiste più profonde e irriducibili proprio dall’estrema, disperata determinazione dei seguaci rimasti.
Lo stesso uomo, pertanto, fu diretto protagonista dell’una e dell’altra esperienza.
In preda alla veemenza anti-capitalista e anti-borghese, avrebbe voluto cancellare del tutto anche i percorsi compromissori della dinamica politica, quali si manifestano nelle democrazie liberali, denunciando senza mezzi termini il carattere meramente formale di tali regimi. Sulla completa rovina dell’inganno parlamentare, finalmente smascherato mediante l’azione “sovversiva e di piazza” per il riscatto delle masse diseredate guidate dalle loro “avanguardie”, mirava a costruire “istituti nuovi”, del tutto diversi; ritenuti connaturali al pieno “rinnovamento della vita economica e sociale” ed espressione autentica, non meno che sostanziale del mondo del “lavoro”.
Operò, così, fianco a fianco di personalità come Serrati e Salvadori, Bordiga e Gramsci; inviò financo un rapporto a Trotzky sul ruolo rivoluzionario dei Soviet e dell’avanguardia proletaria, ricevette i sensi della condivisione di Zinov’ev, che molto si attendeva dall’occupazione delle fabbriche in Italia, interloquì a Copenaghen con Litvinoff. I “Consigli dei lavoratori” nella versione bolscevica voluta da Lenin, era in sintesi la sua tesi, dovevano costituire il principale e fermo riferimento del “partito rivoluzionario”, di modo che “auto-organizzazione” e “avanguardia” del proletariato potessero sempre marciare in completa sintonia. Una strada, invece, criticata da Palmiro Togliatti, in quanto non rispondente alle esigenze scaturenti dalla situazione italiana.
Poco più di un decennio dopo, soprattutto sulle pagine della rivista da lui diretta, che veniva relativamente tollerata dal regime per essere uscita grazie alla magnanimità del Duce e che era omonima della sovietica “Pravda”, ossia “Verità”, estrinsecò l’intervenuta influenza che la sinistra fascista veniva vieppiù esercitando su di lui, specie attraverso la carismatica figura di Edmondo Rossoni. Maturò, allora, una riflessione sul “corporativismo” come superamento della “lotta di classe”, senza abbandonare la primigenia visione della grande funzione di formazione svolta dalle “rappresentanze lavorative”; inoltre, come perseguimento dell’”interesse nazionale”, rispetto agli egoismi individuali e particolari, mediante la vicendevole collaborazione, grazie alla sussunzione “organica” in un tutto, per definizione, proteso al bene comune. Un tutto, nondimeno capace di darsi un insieme articolato di snodature “mutualistiche” in campo economico e “autonome” in ambito locale, il quale avrebbe potuto trovare il suo “equilibrio” solo nella formula federativa quale elaborata da Proudhon.
Intanto, l’inveterato rifiuto delle democrazie “plutocratiche”, saldamente istallate soprattutto in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, vale a dire le principali centrali del “capitalismo giudaico e massonico”, lo spingeva ad un conclamato “patriottismo” in cui la tensione del “nazionalismo oppositivo” era intimamente connessa alla dottrina dello “spazio vitale”. La lotta di classe avrebbe, così, finito per trasferirsi sul piano internazionale; quindi, contro un “imperialismo capitalistico” accaparratore vorace delle risorse e fomentatore di guerre a livello mondiale. Sarebbe stato inevitabile lo scontro frontale tra “l’oro” dei grandi “Paesi capitalistici”, ovvero le democrazie liberali dell’Occidente, e “il sangue” dei veri “Paesi anticapitalistici”, ovvero quelli emancipati e vitalizzati dalla “rivoluzione fascista”, stante l’allineamento, se non la subordinazione di Stalin al nemico capitalista. Alla fine, il “nuovo ordine” avrebbe avuto il sopravvento.
