Antonino Scarfì
Le Donne della Luna

Titolo Le Donne della Luna
Autore Antonino Scarfì
Genere Narrativa - Sentimentale      
Pubblicata il 26/03/2014
Visite 10015
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Spazioautori  N.  3472
Pagine 176

Versione Ebook

ISBN EBook 9788873884941
Prezzo eBook 4,99 €

Ed eccola lì, la luna.


 


La nostra vecchia amica, che guardiamo da millenni con desiderio, con i sogni che facevamo da bambini, con l’amore struggente dei vent’anni.


 


Vi sarà capitato, magari d’estate, durante una sera di fuochi di quelli che si fanno da ragazzi, di allontanarvi dal gruppo, appartarvi con la fidanzata, il fidanzato, un amico ... meglio da soli. E iniziare a guardarla, così luminosa, bella. Ci potete fare un cerchio con le braccia e stringendo verso il basso le punte delle mani disegnare un cuore per vedere com’è da dentro il cuore ... dentro il cuore.


 


Dicono che ci siano già stati degli esseri umani sulla luna. A me sembra lontana.


 


Dicono che un giorno andremo in altre galassie e, comunque, ci sono nostre apparecchiature (degli umani intendo) che già vanno al limite del sistema solare. 


 


Sarà. A me sembra tanto lontana.


 


 


 


Gli occhi degli antichi greci erano i più belli del mondo. Scuri, profondi, luminosi.


 


La Luna è di origine greca. E i suoi occhi sono così. Sono scuri, profondi e luminosi. Ti dice che se porterai l’amore con te, vivrai la vita più bella che ci possa essere. In ogni caso.


 






L’ATOLLO DELL’AMORE

 

La notte è il momento più bello. È l’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Io sto sognando con amore e ad occhi aperti il tempo che è trascorso. Le immagini che vedo sono avvolte dalle nuvole, entrano ed escono da quell’ovatta bianca e rosa.

Mi chiamo Anna e mi hanno detto che i miei occhi azzurri si intonano molto bene con i miei lineamenti delicati. Non belli, no, non lo direi, ma delicati sì. Regolari, insomma. 

Mi piace pensare al mio sorriso, il sorriso degli ottant’anni che compirò nel prossimo mese di giugno. So di essere stata una persona dolce ed è bello sentirsi così, perché dentro hai qualcosa che ti completa, ti realizza. Una serenità superiore, quasi un distacco dalle cose che tutti i giorni affannano un sacco di gente. 

La vita l’ho passata senza che vi sappia dire esattamente come, ma non è stata banale. Non saprei quali sussulti possano esserci stati, ma non credo sia una colpa avere avuto una vita normale. Mio marito Alcide avrebbe detto che son così perché non mi rendo conto delle cose, sembra ch’io guardi e non veda.

Ma quando qui nella Casa era arrivato Paolo, allora sì, che avevo visto, avevo visto bene. Questa è la prima notte che passo senza Paolo perché oggi lui è morto. Non che prima passassimo le notti assieme in quel senso, ma lui c’era. E voi potete anche pensare che io sia una sfrontata, ma vi assicuro che me ne ero bene accorta che c’era.

No, non sono lacrime quelle che vedete scorrere sulle mie guance. È rugiada di solitudine, di notte senza luna, di attesa. È l’inizio di un’altra corsa tra i campi di grano, tra i baci mandati dal tempo. È il ricordo del sole che morde la pelle, dei mille sorrisi e delle infinite felicità. E ringrazio Dio perché in questo poco tempo ho calzato gli stivali della vita per poi correre, correre ....

Se non c’è fretta, e non ce ne può essere, dirò ciò che è stato. Ma non parlo di prima, non dell’infanzia, non della gioventù, né del destino, della famiglia, dei figli che pure ancor oggi mi amano. Io vorrei, se mi è dato, parlarvi d’amore.

