Sandro Sansò
Nessun Movente

Titolo Nessun Movente
Autore Sandro Sansò
Genere Narrativa - Giallo, Noir, Poliziesco      
Pubblicata il 06/11/2012
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Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Le Vespe  N.  9
ISBN 9788873884071
Pagine 212
Prezzo Libro 14,00 € PayPal

Nessun rapporto tra assassino e vittima che possa condurre a un movente. Nessun telefono cellulare quando si va a uccidere, perché il cellulare lascia sempre una traccia. 

Una pistola che trattiene il bossolo. 

Ecco la formula del delitto perfetto. Ad applicarla è Anna, di giorno irreprensibile impiegata di banca, di notte spietata killer, che una volta al mese colpisce a caso e costringe la sezione Omicidi della Questura di Genova a un estenuante gioco a rimpiattino. 

I

 

Superato l’ultimo lampione, fu inghiottita da un’oscurità squarciata da bagliori temporaleschi che, alternati a tuoni remoti, illuminavano un mare agitato e un cielo gonfio di nuvole, ancora indeciso se aprire, e quando, le cateratte. Guidava adagio sulla litoranea deserta - d’altra parte erano le due -, concentrata non tanto sul da farsi, quello era ormai deciso, quanto sul come e sul dove, spinta da una pulsione solo negli ultimi tempi sottomessa a un controllo che a malapena poteva definire provvisorio. Erano mesi - ormai si era abituata a scandirlo in mesi, il tempo - che andava avanti così. 

La prima volta un pomeriggio, a letto, al buio - nelle ore immediatamente precedenti l’inizio del ciclo non poteva sopportare la luce, ma questo le era successo molti anni addietro (quanti? troppi, ormai), allorché era diventata donna - in attesa della iniziale, sicura fitta al ventre, che la compressa di momendol, Dio benedica chi l’ha inventato, avrebbe attenuato più tardi, bloccando sul nascere le successive. 

Una voce mai sentita, asessuata (ma si può attribuire un sesso a una voce che ti echeggia dentro?) le si era insinuata in testa e le aveva sussurrato la proposta, non esplicita, solo accennata, un’ ipotesi, comunque inequivocabile, buttata lì, che lei, incredula prima e poi sdegnata, aveva subito respinto, come si respingono quei pensieri assurdi che mai immagineresti di avere e invece ti saettano per caso attraverso il cervello, del tipo bucare le gomme dell’auto al vicino di casa, brutto e pure volgare, perché fa casino alle due di notte e ti sveglia, o sfregiargli la fiancata dell’auto, o addirittura incendiargliela, la macchina, pensieri che comunque si affacciano alla mente - forse per ricordare a ciascuno la propria componente di pazzia, connaturata e naturale in tutti? - ma che nelle persone normali per fortuna non solo rimangono tali, proprio non lasciano traccia. 

Tanto assurda, meglio mostruosa, era quell’ipotesi di proposta, da non esser nemmeno presa in considerazione e infatti l’aveva subito zittita quella voce, non poteva escludere con l’aiuto della fitta al ventre, prevista e a questo punto provvidenziale. Grazie al momendol si era assopita, la voce era scomparsa e lei se n’era dimenticata. 

Il mese successivo, sempre all’inizio del ciclo, eccola di nuovo, più che insinuante aveva avuto modo di notare, perché sembrava stavolta aver approfittato, neutralizzandolo, del benefico quanto temporaneo effetto del farmaco, arrivando addirittura a scendere e a soffermarsi in alcuni particolari, il modo e il posto per esempio, non più ipotesi, ma proposta, così insistente che inevitabile, meglio impossibile, era stato concederle udienza. 

Ma perché mi chiedi una cosa del genere? Perché voglio farti provare, Provare che cosa? L’emozione che il farlo ti darà, no? Non ne sono capace e poi quale emozione dovrei provare? Innanzi tutto il gusto della sfida al proibito, della trasgressione, Cos’è, la versione moderna della tentazione biblica? e tu chi sei, il serpente?, aveva sorriso suo malgrado. 

Alla fine era stata al gioco, chissà che fornendole quella che riteneva l’ultima occasione e rispondendole un’altra volta a tono, finisse una buona volta di rompere, quella voce. Guarda che non è che io mi rifiuto di farlo perché è proibito, è che non mi sento, non ne sono capace, è contrario ai miei principi, te l’ho già detto, e poi, scusa, quel poveretto? Quel poveretto? ma chi è, mica lo conosci, neanche lo guarderai in faccia se farai come ti dico e quando avrai fatto sarà uno come tanti, un carneade. 

L’aveva mandata a quel paese e si era finalmente lasciata andare al sonno.

Per mesi (quanti? aveva perso il conto) era riuscita a contrastarla e a sconfiggerla, confinandola in qualche angolo remoto del subconscio. Fino agli ultimi, perché ora, imperiosa e sorda alle sue implorazioni - «Taci, lasciami in pace, te ne prego» - la voce aveva ripreso a martellarla dentro rodendole cervello e cuore, non più insinuante, ma categorica, fino a quando lei, estenuata, aveva ceduto ancora e si era rassegnata a riascoltarla, ma poi basta si era detta, imponendosi di accordarle solo qualche secondo in più della precedente intrusione. E quella, c’era da aspettarselo, si era subito appropriata del privilegio ottenuto, e aveva pure cambiato tono, non più autoritario, ma suadente per non dire adulatorio ora, probabile che volesse farsi perdonare l’arroganza di prima. Ti ho già detto e ripetuto che non voglio, non posso, come puoi credermi capace di una cosa simile, aveva insistito con una determinazione che a lei per prima suonava stonata, e nondimeno ammettendo con se stessa che quell’insistenza stonata poteva essere interpretata come il primo segno di un’arrendevolezza che legittimava la possibilità (la certezza?) di una prossima capitolazione. Infatti l’altra aveva capito al volo e l’aveva incalzata con un crescendo a dir poco diabolico, che aveva finito per estendere al quotidiano. Anna, se vuoi puoi, prova, ti dico, devi provare, una volta, almeno una volta.