Un coacervo di dottrine, idee, programmi di dubbia coerenza e discutibilissima conciliabilità, almeno a tutta prima; eppure fermamente espresso e fortemente sentito sul piano emotivo. Inoltre, indiscutibilmente accompagnato da un intenso impegno operativo. Per converso, spietate e plurime furono le accuse di tradimento piovutegli addosso in sommo grado, senza risparmio alcuno di colpi; tuttavia, sempre pregnanti si rivelavano certi suoi orientamenti ideologici e per nulla reticenti certe sue lealtà, per quanto rivolte a figure o fatti molto diversi, se non decisamente contrastanti fra loro. Un personaggio palesemente contraddittorio, dunque, o non piuttosto, in qualche guisa, emblematico anch’egli, in quei decenni di grandissimo travaglio umano?
Nell’attenta e curata analisi di questo suo libro, il giovane studioso Claudio Cabona si addentra nei meandri di un pensiero e di una condotta manifestamente sfaccettati e contorti, ripercorrendone i momenti e le occasioni salienti, cercando senza preconcetti di coglierne le motivazioni di fondo e darsene una spiegazione, guardando con molta serietà se è mai possibile individuare un significativo filo conduttore, sotteso a una serie di elementi costanti quanto basta e, insieme, percorso da una molteplicità di atteggiamenti sufficientemente consonanti.
Intanto, andrebbe forse rimarcata la specificità, molto italiana, del contesto ambientale in cui è sorta e si è sviluppata, negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, la “vis rivoluzionaria” di Nicola Bombacci. Si tratta di un contesto che, per altro, lo accomuna, da subito, a Benito Mussolini, destinato poi a diventare Capo del Governo, in “diarchia” col Re, e trionfante “Duce del fascismo”; ma conosciuto nella fase da fervente agitatore quando, per qualche tempo, l’uno e l’altro si trovavano a militare in quella sinistra socialista e sindacale che avversava con grande risolutezza ogni minima acquiescenza nei confronti della “via parlamentare e compromissoria”.
Entrambi provenivano infatti dal crudo mondo rurale della ribollente Romagna; entrambi furono per un certo tempo maestri elementari. Non la fabbrica, ma la terra fu quindi la comune premessa situazionale e culturale della loro vita. Nell’ordine causale e nel rispettivo processo di formazione, da tale elemento primario, con tutte le sue peculiarità, si è presumibilmente sviluppata la personale visione del mondo, cui si è coniugata l’impostazione dell’impegno pubblico. Di qui, nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori, lo sguardo rivolto alle campagne con i relativi braccianti agricoli, non meno che alle città con gli operai delle industrie. Inoltre, tra le principali pratiche per l’educazione e l’elevazione delle masse diseredate, anche il ricorso all’insegnamento, esercitato dalla cattedra nell’ aula della scuola; non solo quelle legate all’attività giornalistica e mutualistica, o derivanti dall’ inquadramento collettivo, sindacale e partitico, o legate alla partecipazione a cellule e assemblee di stabilimento.
Il “trauma dell’intervento” separò nettamente Mussolini da Bombacci perché questi, a differenza di quello, non ravvisò nella prima guerra mondiale alcun carattere rivoluzionario; ne temeva, anzi, gli effetti in senso reazionario. Del resto, Bombacci non aveva visto nell’impresa libica un possibile sfogo all’annoso problema dell’emigrazione massiva verso terre lontane che si speravano meno ingrate della Madrepatria; da parte sua, Giovanni Pascoli aveva parlato dell’Italia come della “grande Proletaria” che si era “mossa” e persino Lenin avrebbe avuto una qualche comprensione per tale evento. Fu, invece, il colpo di mano di Gabriele D’annunzio a Fiume a cambiare il suo orientamento: questa volta, si trattava di un atto di rottura veramente “rivoluzionario”, quindi suscettibile di scardinare irreparabilmente l’ordine costituito. Una valutazione abbastanza condivisa, all’estero, da Lenin e, in patria, da Antonio Gramsci, forse il comunista italiano più vicino al fondatore dello Stato sovietico.