 

 

***** ***** *****

 

La Casa di Riposo Molinari-Profiti si trova sulle alture dietro Varazze, un paese della riviera ligure, ed io sono stata mandata lì dai miei figli diversi anni dopo la morte del mio povero Alcide. D’altronde, lui, che era più grande di me di quindici anni, aveva pensato anche di andarsene prima del tempo, di abbandonare la grande valle in cui tutti entriamo piangendo e che ben pochi lasciano ridendo. Si lavorava. Avevamo ascendenti agiati e non ci sono mai stati problemi. Poi, alla tenera età di settantacinque anni, cominciai ad avere frequenti bronchiti, mi venne anche una polmonite che debellai con fatica e antibiotici. Secondo i miei figli che, come vi ho detto, mi amano molto, ero diventata stabilmente cagionevole di salute, non ci si poteva fidare a lasciarmi sola, dimenticavo le terapie, trattavo male la badante la quale, per la verità, piangeva spesso senza che ne potessi comprendere il motivo. Così fu deciso ed in quattro e quattr’otto ero qui, da dove vi parlo.

La Casa è gestita in modo razionale. Il direttore sanitario, dottoressa Martinelli, è molto attenta e premurosa e dispone della collaborazione efficiente di una coordinatrice, una capo-sala ospedaliera in pensione, tale signora Wanda Bertini che tutti chiamiamo confidenzialmente col nome di battesimo. La Wanda coordina le infermiere professionali e le assistenti, gestisce l’organizzazione, la distribuzione dei pasti e l’igiene delle camere e della Casa nella sua interezza; in caso di urgenze comunica in tempo reale con la direttrice sanitaria e chiama lo specialista che serve e, se del caso, i parenti. 

So che dell’amministrazione si occupa un tizio con la faccia da topo e degli occhialini che devono essere dello stesso modello di quelli che portava il grande Camillo in pieno ottocento, ma è uno che non si vede praticamente mai. Non ho mai conosciuto i proprietari della Casa, credo li conosca mio figlio Giorgio. Conosce tutti, lui.

 

Paolo arrivò nell’ottobre di due anni fa. Lo vidi arrivare in una grande automobile scura, accompagnato dal figlio. Scese agevolmente, sembrava libero nei movimenti, quasi giovanile. 

Mi colpì il suo sguardo spaurito, mi fece tenerezza. Vedere un uomo grande e grosso come quello così perso nel mondo mi fece pensare agli esseri umani che cercano qualcosa, ma mi sorpresi io intenta a frugare le espressioni. C’era in quegli occhi una luce che diceva: no, non mi inchioderete a una panchina, non avrò la bocca piena di terra prima del tempo. Era un uomo indomito, lo era stato, lo sentivo. Pesava certamente almeno cento chili e non poteva essere più basso di un metro e ottanta, aveva un cardigan color bordeaux e pantaloni grigi della giusta misura.

Occorreva sapere di più. 

E soprattutto, individuare la sua postazione. 

La Casa è ripartita in due grandi ali laterali. Sulla destra rispetto all’ingresso si trovano tre piani dedicati alle clienti femmine, mentre i tre piani dei maschi sono dall’altro lato. I soggetti di entrambi i sessi ritenuti meno autonomi fisicamente o meno stabili mentalmente sono sistemati al primo piano, ma abbiamo una grande sala da pranzo comune per tutti e nell’uso degli spazi dedicati al tempo libero non vengono poste preclusioni. 

Il fatto che Paolo fosse stato collocato al primo piano meritava accertamenti. Il giorno del suo arrivo, sbrigate che furono le pratiche d’ingresso, il figlio lo lasciò, lo vidi uscire e andare via sulla sua potente auto blu da persona importante. Passeggiavo tra la sala giochi e il corridoio di accesso alla sua stanza, ma non dovetti attendere molto. Uscì dalla stanza dopo meno di un’ora e si incamminò lentamente verso la grande vetrata da cui potevamo vedere il mare. Aveva il cuore infranto, si vedeva. All’epoca non ero innamorata, ero solo curiosa, come sempre. Così andai da lui, gli dissi: “benarrivato”.

Lui si voltò: “è un giardino incantato sa? Si vedono benissimo le stelle. Mi capita di stare seduto delle ore a guardare le stelle. Immagino di partire con il cuore come carburante e con l’anima che mi fa da radar e incominciare a saltare tra una stella e l’altra, ridendo come un pazzo.”

Quell’ultima parola lo aveva turbato e i suoi occhi brillarono: “ma io non sono pazzo. Lo so benissimo che non si può saltare tra le stelle.”

