Titolo | L’esplosione
La nuova inchiesta dell’ispettrice Paola Trani |
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Autore | Giorgio Ansaldo | ||
Genere | Narrativa - Giallo, Noir, Poliziesco | ||
Pubblicata il | 28/08/2012 | ||
Visite | 8617 | ||
Editore | Liberodiscrivere® edizioni | ||
Collana | Le Vespe N. 10 | ||
ISBN | 9788873884019 | ||
Pagine | 200 | ||
Prezzo Libro | 15,00 € | ![]() |
ISBN EBook | 9788893390552 | ||
Prezzo eBook |
4,99 € |
“L’esplosione ha avuto luogo intorno alle 22. Il vecchio edificio, che peraltro versava in gravi condizioni di degrado, è crollato come un castello di carte… Non è ancora accertato il numero delle vittime, sicuramente numerose, dato l’orario in cui è avvenuto il grave incidente. Nel casamento risulta che abitassero dodici adulti e due bambini. Gli inquirenti dovranno accertare se l’episodio ha origini dolose… ”
Gli occhi nocciola dell’ispettrice Paola Trani scrutarono con sgomento le confuse, catastrofiche, fosche immagini del luogo della sciagura che il telegiornale di mezzanotte trasmetteva con insistenza, lasciando poco spazio all’immaginazione e alla pietà.
Fino a qualche minuto prima, Paola aveva seguito in televisione la finale del talent show ‘Sarai una star!’, dopo l’ennesimo pomeriggio domenicale pigro e fiaccante per lo spirito e per il corpo. Il tono leggero del programma la divertiva sempre e un bel pezzo di cioccolata fondente da sbocconcellare era stato il suo compagno perfetto durante le varie fasi discretamente emozionanti della gara. Dopo la sigla finale, era corsa verso il bagno per fare la pipì che da tempo aspettava di essere evacuata e, al suo ritorno in soggiorno, il telegiornale già infieriva mostrando il disastro avvenuto proprio a Genova, a pochi chilometri da casa sua. Uno strano ed inquietante turbamento percorse il suo corpo. In realtà un forte senso di solitudine e di malinconia. L’attico lussuoso nel panoramico quartiere di Carignano, dove abitava da sola, le parve ancora più grande e desolato. Spesso le accadeva di sentirsi fuori posto nella sua stessa casa. Lo sconcertante spettacolo del vecchio edificio crollato e arso dal fuoco, che rosseggiava sul grande schermo del televisore, strideva in maniera quasi insopportabile con la lussuosa opulenza del suo soggiorno, quasi a farle male.
Spense l’apparecchio, già immaginando che di quel funesto avvenimento avrebbe dovuto occuparsene, forse in prima persona, per giorni e giorni.
Preferì contemplare le luci della notte, che punteggiavano il magma della città, ed il gelido cielo stellato, attraverso le ampie vetrate che costituivano per gran parte le pareti della sua casa. Si sentiva la testa fasciata di freddo, come se avesse passato la serata con la fronte appoggiata a quelle algide vetrate a frugare con lo sguardo nei recessi più nascosti del panorama, anche se così non era.
Genova. Le fortezze militari sulle colline circostanti, una per ogni sommità, silenziose, decrepite, debilitate guardiane solitarie. I fianchi dei monti, a volte scoscesi, a volte degradanti con più naturale delicatezza. Le case sparse a manciate, a tratti allineate, a tratti arruffate, a tratti pressanti persino intorno al santuario della Madonna del Monte. E giù, fino a recuperare geometrie più ordinate nell’esigua zona di pianura rubacchiata, un po’ forzosamente, al fiume Bisagno, ricoperto in larga parte dal cemento. Persino qualche grattacielo, troppo alto e troppo dritto, piantato nelle forme tondeggianti e muliebri del marasma cittadino come un pollone troppo cresciuto di un albero d’alloro. Poi, senza soluzione di continuità, la distesa scura ed improvvisa del mare, radioso in estate, ma turgido, grigio ed inquietante nella stagione del freddo, quando una coltre d’umidità insalubre sembra irradiarsi da esso e riverberarsi su ogni cosa, sui muri pregni del centro storico, sulle chiome sparute degli alberi nei giardini, sul pelo dei cani randagi, sull’epidermide degli esseri umani.