Una tortura logorante, a paragone di quel martellamento le fitte mensili erano niente, ne arrivassero tutti i giorni se potessero mettere il bavaglio a quella voce, l’incubo era ormai continuo, pressante, era come avere il ciclo per tutto il mese. Si sentiva il cervello strizzato come uno straccio bagnato. E alla fine - Sì, va bene, va bene, però ora lasciami in pace, ti prego - aveva ceduto.

Quella notte satura di tempesta, appunto. 

È stanotte dunque? Sì, può essere, ma per ora sono in grado di controllarmi, Controllarti? ma quale controllo, ti sei arresa, ammettilo, sennò spiegami che ci stai a fare qui alle due? No, non mi sono arresa, sto qui, a quest’ora, solo per cercar di capire, Vai a raccontarla a un altro, tu sei qui, a quest’ora, per studiare la situazione, non cercare scuse, e sei qui anche per portarla a termine, l’azione, altrimenti perché ti saresti attrezzata? E va bene, mi sono attrezzata, e va bene, ho ceduto, mi sono arresa, non ne potevo più, mesi e mesi di tortura, ti ricordo, non voglio nemmeno tornare a contarli, alla fine ho detto basta, proviamo, mi sono detta, ma dimmi tu, che dovevo fare? 

La pistola. Ereditata da papà, comandante di navi, che l’aveva acquistata in uno dei suoi innumerevoli viaggi negli Stati Uniti, insieme a un centinaio di proiettili e mai denunciata, per pigrizia o insipienza, non escluso per malafede. «Spero che non debba servirci mai, ma se dovesse... bè, ce l’abbiamo», aveva detto papà quando le aveva rivelato della sua esistenza. Lei se n’era quasi dimenticata - papà intanto era passato a miglior vita - d’altra parte che avrebbe potuto farsene di una pistola? Però saltava fuori tutte le volte che rimetteva in ordine il cassetto, dove in precedenza l’aveva trasferita dal baule, pure quello di papà, come per ricordarle che comunque era lì, nella scatola di cartone blu con l’immagine e la scritta Smith&Wesson 38 Special, four inches, quattro pollici, che vorrà dire poi. Ogni tanto, ma solo ogni tanto, sollevava il coperchio e quella le si mostrava nella sua argentea freddezza e le rinverdiva le parole paterne, Se hai bisogno, eccomi. Nei primi tempi tornava a rinchiuderla, con un disagio che non sapeva se addebitare alla paura o all’insofferenza - ma che me ne faccio? -, lei con le armi non aveva mai avuto nulla a che fare, meno che mai ipotizzava ne avrebbe avuto in futuro, salvo eventualità eccezionali, una rapina in casa, per esempio, sempre ammesso fosse stata capace di difendersi. Col tempo però, l’apertura del cassetto, inevitabile per i prelievi e i cambi di biancheria, e la contemporanea comparsa della scatola blu trasformarono in un’abitudine la tentazione - sì, ammetteva, la tentazione c’era - di darle ancora un’ occhiata, l’ultima. E allora, perché non aprire anche la scatola dei proiettili? Pure questi lanciavano lucenti bagliori, ma dorati, dalla fascia di ottone che rivestiva il piombo. L’oro dell’ottone, il grigio del piombo, l’argento dell’acciaio. Insieme potevano portare la morte o salvare la vita. Affascinata ma esitante, l’aveva presa, l’arma, l’aveva soppesata con reverenziale timore sul palmo spalancato, manco avesse potuto sparare da sola - ma quale sparare, è scarica -, infine l’aveva impugnata e sollevata puntandola contro la propria immagine allo specchio. «Bang». Per pura curiosità - e d’altra parte, se ce l’aveva, perché non imparare a usarla? - aveva voluto provare a caricarla. Evidente che i fori nel tamburo devono ospitare le pallottole, ma come si fa a inserirle? 

Aveva armeggiato a lungo con la pressione delle dita sul cilindro, ma senza risultato. Insomma, se ce l’ho, una pistola, devo sapere almeno come si fa a caricarla. Così, era andata a curiosare su internet dove, naturalmente, aveva trovato tutte le informazioni necessarie. Tanto per cominciare questa non è una pistola, ma un revolver (o una rivoltella), cioè un’arma a rotazione del contenitore (cilindro) delle munizioni, al contrario della prima, semiautomatica che non dispone di un cilindro, bensì di un caricatore inserito nel calcio. Fra le tante differenze esistenti fra i due tipi di arma, aveva constatato, ce n’era una molto importante. Una volta esploso il colpo, il revolver non espelle il bossolo come invece fa, sfruttando i gas di scarico, la semiautomatica. Questo starebbe a significare, aveva ragionato, che quando spara non lascia traccia. E infine, la rivelazione, tratta questa volta dalla figura: quel pulsante zigrinato sulla sinistra del castello, sospinto in avanti, libera il tamburo che si abbatte pronto per esser vuotato dei bossoli e ricaricato. Era tornata in camera e col pollice l’aveva premuto e come d’incanto il tamburo si era appunto abbattuto all’esterno della sua sede, offrendosi alla mossa successiva e logica, il caricamento. Risistemarlo, il tamburo, nella sua posizione d’origine, nutrito del suo naturale alimento, era stato altrettanto logico. 

Era la voce della pistola che continuava ad assillarla? 