Temetti di averlo contrariato con la mia espressione perplessa, ma era un uomo buono, gentile, si capiva subito. Fremeva per la volontà di esprimersi, di spiegare la sua condizione di animale sociale.

“So chi sono – disse – ma ogni tanto arriva un uomo, il Signore del Tempo, che mi riporta dove sono nato, nella foresta. È un signore dall’aria temibile, ma non mi fa mai del male. Si accende una porta di luce e lui mi porta con sé, mi fa vedere cose terribili e magnifiche. Ma io collaboro, sa? Metto tutto a posto, ogni volta.” 

Ci presentammo ed io pensavo che tipo particolare mi era capitato di conoscere. Ecco, quelle poche parole mi fecero sentire strana. Capirete, una vita del tutto normale, una permanenza nella Casa che era stata solo la prosecuzione di fatti scontati. E ora questo strano signore mi guardava con quegli occhi forti e sconcertati, pieni di una passione che non avevo mai visto. Avevo sentito parlare della passione per la vita, mi avevano spiegato che si tratta di gerani che fioriscono in qualunque stagione, di bambini che corrono per gioco. Ma non ero mai riuscita a spezzare la porta di marmo che divide l’al di là della coscienza dalla nostra paura e non mi ero mai veramente domandata se potevo liberarmi di un’imperturbabilità ignorante.

 

Nel pomeriggio giocai a king, ma ero deconcentrata e persi. Feci arrabbiare Raffaella, che è una perfezionista. In realtà pensavo a lui. Ero scossa. Ero stata colpita da un qualcosa che alcuni chiamano colpo di fulmine e che invece è un interesse profondo, una voglia di conoscere, sapere, possedere la memoria, le chiavi dello scrigno e le pietre preziose che esso contiene. 

La casa era piena di persone ragionevoli, equilibrate, con cui il tempo era piacevole, ma io mi vidi ad occhi aperti, sdraiata sul bagnasciuga in una sera d’estate, l’estate da poco finita. Sentivo il mare accarezzarmi e la risacca cullare il mio cuore per poi riportarmi tra le stelle a giocare insieme a Paolo. Lui mi aiutava a scendere da una carrozza che nessun animale trainava, che stava lì, ferma nel vuoto cosmico, dorata e barocca come quella di Cenerentola. 

E sorrideva: “vedi Anna, come è bello stare nel nulla? Hai bisogno di qualcosa? Vuoi uscire dal quadro?”. Allora mi spingeva verso la Terra senza che io potessi far nulla e ci trovavamo come d’incanto sotto la crosta terrestre, nuotando in un fiume di lava infuocata. Lui rideva come un diavolo e quando uscimmo dal fiume per riposarci mise in mostra gli zoccoli e un membro grandissimo ed eretto.

L’ultima parte della visione mi aveva stupita, non sapevo come interpretarla. Forse nella vita non mi ero mai lasciata andare abbastanza. Qualcosa mi si insinuava dentro, l’aver conosciuto Paolo mi faceva sentire diversa dal solito. Improvvisamente e involontariamente certi argomenti mi sembrava .... che mi interessassero di più.

Il mio sogno ad occhi aperti venne interrotto. Raffaella era fuori di sé e Gianni e Ugo avevano rinunciato a giocare. Ordinammo un tè, ma durante l’attesa notammo un certo fermento provenire dalla sala giochi adiacente. Il mio amico Alberto aveva finalmente trovato un degno avversario al gioco degli scacchi. Mentre mi avvicinavo per vedere (senza possibilità di comprendere) mi accorsi dello sguardo sereno di Paolo. Sembrava avere la situazione sotto controllo, Alberto disponeva ancora delle due torri e di un paio di pedoni, ma Paolo aveva la regina oltre ad altri pezzi e pareva dominare la partita perché, mentre il primo impiegava molto tempo a decidere cosa fare, lui nel frattempo mostrava di aver già considerato tutti i possibili sviluppi delle mosse dell’avversario. Avrebbe vinto. Dopo pochi minuti, con un gesto plateale Alberto depose il re e si dichiarò battuto: “cavaliere, sono profondamente onorato di dirle che lei è uno splendido giocatore. Mi auguro di poter presto avere una rivincita.”