Una certa disponibilità dannunziana a dialogare accrebbe in Bombacci la ricerca di un collegamento tra le due “forze rivoluzionarie”, arrivando ad auspicare una “alleanza” tra Fiume e la Russia. Anche dopo il “Natale di sangue”, ad esempio in aperta polemica con Giacinto Menotti Serrati, non altrettanto sensibile alle avventure dell’”arditismo” dei Legionari e del “Vate” loro capo, egli continuò a coltivare questa idea. Idea, in prosieguo, destinata a trasformarsi in una serie, invero sistematica, di sforzi a favore di un interscambio tra Italia e Russia, non solo in campo economico e commerciale, ma anche in quello politico, se non in quello ideologico; persino dopo la “marcia su Roma” dei fascisti. Del resto, proprio a Bombacci, Lenin non avrebbe detto che, in Italia, “c’era un solo uomo capace di compiere la rivoluzione, Mussolini”, e che se lo sarebbero “lasciati scappare”?
Nel corso dei successivi, divergenti itinerari di Mussolini e Bombacci, quest’ultimo, al centro dei motteggi degli “squadristi” nel ‘20 e nel ‘21 unitamente a quelli verso il Partito socialista, giunse ad essere definito “l’uomo di Mosca” in quanto, in un certo qual senso, fiduciario della Russia sovietica in Italia, almeno sino ai funerali di Lenin. Negli anni 30, invece, di certo con l’accondiscendenza di Mussolini, sensibile alle sue difficoltà economiche dopo l’espulsione dal Partito comunista, per quanto nella diffidenza dei fascisti intransigenti come Roberto Farinacci e Achille Starace, venne da parte di Bombacci una sorta di avvicinamento al fascismo; esso muoveva dalla sua decisa e irreversibile denuncia delle degenerazioni staliniane del comunismo sovietico, veniva alimentato dall’ormai crescente interesse per il “corporativismo” e approdò alla lettura, in chiave “nazionale” e fors’anche “sociale”, dell’impresa militare abissina; momento questo, invero, del più alto consenso raggiunto dal fascismo.
Caduto il “regime” nel 1943, si ebbe la partecipazione personale e diretta di Bombacci che, per altro, mai si professò di fede fascista, alla fase terminale e “repubblichina”: quella di uno Stato voluto dagli occupanti tedeschi. Egli, piuttosto, lo vedeva finalmente “sociale” e svincolato da ogni legame con la “plutocrazia”, tanto monarchica quanto borghese; con un certo qual ritorno al “sansepolcrismo” del “fascio primigenio”, ma, soprattutto, con il programma, in gran parte a lui dovuto seppur condiviso con Benito Mussolini e Angelo Tarchi, della “socializzazione delle imprese e degli strumenti di produzione”. Chiuse così tragicamente la propria vita nell’aprile del 1945, condividendo con Mussolini anche la cattura da parte dei partigiani, la condanna a morte mediante fucilazione e l’esposizione dei corpi a Piazzale Loreto; in aggiunta, tutta per lui, la scritta infamante di “supertraditore”.
La conclusione di Claudio Cabona in questo suo primo lavoro è che “il romagnolo, come avrebbe scritto Eraclito, fu la fusione delle ‘diversità’, un accordo di contrari, come l’arco e la lira” e aggiunge che “Bombacci, ma soprattutto il suo pensiero, può essere criticato, ritenuto pregno di pazzia, insensatezza e sicuramente del più radicale eretismo, ma nessuno, al di là dei giudizi storici e politici, può negargli l’aggettivo ‘libero’”. Ci si può permettere di aggiungere l’aggettivo “dispiegato”, nel senso di scaturire abbondantemente e svolgersi ampiamente… senza briglia?
Nicola Bombacci in Parlamento
Compagni! Guardatemi in faccia, compagni!
Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre…
Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, quella dell’Ottobre rosso del 1917 in Russia, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno… Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito… ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario… ".
Nicola Bombacci 15 marzo 1945 a Genova, discorso rivolto alle camicie nere dell’RSI.
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