Si riscosse. Attenzione, imparare a caricare un’arma non significa saperla usare. Giusto, ma come faccio a imparare? Non è difficile, Anna. Hai presente quelle scampagnate nei boschi con papà? Certo. Bene, prendi la macchina e vai a esercitarti in quei boschi. Ma sono almeno trent’anni che non ci vado. Sarà un’ottima occasione per tornarci. A sparare? Certo, ma anche per una salutare passeggiata. E se mi scoprono? Nei boschi oggi non va più nessuno o quasi, l’unica eccezione sono i cercatori di funghi, che però sono mattinieri, dall’alba alle otto... ma se tu, là, ci sei nella mezza luce che precede il tramonto... chi vuoi che ci sia a quell’ora? Magari dei cacciatori. Tranquilla, la stagione di caccia apre alla fine di agosto e pure i cacciatori si alzano prima dell’alba. Domenica, allora, andrò domenica sera, promise prima di addormentarsi.

Non era del tutto convinta, ma andò. Settanta chilometri di asfalto e due di sterrato, al termine dei quali si incamminò lungo il sentiero che si inoltrava fra i castagni. Stentò a riconoscere il posto, ma non poteva essersi sbagliata, aveva lasciato la macchina nel punto preciso in cui la lasciava papà e il sentiero, ora una traccia che si intuiva più che vedersi, procedeva nella stessa direzione. Una volta addentratasi, si rese conto che quello non era più il bosco che aveva attraversato con papà. Il terreno non era ricoperto di morbido muschio, dove le pedule affondavano lasciando impronte fugaci, subito cancellate, appena il piede si sollevava, dal ripristinarsi della fitta trama vegetale nella posizione originale, quasi che il muschio respirasse. Ora le scarpe da ginnastica calpestavano terra secca, dove non formavano impronte che respiravano, ma solchi di polvere che riproducevano il rilievo delle suole. E le piante. Non più tronchi possenti, chiome rigogliose, ma fusti soffocati da liane di rampicanti parassiti che raggiungevano i rami più alti e che quando non trovavano rami a cui avvilupparsi, si allungavano verso quelli degli alberi vicini o pendevano come tentacoli in agguato di altre prede. Ed erano scomparsi quei tremuli dischi luminosi che la luce dorata del sole al tramonto, insinuandosi tra le foglie, disegnava sulle zone ombreggiate del terreno. È naturale, Anna, sono passati trent’anni, niente è più come prima, nemmeno tu sei quella che era a dieci anni. Hai ragione, ascolta, nemmeno il silenzio è lo stesso, trent’anni fa lo stormire delle fronde faceva parte di quel silenzio, ora i rami secchi prevalgono sui quelli verdi e si protendono come dita artritiche che trasformano lo stormire in un sibilo. Le sovvenne come, da bambina, quel musicale fruscio incombesse a tal punto da imporle di parlare sottovoce per timore di infrangerlo. Non c’era da sentirsi in colpa se ora avrebbe infranto questo silenzio con dei colpi di pistola.

L’orologio segnava le venti e quindici. Tre quarti d’ora di camminata, senza essersene resa conto. Si guardò intorno. A una decina di metri si ergeva una catasta di legna e quello sarebbe stato il bersaglio. Estrasse la pistola e posò la borsa a terra. Fra i numerosi suggerimenti su internet, aveva letto con attenzione quelli relativi alla posizione da assumere quando si spara. La semiautomatica non genera rinculo o quasi, ma la pistola a tamburo può causare problemi. All’utente inesperto si raccomanda, per le prime volte, di impugnare a due mani, a gambe divaricate e piegate. Si sorprese a sorridere - «Come nei film polizieschi» - mentre assumeva la posizione. Tornò subito seria, puntò e premette il grilletto. Si sentì sollevare entrambe le braccia dalla forza del contraccolpo mentre l’esplosione le lacerò i timpani, subito offesi da un fischio acuto e ininterrotto. Lanciò intorno un’occhiata apprensiva ma non udì alcunché che potesse suggerirle di essere stata udita. Sparò altri due colpi nella stessa posizione, poi passò all’uso di una sola mano, ché soprattutto questo tentativo andava fatto. Si mise di fianco, tornò a divaricare le gambe, spostò il peso del corpo su quella posteriore, sollevò il braccio armato all’altezza della spalla ed esplose il quarto colpo, senza opporre resistenza al brusco innalzamento dell’arto e quando fu consapevole di aver acquisito la padronanza dell’arma, lasciò partire gli ultimi due.

Uno sguardo al bersaglio, tanto per prender atto. Non erano fori, quelli sui ceppi accatastati, ma devastate cavità dai margini sbrecciati. Rispetto alle dimensioni dei proiettili, la penetrazione arrivava alla lunghezza di mezzo dito e più, al termine della quale si poteva intravedere ciò che rimaneva della pallottola, un piccolo, informe ammasso grigio. 

 

 

Quella notte, dunque, era uscita poco dopo le ventitré, Se proprio dobbiamo, facciamolo secondo le impartite disposizioni. Che appunto prevedono, impongono anzi, una preparazione. Niente di particolarmente elaborato, solo un paio di pantaloni, un soprabito e una parrucca, questi ultimi se li era già procurati. E soprattutto, niente cellulare, il cellulare, se acceso o attivato da una chiamata, è sempre individuabile, anche dopo. E poiché sarebbe inutile portarlo spento, lasciamolo a casa.