Paolo adesso aveva di nuovo lo sguardo smarrito. La fierezza di quando padroneggiava il gioco, fino a un attimo prima, era di colpo svanita. Fece un cenno di assenso e continuò a scrutare tutte le persone intorno, come se stesse apprezzando ancora una volta il fatto di essere in un posto che non aveva mai visto. Abbandonato. 

Approfittò del fatto di avermi conosciuta per alzarsi da tavolino ed allontanarsi dall’attenzione dei presenti: “Buon pomeriggio Anna, che piacere vederla.”

Lo invitai a prendere il tè con noi e non si sottrasse.

Gianni lo volle indagare e chiese se fosse davvero cavaliere e cosa cavalcasse. Lui rispose di avere ricevuto quella onorificenza molto tempo addietro; Cavaliere del Lavoro e proprietario di un piccola azienda tessile vicino Lecco.

La conversazione iniziò a scorrere serenamente. Gianni e Ugo si divertivano a sviluppare le loro considerazioni sulla bellezza e l’efficienza delle esponenti del personale di sesso femminile come se io e Raffaella non ci fossimo. La solita eleganza, ci trattavano come due ruderi nemmeno in grado di indignarsi. Paolo sembrava immerso nel proprio mondo, in chissà quali meravigliose fantasie. Forse il signore del tempo lo stava visitando. Magari era in groppa a un elefante indiano armato di lancia per la caccia alla tigre, oppure si trovava sulle rive di un affluente del fiume Yukon alla ricerca di una miniera d’oro. Chissà ...

Il gruppo si sciolse. Appuntamento per l’ora di cena. Proposi a Paolo una passeggiata nel giardino. Lui accettò, ma continuava ad avere un’aria tremendamente malinconica. Gli feci notare che non era il caso: “non siamo in galera, sa?”

Le giornate erano ormai nuovamente brevi e la sera aveva iniziato a circondare i nostri pensieri.

“Sì, lo so – mi rispose – d’altronde, mettere in galera i sogni sembra impossibile. E cosa siamo noi?”

Mi guardava come se avesse il potere di bucarmi l’anima.

“Siamo stati farfalle con bellissimi arabeschi disegnati sulle ali, ma è venuta una notte a parlarci la morte. Confronto impari, quello con la morte. Non le pare?”

“Lei non crede in Dio?” – gli chiesi.

“Certo che sì, mia cara. Se non lo avessi creduto sarei morto molto tempo fa, non avrei avuto paura di incontrarlo ... Oggi ho telefonato a mio figlio. Gli ho chiesto di portarmi degli oggetti che mi sono indispensabili quando verrà la prossima volta a trovarmi. Non mi piacerebbe se qualcuno venisse a trovarmi troppo spesso.”

Il suo nervosismo si stava sciogliendo. Forse avremmo potuto instaurare un rapporto. Ma era un uomo misterioso, qualcosa in lui incuteva timore. Erano i suoi occhi grigi a farmi intuire la profondità del suo essere e, oserei dire, la raffinatezza di quell’incontro. Non volevo che mi potesse credere più stupida di quanto io non fossi, ne andava del futuro dei rapporti tra noi: “ho idea che lei mi stia mentendo, Paolo. La posso chiamare così?”

Mi sorrise: “certo Anna. Anzi, se lei è d’accordo potremmo darci del tu. E ti ringrazio per la sincerità.” 

Facemmo qualche passo nell’ombra che si infittiva sempre più. Il profumo delle bouganville e delle ortensie si confondeva con quello del mare.

“Sì, ho detto a mio figlio che ho bisogno di un mio cofanetto personale. È chiuso e a nessuno interessa sapere cosa ci sia dentro. Solo io lo so e ne ho la chiave, apre le porte dell’anima. È il mio amico che mi prescrive i giochi, il Mago della Luce di cui ti ho già parlato. Mi sono fidato di te. Sono fatto così. Penso che se una persona ha il coraggio di aprire un rapporto per prima, quella persona merita fiducia. A volte si rimane delusi, ma chi è votato al gioco d’attacco non si preoccupa dei contropiedi della vita.”