Nel vasto terrazzo a forma di ‘elle’ che circondava l’appartamento, le sue amate piante combattevano la dura lotta invernale contro il freddo. Quelle le erano rimaste fedeli: alcune avevano più di venti anni. Il suo matrimonio non era durato altrettanto e suo figlio, che aveva pressappoco l’età delle piante stesse, non abitava più lì, da circa un anno. Università di Toronto. L’ex-marito in Svizzera. La casa era rimasta a lei.
Quarantadue primavere. Nel breve giro di un anno, la percezione della sua età era mutata, era cambiata in lei e anche negli altri.
“Che mamma giovane sei! Deve essere bello avere già un figlio di vent’anni… ”
“Ora che il ragazzo è grande, tu e tuo marito potete spassarvela un po’… siete così giovani!”
“Una coppia giovane con un figlio grande: la situazione ideale… e poi lei, signora, sembra davvero una ragazza più che una madre… ”
Queste pressappoco erano le frasi che le arrivavano dalle persone che la conoscevano. Dalle amiche come dal fruttivendolo sotto casa. Banalità, che tuttavia nella loro valenza piuttosto ovvia contribuivano a farla stare bene, a farla sentire ancora giovane appunto, a farle sentire che ‘quarantadue primavere’ per una donna poteva costituire l’età ideale nel gustare in pieno la dolcezza della vita adulta.
Con l’abbandono del marito, i commenti erano improvvisamente crollati, scivolati verso il pessimismo: i suoi anni, fino a poco tempo prima considerati pochi, sembravano essere aumentati vertiginosamente.
“Certo, essere rimasta sola a quarantadue anni è un bel peso, signora mia.”
“Mio Dio, rimettersi in gioco alla tua età deve essere tremendo. Non t’invidio.”
“Si sa, per noi donne single sopra i quaranta, sono in agguato solo delusioni.”
Il repentino cambiamento di valutazione della sua condizione nell’opinione degli altri, aveva profondamente colpito Paola. Non credeva davvero che una quarantenne felicemente sposata valesse tanto di più di una divorziata. Forse non ci aveva mai pensato. Da fortunata ‘mammina’ giovane era passata al ruolo di patetica tardona, in un battere di ciglia.
Eppure era sempre lei, il suo viso era sempre quello, il suo corpo anche. Possibile che un marito al fianco costituisse ancora oggi l’unico lasciapassare per essere considerata giovane ed invidiabile?
Persino l’avere un figlio grande, considerato prima una sorta di tesoro, adesso che il marito si era defilato, veniva valutato come un problema:
“Povera te! È chiaro che, come accade sempre in questi casi, la gestione di vostro figlio ricadrà tutta sulle tue spalle. Sono responsabilità che ti fanno invecchiare di dieci anni… ”
Insomma, a questo punto, si era quasi convinta pure lei. Se l’anno precedente era una giovane mamma rampante, adesso era una vecchia divorziata, il cui destino era uno solo: solitudine e apprensione. La crudele voce della sua amica, coetanea single, suonava chiaro:
“Cara Paola, per noi donne di mezza età il problema è soprattutto uno: il sesso. Da una parte, trovare un compagno serio è difficilissimo, dall’altra andare col primo che capita, e quello lo trovi di sicuro, è umiliante, non ti gratifica e, se gira la voce, finisce che fai pure la figura della vecchia t.. Capisci cosa intendo, no?”
In effetti, Paola Trani viveva in questo dilemma. Vedeva il suo viso ancora abbastanza fresco, anche se, esaminandolo da vicino, denotava un leggero cedimento nell’ovale, senza contare le rughette intorno agli occhi che scomparivano quando manteneva una espressione seria, ma si accalcavano sempre più numerose nell’accennare un sorriso. Così come il suo corpo di quarantenne moderna, frequentatrice di palestre e di creme miracolose, che pareva più sodo alla vista che non al tatto. Ma, al di là di una certa avvenenza, il problema era come collocarlo quel corpo. Tentare la ricerca assai faticosa di un nuovo amore o accontentarsi di qualche avventura galante passeggera, che se non altro la gratificava sul momento e le ridava un po’ d’autostima?
Secondo l’amica single, tali avventura finivano per distruggerla, l’autostima.
Al momento, il risultato di tutte queste opinioni aveva contribuito a far sì che, ormai quasi da un anno, Paola non si era più mossa in quel campo spinoso. Né un nuovo amore, né alcun convegno di sesso casuale. Tabula rasa. Casa e lavoro. Un’alternanza continua di sensazioni: a volte, fiera di non essersi buttata via, a volte depressa per non essersi concessa qualcosa d’emozionante seppur passeggero.