Allora non hai ceduto d’improvviso, l’acquisto del soprabito, dei pantaloni e della parrucca, le prove di tiro, così come la rinuncia al cellulare, sono atti consapevoli, perciò premeditati, in vista di quell’altro, No, parlare dell’altro atto, di quello successivo, dell’azione vera e propria insomma, è prematuro, ora è solo per studiare la situazione, Ma devi studiarla travestita, la situazione? Così mi ha detto, non posso mica agire d’impulso, senza precauzioni, insomma devo creare l’occasione, credo di aver capito, Ma se la crei, l’occasione, se la cerchi e finirai per trovarla, perché tu vuoi trovarla, l’azione sarà consequenziale e inevitabile, non puoi negarlo, Infatti non lo nego, se la trovo, agisco, E allora sei già in raptus, ammesso che, vista la premeditazione, di raptus si possa parlare, Allora sì, sono in raptus e se lo vuoi sapere ci sto bene, anzi benissimo, Me n’ero già accorta, Mi congratulo per l’intuizione, ma ora usami la cortesia di lasciarmi in pace, almeno tu. 

L’occasione. Ovviamente quella propizia, che si presenta quando meno te la aspetti, però se le dai una mano…

Dopo le prime volte - di una possibilità manco a parlarne - era passata a tre uscite settimanali, la sua unica preoccupazione era stata quella di non insospettire Diomira («Ho deciso che andrò in palestra, all’alba dei quaranta non vorrei che il fisico cominciasse a tradirmi, piacerà anche a te vedermi sempre in forma», l’aveva tranquillizzata e Diomira aveva condiviso la decisione, ma fosse dipeso da se stessa sarebbe uscita tutte le sere. Ogni volta che apriva il guardaroba - e ultimamente lo faceva più spesso del solito - il soprabito grigio, i pantaloni, entrambi di taglio vagamente maschile, e la parrucca, nera, questa sì, indubbiamente maschile, erano lì, i primi appesi all’attaccapanni, la seconda nella busta di plastica sul ripiano superiore, a ricordarle che a qualcosa dovevano pur servirle. A essere appunto indossati perché lei potesse cominciare il suo lungo giro, previa un’ulteriore precauzione, un basco nero a mascherare in qualche modo la capigliatura se qualcuno avesse intuito che era posticcia, basco da togliere appena si sarebbe seduta al volante, pure questo contemplava un particolare comma dell’ordine, il cui ultimo recitava «L’azione va portata a termine in sembianze rigorosamente maschili, quindi niente trucco vistoso», meno che mai agli occhi, clausola non contemplata questa, ma sottintesa. In altre parole, se qualcuno dei vicini ti vede uscire, deve comunque riconoscerti. In un condominio è lo sconosciuto che ne esce a destare sospetto, non l’inquilino. È nel durante che devi essere irriconoscibile.

Eccoci qui, dunque, in attesa dell’occasione. Ma assaporiamola, centelliniamola minuto per minuto questa attesa, aperitivo dell’azione, già assaporata e centellinata a lungo peraltro e quindi anch’essa parte del rito. Le occhiate furtive - ma senza rallentare - sulle auto, ferme e a luci spente, dove in prossimità di qualche curva la statale si allargava in spiazzi quasi sempre protetti dagli alberi, rifugio preferito delle coppie, clandestine e no e comunque tutte maledettamente in debito di una base decente (camera da letto con annesso bagno) dove poter far sesso o amore come dio comanda. E poi l’esame - analizzato a posteriori, è ovvio - di un posto che si rivelasse, a prima vista, adatto, e lo studio delle prostitute, i luoghi in cui stazionavano, e dei rari passanti. 

Da escludere del tutto, naturalmente, il movimento entro la cerchia urbana. Troppo illuminata e poi ci può essere sempre un metronotte, un nottambulo che rincasa, un insonne affacciato alla finestra, il rischio è evidente e mi è stato pure prospettato. Da escludere come le prostitute, una a cinquanta metri dall’altra. Perché questo genere di cose va fatto con professionale consapevolezza e la consapevolezza la si acquisisce solo con una adeguata preparazione, psicologica e fisica, un mese di scrupolosa applicazione quotidiana. 

I primi tempi non era stato facile, temeva che non ce l’avrebbe fatta, dopo sette ore di sportello era da pazzi ricominciare con altre quattro di attività fisica e cerebrale, due giorni e sarebbe tornata al suo tran tran, la televisione o, con Diomira, le cene, un buon film, una serata a teatro, il sesso. Invece no. 

Alle cinque e mezzo dunque, appena lasciata la banca, via al corso di yoga e training autogeno, due ore di esercizi fisici e di tecnica della respirazione, per scappare subito dopo in palestra, un altro paio d’ore - ma queste solo due volte alla settimana, per fortuna - di torsioni, flessioni e pesi. Poi sì, a casa, per una doccia e una cena leggera, ché dopo c’erano altre due ore, ancora di yoga, meditazione e sperimentazione pratica per affinare il sistema di azzeramento di ogni emozione - ma emotiva per la verità non era mai stata - che suscitava costruendosi nella mente, attimo per attimo, anzi fotogramma per fotogramma, come in un film al rallentatore, l’azione dal principio alla conclusione. 

Fino a quando aveva imparato definitivamente a controllare respiro e battito cardiaco, inconfutabile conferma della padronanza dei nervi, del dominio su se stessa. Quindi il passaggio alla fase operativa, sul territorio, cioè l’intero arco della riviera da levante a ponente e viceversa, ma pure l’entroterra, annotando mentalmente luoghi e persone, quali e quante di queste passavano in quel determinato punto, quanto vi si soffermavano e perché, con una certa sorpresa scoprendo che molte si trovavano sempre alla stessa ora e nello stesso posto con una puntualità a dir poco esasperante, ancora le prostitute per esempio, ma solo per via degli orari dei treni e della distribuzione sui marciapiedi, o i metronotte e poi certi frequentatori di bar e i padroni di cani. Loro poi… Non sgarrano di un minuto, si sa che i cani sono abitudinari, forse i padroni si adeguano alle loro consuetudini, ma potrebbe anche essere che i padroni siano abitudinari e siano i cani ad adeguarsi. 