Il suo modo di parlare diretto mi affascinava. Si comportava in maniera esattamente opposta a quella della maggior parte delle persone che avevo conosciuto. Era come se qualcuno mi stesse spiegando la differenza tra ciò che ci accade in modo banale, scontato, e ciò che invece esiste realmente. Avrei voluto toccarlo, per capire quale sensazione avrei avuto. Penserete che sono fatta così, che abitualmente cerco contatto, che sono una poco di buono. Ma non è così. Quell’uomo esercitava su di me un’attrazione magnetica, un desiderio di scoperta impensabile visto il poco tempo da cui lo conoscevo.

E glielo dissi: “sai, mi piace imparare, conoscere le persone può essere utile. Occorre saper sfidare la banalità, l’insipienza.”

Allora Paolo mi sorrise di nuovo. Si avvicinò al mio orecchio e bisbigliò con una voce arrochita dall’emozione e sensualissima: “tu hai gli occhi più luminosi del mondo.” 

 

I giorni successivi furono noiosi. Paolo si faceva vedere poco. Familiarizzava con il luogo e con le persone che ci vivevano ed io cercavo di non assillarlo con la mia presenza, anche se molte volte avrei desiderato sapere cosa stesse facendo o pensando. Poi giunse il giorno della prima visita ufficiale del suo parentado, lo portarono via, a fare una passeggiata in collina e rientrarono solo verso sera. Lui aveva l’aria di chi ha dovuto sopportare ancora, a quell’età, qualcosa di stupido o di inutile. Lo capivo. Penso sia abbastanza evidente il fatto che a una certa età le cose che riteniamo stupide o inutili ci diano più fastidio del solito. Questo accade per via del tempo, perché si ritiene ce ne sia ormai poco da perdere. E allora il tempo va gestito per viverlo, per vivere la solitudine nell’attesa che arrivi un sogno in più, un’emozione più intensa e sconvolgente, quelle che da ragazzi spesso viviamo in modo violento, superficiale.

Prima di andare nella sua stanza mi chiese se avrei cenato con lui ed io ne fui entusiasta. Allora stabilimmo di vederci un po’ prima del solito, per occupare uno dei pochi tavolini da due. 

Più tardi, quando fummo seduti uno di fronte all’altra mi mostrò un altro dei suoi sorrisi infantili e diabolici e mi disse: “è arrivato. Stasera controllerò che non manchi nulla.”

“Perché non mi racconti qualcosa di te, della tua vita – osai – sarà interessante, immagino.”

Mi guardò perplesso, voltò la testa in direzione di uno dei finestroni della sala come se cercasse l’ispirazione, guardò l’orologio quasi temesse di non avere il tempo di un racconto: “la vita te la costruisci, come si fa con una barca, asse per asse, chiodo per chiodo. E non pensi a quali tempeste dovrai affrontare. Poi le tempeste arrivano, a volte sono veri e propri uragani, e tu ti trovi con la barca squarciata in mare aperto, nella necessità di ripararla per non naufragare e morire. A volte riesci, a volte una barca o una nave di passaggio ti salvano, a volte muori.”

Si fermò a scrutarmi. Alzò la mano destra come nel gesto di una carezza sulla guancia. Sapeva di non poterlo fare, c’erano molti intorno a noi, agli altri tavoli, ma volle mimare quel gesto ed io credetti di svenire. Mi stavo convincendo che quell’uomo avesse qualità soprannaturali, perché io sentivo la sua mano sfiorarmi. L’intensità di quello sguardo, pieno d’amore e desiderio avevano il potere di sconvolgermi, non avevo mai provato nulla di simile ed ecco che, alla mia venerabile età, mi accadeva questo fatto nuovo, uno scompiglio delle viscere che mi sopraffaceva, mi tormentava e mi dava una vita che non avevo mai avuto. 

Ogni tanto Paolo si guardava intorno come se cercasse una nuova ispirazione per qualcosa o come se volesse respingere un ospite sgradito.