Insomma, a farla breve, niente maschi all’orizzonte. Forse meglio così? Forse.
La donna si buttò un plaid sulle spalle e fece scorrere una delle vetrate per uscire all’aperto.
L’aria frizzante della notte invernale le schiaffeggiò il viso, svegliandolo dal torpore asfittico che fino a pochi minuti prima lo pervadeva.
La luce era fioca, ma Paola riuscì a scorgere ciò per cui era uscita all’esterno: i boccioli della sua camelia erano turgidi ed in piena salute. Entro poche settimane si sarebbero trasformati in rigogliosi fiori rosati. La nascita incipiente di quei fiori, le ricordò qualcosa d’importante. Chissà se quella notte era venuto alla luce l’atteso figlio di Marco Ruggeri?
Marco Ruggeri (da alcuni anni assistente dell’ispettrice Trani) in una stanzetta dell’ospedale Gaslini, accarezzava la mano di sua moglie addormentata, dopo le fatiche del parto.
Buttato su una poco confortevole sedia di metallo, teneva le lunghissime gambe sparpagliate nella stanza e con una delle sue lunghe braccia raggiungeva la moglie, mentre con l’altra consentiva alla mano affusolata di tamburellare sul tavolo vicino alla porta. Praticamente il suo corpo allampanato occupava, tramite i suoi lunghi arti, ogni angolo della stanza, al centro della quale spiccavano i suoi ragguardevoli piedi calzati nei mocassini giallognoli e lucidissimi numero 46. Pure il viso era più lungo che largo, contornato da lisci capelli neri perfettamente pettinati nell’immobilità innaturale di una gran quantità di gel. Più che un impiegato della questura, dall’abbigliamento, Marco si sarebbe detto un azzimato agente immobiliare: l’abito di taglio troppo moderno e asciutto, di tessuto scadente, coi bottoni che tiravano sul petto in maniera spasmodica, la cravatta sgargiante annodata in un nodo troppo gonfio per essere elegante, i calzini forzosamente in tinta con la cravatta, ma decisamente in conflitto col giallo dei mocassini. Tutto ciò che indossava poteva apparire di marca, se non addirittura di firma eccelsa, nella realtà non era così, ma solo l’idea che il suo abbigliamento potesse suggerire di essere costoso mandava in brodo di giuggiole il neo-papà.
Quando Ruggeri era vicino alla sua principale, i due formavano una coppia assai curiosa. Lei, notoriamente benestante e danarosa, era il ritratto della semplicità, tanto da apparire quasi austera nei suoi tailleur-pantalone anonimi e quasi dimessi, lui, viceversa, oberato dal mutuo della casa e da uno stipendio troppo esiguo, sfoggiava un aspetto decisamente superiore alla sostanza.
Fondamentalmente, Ruggeri era un tenero vanesio, abbagliato costantemente dalla ricchezza degli altri e schifato dalla povertà del suo prossimo, quella povertà, che gli dava fastidio proprio perché gli apparteneva, ma che con arte sopraffina si vantava di saper camuffare.
Il giovanotto riteneva di aver fiuto e non mancava di comunicare le sue intuizioni, che supponeva essere geniali, all’ispettrice, contando sul fatto che, nelle mille stravaganti ipotesi che la sua mente congetturava, a volte ci azzeccava davvero. Per il resto, quando ne aveva voglia, era piuttosto efficiente e si vantava con i colleghi di essere tenuto ‘in gran conto’ nel suo ufficio.
Indubitabilmente l’ultimo suo grosso successo, era stato il concepimento di un figlio. Ovviamente avrebbe voluto il maschio e puntualmente gli era nata una femmina, per cui si vide costretto ad assicurare a tutti quanti, che proprio una femmina lui desiderava.
In quel momento, la neonata Viola non era con loro, ma Marco era riuscita a vederla e a fotografarla attraverso il vetro della nursery, gli era parsa stupenda, non tanto perché fosse molto diversa dagli altri neonati nei lettini tutto intorno, ma in quanto era sua. Ora se ne stava contento seduto presso la moglie e se la guardava estasiato, mentre la puerpera riposava. In alto, sul video della piccola televisione senza audio appesa al soffitto passavano le macabre immagini del catastrofico evento, ma Marco pensò tra sé, nell’impeto egoistico della sua felicità: ci penserò domani!
-Tre mesi prima dell’esplosione.-
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