Ma anche tu lo sei, abitudinaria, Bè, non direi, compatibilmente col lavoro, casa banca, banca casa, diversifico come posso, il corso di yoga, la palestra, Diomira, cinema, teatro e anche la televisione, sì, bè, fino a quando di sera, meglio di notte, ho cominciato a uscire, perciò niente più televisione, Appunto, pure questa è diventata un’abitudine, o no? 

Ormai sapeva tutto a memoria, percorsi, luoghi, facce. E non solo. Con una certa approssimazione riusciva a prevedere perfino i posti di controllo di polizia e carabinieri (mai una volta che l’avessero fermata) e quando non incappava nel posto di controllo, poteva giurare che avrebbe avvistato o incrociato l’auto biancoblu o biancazzurra nel giro di un quarto d’ora o un chilometro dopo, talvolta insieme, gli equipaggi a scambiare quattro chiacchiere.

Sarà la volta buona, stasera? E chi lo sa? Di certo, se lo sarà, sarà senz’altro il battesimo del fuoco.

Era calma, anzi fredda, ma sentiva imperiosa la necessità di creare il presupposto. 

A un cento metri dal cartello metallico col nome della città a lettere maiuscole nere - GENOVA - barrate su fondo bianco fosforescente, l’avviso ufficiale che da lì in poi la strada sarebbe diventata la “Statale n. 1 - Aurelia”, all’uscita della curva, lo inquadrò. Più che camminare, zigzagava incespicando sul marciapiede a mare. Chiaramente ubriaco. Ma non si perse a osservarlo più di tanto e lanciò un’occhiata intorno, senza trascurare il retrovisore. Nessuno. È la volta buona, eccola l’occasione. 

L’occasione? ma siamo sull’Aurelia, te ne rendi conto? anche a quest’ora in dieci minuti ci passano venti auto, vuoi scherzare? se proprio lo vuoi fare stanotte, Sì, ho deciso, stanotte, Allora scegliti un posto più tranquillo, è la prima volta e la prima volta si commettono sempre degli errori, la prima volta potrebbe essere anche l’ultima, Giusto, devio in collina, c’è una traversa proprio da questa parti, Sarà meglio. Cominciava ad assaporare la piacevole sensazione che aveva conosciuto nella sperimentazione successiva allo studio della teoria, quella sorta di tepore che saliva dall’addome e le invadeva stomaco e polmoni, che avrebbe bloccato l’inevitabile, per il profano digiuno di training autogeno e yoga, afflusso adrenalinico al cuore, mantenendo inalterato il battito cardiaco e il respiro, saldi i nervi e lucida la mente. Senza fretta, imboccò la prima traversa a sinistra, una stretta strada in salita, fondo sconnesso, un’infinità di curve, illuminazione scarsa per non dire inesistente. Ecco, qui è meglio.

Non ha percorso nemmeno duecento metri che i fari investono la nuova figura, stavolta di spalle, affiancata da un cane di taglia media, bianco o comunque chiaro, al guinzaglio. L’uomo procede tranquillo sul bordo strada, assecondando le voglie dell’animale che si ferma ad annusare qua e là prima di sollevare la zampa. Eccola l’occasione, però sarebbe preferibile averlo a sinistra, invece ce l’avrò sul lato opposto, ma non sarà un problema, d’altra parte non si può avere tutto. L’illuminazione è fioca - già detto, sei in una strada secondaria -, umiliata dagli alberi, più bassi dei lampioni. Lancia un’altra occhiata intorno per accertarsi che non ci sia nessuno, una seconda al retrovisore, l’ultima la riserva all’orologio dell’auto, le due e trentacinque, poi passa alle luci di posizione, scala in seconda, come da provata e riprovata esperienza inspira profondo, espira lento, da sotto il sedile estrae la pistola, se la sistema fra le cosce, preme il pulsante, il cristallo di destra finisce di abbassarsi proprio alle spalle dell’uomo. Allorché si rende conto della vicinanza dell’auto, quello, ormai inquadrato nel finestrino, si volta e scruta all’interno con sguardo interrogativo - forse crede che gli chiederò delle informazioni. Lei mette in folle, il piede sul freno, afferra la pistola, la alza, mira al viso senza guardarlo - come la luna che si affaccia a tratti fra le nubi quel viso è una macchia pallida, quasi interamente occupata dalla tacca di mira in primo piano e poi dal mirino, forse l’uomo non si rende nemmeno conto di aver davanti una pistola spianata - e spara, quello fa un salto all’indietro come se l’avessero spinto e piomba a terra. 

Il fischio acuto ai timpani dovuto all’esplosione non le impedisce di avvertire un lieve tramestio. Un ultimo sguardo all’esterno, tira il freno a mano, si allunga sul sedile accanto, si affaccia e scorge un paio di gambe sporgente dalla base della siepe di pitosforo che circonda l’aiuola: gambe e parte del busto - la testa no, non si vede - si muovono ancora a piccoli scatti nevrotici verso l’interno del cespuglio. O è l’illusione ottica dovuta a un lampo, al vento che sposta le fronde? A ogni buon conto, stavolta mira al torace e spara di nuovo, il corpo torna a sussultare - Non mi sto sbagliando, ha sussultato veramente, l’ho visto bene - ma non sembra darsene per inteso, con quei piccoli, nevrotici scatti continua a incastrarsi sempre più negli arbusti, ormai è entrato fino alla cintola. Possibile? Infine, l’ennesima, provvidenziale folgore, o ancora il vento fra i rami degli alberi, spazza via la semioscurità oltre la siepe illuminando il braccio proteso, l’occhiello del guinzaglio in tensione stretto al polso e il cane sull’aiuola che tira terrorizzato e ansimante, le zampe inchiodate al terreno. 