 

Ci raccontammo le nostre esistenze per sommi capi. Si era sposato a circa trent’anni e aveva condotto assieme al padre un’azienda tessile nelle vicinanze di Lecco. Aveva quattro figli, tutti nati nei primi dieci anni di matrimonio. Poi, attraverso amici di famiglia, si era presentata l’occasione di impiantare un’industria tessile in Brasile. A quel tempo non c’era nulla di simile da quelle parti e il padre di Paolo era convinto che l’opportunità fosse da sfruttare, ma che non sarebbe stato lui ad andare, bensì il figlio: “non era affatto democratico, mio padre … ”

Quell’uomo vagava con la mente dentro un passato oscuro o che almeno a me in quel momento appariva tale. Il suo racconto lo portava a rivivere l’arrivo con la famiglia nello stato del Paranà, nel sud di quello sterminato paese, la sistemazione dell’azienda nell’interno, a più di cento chilometri da Curitiba, le difficoltà di ambientamento dei figli, i rischi che correva la merce per giungere ai porti di S. Paolo o Rio de Janeiro.

Poi aveva conosciuto Isabela, una mulatta di bellezza assoluta. Il suo racconto, pur non essendo del tutto esplicito, mi causò un moto di gelosia. Mi parlò delle sceneggiate con la moglie, che aveva capito perfettamente, delle lettere scritte da lei al suocero, suo padre, delle minacce subite.

Si fermò, sembrava che il racconto gli stesse facendo davvero rivivere le esperienze di allora e improvvisamente, in modo del tutto imprevisto e violento, Paolo iniziò a sudare, perse la propria lucidità, bofonchiava parole senza senso.

“Paolo, cosa succede? Posso aiutarti? Ti prego, rispondimi.”

Con fatica, tentò di rispondermi. Sembrava stesse cercando di risalire una montagna impossibile da scalare. Annaspava.

“Ti chiedo scusa, Anna. Devo uscire a prendere un po’ d’aria. Devo fare due passi. Devo … ”

Attese ancora qualche secondo per alzarsi. Si comportava come se ogni gesto gli costasse uno sforzo tremendo.

In modo risoluto dissi che avrei chiamato qualcuno, qualche inserviente, ma lui mi fulminò con lo sguardo, non mi rispose ed uscì.

Tutto era accaduto in modo tale da non dare nell’occhio. Nessuno sembrava aver fatto caso alla fuga improvvisa di Paolo. Con calma mi alzai ed uscii cercandolo nel giardino. Lo vidi rientrare nella casa da un ingresso laterale, mi misi quasi a correre e lo raggiunsi mentre richiudeva dietro le spalle la porta della propria stanza. Sapeva che ero lì, fuori dalla stanza, a un passo da lui: “la prego Anna, scenda. Tra poco sarò da lei, solo pochi minuti.”

Rimasi interdetta. Non sapevo nemmeno se fosse prudente lasciarlo in quelle condizioni. E tuttavia il tono non ammetteva repliche. Risposi solo: “la aspetto.”

Mentre tornavo in sala da pranzo pensavo al fatto che aveva ripreso a darmi del lei. Forse la confusione. O forse il fatto che il momento magico era passato e non sarebbe tornato. Poteva essere stata come un’estate da ragazzi, un tempo che non torna, che ti lascia addosso il lato bello della vita, il profumo di qualcosa che non ha particolari, un lungo respiro che non può essere descritto. 

Ma sentivo il pericolo di vivere un rimpianto. Ecco, era così che mi sentivo. Probabilmente non avrei dovuto seguirlo, avevo accelerato troppo il tentativo di aprire lo scrigno. Temevo l’insostanzialità del ricordo di una corsa nel vento che finisce in un vortice tra le nuvole e ci fa esplodere il cuore, ce lo spara in fondo all’universo, dentro un buco nero che assorbe la memoria. 

Mentre meditavo su tutto questo lui tornò, ma io me ne accorsi solo quando giunse a un metro da me e si sedette. Sembrava sereno. Biascicò qualcosa in tono di scusa, che io non compresi.

“L’importante è che tu adesso stia bene”, azzardai.

“Sì, grazie Anna”, mi rispose col suo sorriso che mi era diventato già consueto.

Quando uscimmo in giardino, dopo cena, con parole che non ricordo, gli dissi che per me la sua compagnia era qualcosa di prezioso e che sentivo in lui un calore umano difficile da descrivere.

“È un’ombra – mi disse - un’ombra che corre lungo le mura della coscienza, un’ombra cattiva, che mangia la vita, che graffia la faccia e annoda le viscere. L’ombra mi porta il ricordo del diavolo e degli scorpioni. Allora io fuggo perché non ho i rimedi del mago, l’inventore del sogno.”