Constatò soddisfatta che respiro e battito cardiaco non avevano subito la minima accelerazione. Si risistemò al posto di guida, ripose la pistola sotto il sedile e proseguì fino a quando trovò uno slargo, dove manovrò per ripercorrere la strada a ritroso e tornare sull’Aurelia. 

 

 

L’orologio dell’auto segnava le due e quarantuno. A Quarto, invertì la marcia e tornò a dirigersi a levante. A Quinto, si fermò sul marciapiede dell’unico, breve rettilineo che si affacciava sul mare, prese la pistola, liberò il tamburo dei due bossoli esplosi, scese, raggiunse il parapetto e li lanciò di sotto, soffermandosi a carpire, quando vento e marosi lo permettevano, il tintinnio metallico dei rimbalzi sulla scogliera, quindi riavviò ad andatura moderata. A Bogliasco, svoltò a destra nella strada che portava al centro, senza un’anima, da dove tornò subito indietro. 

Anche la visita al teatro del fatto rientrava nel programma. Alla traversa arrivò alle tre e un quarto, ma non la imboccò subito, benché all’incrocio si fosse già resa conto che tutto era calmo. Niente luci violente, nessun lampeggiante a fendere la notte. E silenzio, naturalmente, rotto soltanto dal muggito del mare e del vento. Non lo hanno ancora scoperto e se non l’hanno scoperto adesso, non sarà prima di domattina, anzi di stamattina, sempreché qualcuno del posto…E allora diamola, questa occhiata.

Lo scorse una decina di metri prima: come l’aveva lasciato, le gambe divaricate sporgenti dal cespuglio, immobile gli parve stavolta. Non si curò del cane. Se c’è ancora, si sarà calmato o forse sarà riuscito a scappare. Passando senza fermarsi, abbassò il cristallo e tese l’orecchio per percepire eventuali uggiolii, ma al di là del brontolio del motore a basso regime, del fruscio dei copertoni e del soffio del vento, non avvertì nient’altro. Possiamo far ritorno.

A casa, inserì nel tamburo due cartucce e ripose la pistola nella scatola, nel solito posto, il primo cassetto del comò, sotto slip e reggiseni. In cucina, prese la tazza e il piattino dallo scolapiatti, li posò sul tavolo, accese sotto la teiera, già pronta sul fornello, aspettò che l’acqua bollisse, la versò nella tazza, vi immerse la bustina e si sedette. Come sempre, gustò a piccoli sorsi il the, anche per non scottarsi sebbene lo apprezzasse bollente, grazie al quale cominciò ad avvertire uno stato di rilassamento molto vicino a una lieve spossatezza. La tensione, anche se non avvertita, c’era stata, era naturale, dopotutto aveva ammazzato un uomo, il suo primo uomo.

Poi, di mese in mese, arriveranno gli altri e voglio proprio vedere come andrà a finire. Perché, indubbiamente, questa sera è stata emozionante, e le prossime, voce o non voce, ci saranno eccome, altrettanto emozionanti. Provò a pensarci e si deliziò. Perché, cari i miei signori poliziotti, o carabinieri, d’ora in poi avrete di che scervellarvi. Il delitto perfetto? Un delitto senza movente. Eccovelo, servito su un piatto d’argento, ora vedetevela voi. 

Sciacquò tazza, piattino, cucchiaino e teiera, li ripose nello scolapiatti e si trasferì in camera. Con decisa delicatezza, ripiegò le estremità superiori del copriletto, quindi ripeté l’operazione, identici i gesti, col lenzuolo. Come sempre, si fermò a osservare. Sì, il rettangolo bianco del lenzuolo coincideva al millimetro con quello sottostante formato dal copriletto, era quasi un peccato sciupare quella perfezione geometrica, ma a dormire si deve pur andare. Da sotto il cuscino prese il pigiama, blusa e calzoni, ovviamente piegati, e lo posò sul risvolto del lenzuolo, facendo in modo che la prima combaciasse esattamente con l’estremità opposta del letto e che i secondi facessero altrettanto con quella dal proprio lato, ché andavano indossati in quest’ordine, prima gli uni e poi l’altra. Dall’armadio sganciò l’ometto con le spalle anatomiche, lo poggiò sul letto e cominciò a svestirsi. Il basco e la parrucca sulla sedia a fianco del comodino, il soprabito allargato accanto all’ometto, quindi la camicia, che occupò lo spazio disponibile vicino al soprabito, e, sul tappeto, le scarpe senza tacco. In precario equilibrio prima su una gamba, poi sull’altra (guai a perderlo, l’equilibrio, sarebbe stato costretta a sostenersi al letto, peggio, avrebbe potuto caderci, e allora addio perfezione geometrica), si sfilò i pantaloni, ne serrò fra due dita le estremità che bloccò col mento abbassato sul petto e, mentre li teneva aderenti e paralleli con una mano a metà gamba per mantenere intatta la riga, con l’altra abbrancò l’ometto, li fece scivolare sull’assicella orizzontale, in modo che la cintola combaciasse, anche questa alla perfezione, con i risvolti. Sollevò il braccio, «A piombo», osservò compiaciuta della propria, sperimentata abilità. Sopra i pantaloni mise la camicia, anche quella «a piombo», poi sistemò il soprabito adattandolo ai sostegni e lisciandone le pieghe e riappese l’ometto nell’armadio, basco e parrucca al loro posto - la seconda nella busta di plastica - sul ripiano superiore. Riguadagnò lo scendiletto, si calò i collant arrotolandoli sulle cosce e poi sfilandoli dal piede per la punta in modo da non ritrovarseli alla rovescia - anche in questo caso, attenzione a non perdere l’equilibrio - e li distese con cura sulla spalliera della sedia, già liberata dalla vestaglia, reggiseno e slip li lasciò cadere sul letto, il tempo di indossarla e li riprese per andare in bagno, dove li ripose nella cesta della biancheria da lavare, una breve sosta davanti allo specchio per struccarsi, si trattava soltanto di due sottili strisce di rimmel, si tolse la vestaglia, la appese al gancio sulla porta e entrò nella doccia e la aprì, saggiando la temperatura più volte e regolandola col miscelatore, un’operazione da ripetere ogni volta, ma che razza di miscelatore è se devo regolarlo ogni volta?, Dovrò farlo vedere, prima o poi, si ripromise calcandosi in testa la cuffia di plastica. Sotto il getto, come sempre mentre si passava sul corpo il bagnoschiuma, fischiettò, consapevolmente stonata, “Colonel Bogey” e finì solo quando richiuse il rubinetto. Si asciugò a lungo, tamponandosi il corpo prima con l’accappatoio, poi con l’asciugamano, davanti allo specchio dove si soffermò a osservarsi, per indugiare con un leggero massaggio sui seni, quindi fece scivolare piano le mani al ventre e all’interno delle cosce, concedendosi per un attimo all’illusione che ad accarezzarla fosse Diomira. Domani, domani saranno le sue mani ad accarezzarmi. 

In camera, indossò il pigiama e raggiunse il contenitore dei cd: «Wolfgang Amadeus Mozart, concerto per pianoforte n. 21 in do maggiore K 467», recitò ad alta voce con tono soddisfatto. Inserì il disco nel lettore, premette il pulsante di avvio, quindi sollevò lo stretto necessario il lenzuolo per intrufolarvisi sotto, cercando di evitare (ma sarebbe stato inutile, riconobbe con un sospiro di rassegnazione) ogni movimento che potesse sconvolgere quella perfezione geometrica così meticolosamente conquistata. Rimase supina qualche secondo, poi cavò lentamente un braccio, fece scorrere la mano lungo la fiancata del comodino, fino a quando individuò l’interruttore pendulo dell’abatjour e finalmente lo premette. Le note la invasero infondendole un senso di appagamento totale. 

Eccoli i veri santi, i musicisti, i poeti, gli artisti, quelli che, anche a distanza di secoli, ti fanno sentire piccoli e insignificanti. Sono loro i superumani? La risposta è unica, noi siamo gli umani. 

La tua metodicità mi preoccupa, non è possibile che ogni sera tu ti faccia vincere dalla tentazione di certi riti incomprensibili, assurdi, La mia metodicità, come la chiami tu, l’ho infranta stasera con l’uccisione del mio primo uomo, ma se preparare il letto a modo mio ti dà fastidio, non so che farci, sono trent’anni che lo preparo così e poi non mi seccare con queste sciocchezze, sto beandomi del genio salisburghese, il concerto per piano e orchestra in do maggiore K 467, non so se mi spiego. 

Ottimo lavoro, Anna. Impeccabili la tua freddezza e la tua determinazione. Sei in gamba, ma lo sapevo già. 

Parole inattese che la inorgoglirono e per un attimo, ma solo un attimo, la distolsero da Mozart. Immobile, lo sguardo fisso al soffitto appena schiarito dal debole lucore proveniente dalla finestra con le persiane chiuse, rievocò la scena più volte senza riscontrare errori di sorta, solo un neo, ma insignificante, quel secondo colpo - e che ne sapevo se era morto veramente? e comunque non c’era nessuno - e lasciò che la musica tornasse a pervaderla, senza per questo costringerla a rinunciare all’immagine di poliziotti o carabinieri alla frenetica ricerca di chi e perché. 

E allora cominciamo dalla vittima. 

Chi è? Un pensionato (poteva anche esserlo, gli era sembrato sulla sessantina, nella semioscurità - una ventina d’anni più di me), un impiegato, un operaio, tipo un elettricista o un idraulico? Oppure un ex funzionario o un ex dirigente? No, l’abbigliamento, non trasandato o dimesso, ma da grande magazzino questo sì (giubbotto, polo e jeans), non sembrava quello di un ex funzionario o di un ex dirigente. Vabbè, anche ex funzionari ed ex dirigenti, in specie se pensionati, ora vestono casual, perciò fate voi. Scrupolosa disamina della vita. Sposato? Con un’amante? Sposato sì, ma senza amante, stabilì, così vi faccio un favore, non starete a perdere tempo con la pista del delitto passionale. 

Ma che ha fatto allora questo pensionato-impiegato-elettricista-idraulico per fare la fine che ha fatto? Biscava? magari aveva debiti di gioco? Macché biscare, tutto casa e cane era, oppure tutto casa, cane e bar. E al bar, che dicono al bar? Un brav’uomo, mai fatto male a una mosca. E con la moglie, com’erano i rapporti con la moglie? Andavano d’accordo, si vedeva, venivano qui, sempre insieme, prendevano il caffè, davano un’occhiata al giornale e arrivederci, lo stesso l’indomani e l’indomani ancora, tutti i giorni che Dio manda in terra. Non è per caso che prestava a strozzo? Prestare a strozzo? ma se leggeva il giornale al bar per non comprarselo, solo il caffè prendeva, Appunto, l’usuraio è sempre tirchio... e non è che magari aveva abitudini, come dire, un po’ strane, insomma che gli piacessero gli uomini o gli piacesse, come dire, guardare o magari che avesse qualche tendenza ancora più strana, intendo ragazzini o cose del genere? perché se biscava, o aveva debiti di gioco, prestava a strozzo, o aveva tendenze strane, allora l’ipotesi della vendetta potrebbe starci, Vuol dire, agente, se era finocchio, o guardone o, peggio, pedofilo? bè, se era finocchio non lo so, però so che le donne le guardava, eccome, ma le guardava solo, perché, poverino, sposato e a sessant’anni…, in quanto al guardone, non credo proprio, i guardoni, lei lo sa meglio di me, guardano altro, no? e sui ragazzini - tono un tantino ironico, per non dire irriguardoso - mi dispiace, agente, ma lei è completamente fuori pista. Vabbè, sentiremo la moglie e gli amici.