Fece una lunga pausa. Sembrava voler riprendere fiato, come dopo uno sforzo fisico immane. Poi ricominciò il racconto: “avevo quarantacinque anni quando Isabela rimase incinta. Quando me lo disse mi resi conto di quanto ero stato stupido, spregiudicato. Lei sosteneva di essere immune dalle gravidanze per via di alcuni riti candomblè che le erano stati imposti da piccola. Io avevo pensato che fosse un modo per giustificare il fatto di non essere fertile e che questo dipendesse da chissà quali altri veri e reconditi motivi e non mi ero preoccupato d’altro. Lei non si fidava della propria famiglia, aveva un rapporto molto migliore con il sacerdote del suo orixà, Ogun. Ero terrorizzato dalle possibili conseguenze della mia avventatezza, mi sentivo responsabile di tutti i mali del mondo, ma la realtà era solo che mi ero lasciato andare a quella che per me era stata la storia d’amore più bella della mia vita. Per una volta avevo voluto vivere senza catene, senza luoghi comuni. Quell’incontro aveva scatenato in me la passione che avevo sempre saputo di avere dentro, ma che non avevo mai avuto modo di esprimere. Ricordo la perfezione del suo corpo, la bellezza dei nostri momenti, momenti umidi di luminosa penombra.”

Mentre parlava gli strinsi la mano di mia iniziativa. Gliela strinsi forte e quella corrente che avevo già sentito prima si manifestò con forza ancora maggiore. La luna splendeva alta e potente nel cielo su di noi, pareva poter determinare le cose, aiutare a vincere le paure o distruggere per sempre una vita. 

“Isabela mi disse che percepiva la mia debolezza e, pertanto, nessun bambino sarebbe nato. Io passavo le notti in preda agli incubi. Il diavolo mi visitava spesso ed io mi svegliavo urlando perché lui mi stringeva un sacco intorno alla testa ed io perdevo l’aria. Tutto era talmente vero in quelle notti che avrei potuto morire veramente per un’apnea prolungata. Un giorno Isabela mi disse che di lì a poco sarebbe stata da una sacerdotessa voodoo, una mambo, e tutto sarebbe finito. Quando le proposi di far nascere il bambino, che avrei provveduto a loro pur restando con mia moglie, vidi nei suoi occhi un odio nei miei confronti di cui non la credevo capace. Iniziò a dire parole incomprensibili e a fare gesti di scongiuro o non so che rituali. Secondo lei avrei dovuto andare anch’io dalla sacerdotessa e prima di lei. E così feci.”

Adesso il suo sguardo era come fisso verso l’ineluttabile. Qualcosa che conosceva bene, il corso della propria vita. Nei suoi occhi era possibile vedere con chiarezza la capacità di constatazione, quella che si ha dopo avere lottato per spegnere l’incendio di casa e, dopo la sconfitta, resti lì a guardare le macerie annerite dal fuoco.

Il fresco pungente della sera mi fece rabbrividire. Lui mi chiese se volevo rientrare. No, naturalmente.

“Ho rivissuto tante volte con la mente il giorno in cui entrai in quell’antro maledetto. La mambo Jana mi fece bere delle pozioni, intrugli mefitici che trangugiai come uno stupido perché la presenza di Isabela per me era la garanzia di tutto ciò che è buono e va bene. Caddi in una specie di catalessi che mi permetteva di sentire voci attorno a me, ma non avrei mai avuto la forza di alzarmi da dove ero sdraiato. Poi ricordo un sonno più profondo e quando mi svegliai avevo le braccia e le gambe piene di buchi che dovevano essere stati praticati da grandi aghi o da insetti terribili. La strega formulava parole per me totalmente prive di senso e scoprii che ero sudato come se avessi trascorso le ultime ore nel posto più umido e infernale del mondo.”

“Mi ripresi molto lentamente. La testa mi girava e dovetti fare diversi tentativi prima di potermi mettere in piedi. Ma il mio calvario era solo all’inizio.”