Insomma, vedetevela voi, poliziotti o carabinieri. Da lavorare mi pare che ne abbiate, ma non arriverete a niente. Il delitto perfetto? Quello senza movente come già ho avuto modo di dire. Conosco il fatto mio, io. Non ho lavorato né mai lavorerò di coltello, non userò strumenti da macellaio, e nemmeno strangolerò - tecniche simili non mi appartengono, il mio status di donna ma il buonsenso prima di tutto sconsigliano vivamente il contatto fisico con la vittima -, è logico che userò le mani, questo sì, è inevitabile, ma solo per impugnare una pistola e premere il grilletto. Di una pistola, sono a farvi notare, a tamburo, che così manco sputa i bossoli. Una pistola che non esiste, è ovvio, perché mai denunciata. 

Tornando al motivo principale, perché l’ho fatto? Domanda da un milione di dollari… Ha ragione la voce, ora so che l’ho fatto perché mi piace il gioco d’azzardo, non quello intendiamoci, tradizionale, nossignori, io non gioco a poker, a chemin, alla roulette, per quanto siano giochi d’azzardo, ergo vietati, no, io amo il gioco d’azzardo ultravietato, questo naturalmente, che ha per posta l’esistenza degli altri, le mie vittime, e per diretta conseguenza la mia, nel malaugurato caso che mi agguantiate, ma, ripeto, non succederà, l’ho fatto e lo rifarò perché amo la sfida, soprattutto con me stessa, e se vinco, e vincerò statene sicuri, avrò dimostrato che sono la migliore, migliore anche degli uomini, perché mi batto e mi batterò da sola contro l’intero apparato giudiziario e scientifico, diventerò la killer che ha sconfitto una metodologia, obsoleta ormai, ammettetelo signori poliziotti o carabinieri, ché anche i killer non sono più gli sprovveduti di una volta, si informano e si aggiornano oggi, i killer, vanno su internet e leggono, soprattutto i resoconti delle indagini giudiziarie - dove credete che sia venuta a conoscenza delle tracce che lasciano i telefonini o della pistola che non espelle i bossoli - …un po’ di fantasia, andiamo! Io da sola contro tutti, polizia, carabinieri, giudici e benpensanti, preti compresi. E sulla base di che? Sulla scoperta dell’acqua calda, dell’umidità nei pozzi, cari i miei signori. Il delitto perfetto, insisto per la terza volta, scusate si divento noiosa ma repetita juvant, è quello senza alcun movente, quello gratuito. E sono a farvi notare un particolare non secondario. Non è farina del mio sacco, ma del vostro. Ammazzano uno spacciatore di droga? Indagare nel mondo della droga, è lapalissiano. Stendono un protettore? Sondare fra mignotte e magnaccia. C’è un morto ammazzato che da vivo era ammalato di sesso? Dragare fra le (gli) amanti o fra quelli che il sesso ‘o fanno strano. Ma, ditemi voi, dove si va a pescare se il morto accoppato è magari uno che non ha mai avuto a che fare con droga, puttane o amanti, insomma uno dal passato immacolato? Dove andate a pescare, eh? Qui vi voglio e qui vi ho portato, cari i miei signori. Oddìo, nessuno può escludere che un giorno o l’altro a cadere sotto i miei colpi sia uno spacciatore, un rapinatore o un protettore, ma sarà sempre un caso, non faccio ricerche preventive sulle mie vittime, vorrà dire che vi fornirò una pista, ma sarà una pista fasulla, magari andrete a incastrare - e sbaglierete - il concorrente o chi ha subito il presunto sgarro... Comunque, la mia mano l’ho giocata, ora tocca a voi. Una volta per uno…Come dite? Il rimorso? Assolutamente no. Perché dovrei aver rimorso? Questa, ripeto, è una sfida fra me e me e fra me e voi. Una sfida vera, non una partitella fra scapoli e ammogliati. E la sfida è più vera, più coinvolgente, più seducente se in palio c’è una vita, anzi non una, più vite, ché fra queste io ci metto anche la mia, perché se mi acchiappate mi rinchiudete e buttate la chiave sarebbe come uccidermi, cioè farmi fare la fine delle mie vittime, anzi peggio, ché la loro è una morte immediata, senza dolore, senza sofferenza, mentre la mia no, sarebbe lunga, atroce. Meritata, non lo nego. Ma non succederà. 

No, non succederà, se in futuro ti comporterai come ti sei comportata stanotte, ripeto, hai fatto un ottimo lavoro, ti rinnovo i complimenti. 

Mozart tacque. Cercò a tentoni la tastiera del lettore, premette il pulsante di spegnimento e si addormentò subito, soddisfatta, anzi appagata. 

 

 

Nessun rapporto tra assassino e vittima che possa condurre a un movente. Nessun telefono cellulare quando si va a uccidere, perché il cellulare lascia sempre una traccia. 

Una pistola che trattiene il bossolo. 

Ecco la formula del delitto perfetto. Ad applicarla è Anna, di giorno irreprensibile impiegata di banca, di notte spietata killer, che una volta al mese colpisce a caso e costringe la sezione Omicidi della Questura di Genova a un estenuante gioco a rimpiattino. 

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