Paolo mi guardava come fa una persona che sente la paura di andare avanti, di raccontare qualcosa di troppo importante, devastante. Faticava a fidarsi, a gettare i propri sentimenti da una cascata e pensare di affrontare le rapide del fiume assieme a qualcun altro. Era un uomo pieno di coraggio, non si sarebbe mai arreso, mai, nemmeno in fondo alla vita, alla svolta dell’ultimo angolo. Ci sono persone che hanno il privilegio di sapere esattamente come si spende la vita e non ne buttano via neanche una goccia. 

Alla fine decise di raccontarmi tra le lacrime di come da allora non era stato più lo stesso. Un malessere oscuro, misterioso, gli distrusse la vita. Era sempre debole, spesso sudava senza motivo con tremori che lo squassavano e lo lasciavano senza forze. Le proprie energie nervose erano diventate un boomerang, una grande forza compressa e privata della propria possibilità di espressione. Isabela aveva abortito senza che lui potesse fare nulla. Non aveva mai potuto inserirsi nella decisione e, d’altronde, non aveva avuto il coraggio di affrontare apertamente la moglie. Poi Isabela era sparita, non era riuscito a sapere più nulla di lei. L’aveva cercata, ma gli ambienti che lei frequentava erano adesso diventati pericolosi per una persona sgradita. La moglie, per parte sua, era venuta, senza che lui sapesse come, a conoscenza di ogni dettaglio della vicenda e non voleva saperne di chiarire, di risolvere in qualche modo. Non avrebbe mai collaborato alla ricostruzione di una vita che potesse avere un senso, era decisa a tenerlo legato facendolo morire giorno per giorno in espiazione delle proprie colpe. Solo che così aveva condannato anche se stessa. Paolo aveva scoperto come la moglie fosse una donna da poco, non per come lo trattava, ma per come si trattava, come se la propria stessa vita non valesse comunque niente. Lei non aveva altre relazioni, altri interessi. Aveva semplicemente stabilito che la vita era finita in anticipo, avrebbe accudito i figli e avrebbero tutti saputo che razza di uomo aveva sposato, quale vittima era. La malattia del marito avrebbe finito per rendere ancora più facile il tutto. Era chiaro infatti che i sintomi di cui soffriva e che gli rendevano impossibile anche una normale vita sociale andavano ascritti a conseguenze di chissà quale malattia venerea contratta nel corso di torbide relazioni clandestine. Gli attacchi nervosi di cui Paolo aveva iniziato a soffrire peggiorarono costantemente, si sentiva come uno a cui qualcuno che lui non conosceva poteva fare qualunque cosa a proprio piacimento, in qualunque momento. Erano crisi terribili, durante le quali lui perdeva la propria identità, soffriva a livello cardiaco, circolatorio e respiratorio. Era una malattia che lo gonfiava e che gli riduceva i nervi a pezzi. Lui non voleva mollare, ma il padre, che era ancora il vero deus ex machina dell’azienda, decise di avvicendarlo col fratello minore.

Tornarono in Italia, ma le sue condizioni di salute non migliorarono affatto. Nascondendo la faccia tra le mani mi confessò che non aveva mai più avuto alcun tipo di relazione sessuale con la moglie, erano rimasti estranei sotto lo stesso tetto per diversi anni. Aveva vissuto molte volte rapporti sessuali a pagamento, non voleva più fare lo sforzo della conquista, della ricerca di una bellezza che a lui era stata negata ormai per sempre. Ogni volta che le ombre della notte si allungavano sulla sua anima, Paolo invocava la morte, la libertà finale.

Giunto all’età di cinquantacinque anni, con i figli già grandi, decise che era l’ora di soffrire in solitudine e si separò da una donna che forse un tempo lo aveva amato, ma che aveva smesso troppo facilmente di volare verso la luna, di immergersi tra i coralli colorati della fantasia. La solitudine era assassina. Uccideva ogni strada che il corpo cercava di compiere. Non spiegava mai quale fosse il possibile destino. 

Paolo era molto stanco di raccontare, ma stavolta nessuna ansia lo stava assalendo, nessun incubo lo rincorreva. Capivo quale sforzo avesse fatto il mio amico per raccontarmi tutte quelle cose, ma sapevo che c’era qualcosa ancora in attesa di spiegazione, qualcosa che doveva avere a che fare con il Mago della Luce e Signore del Tempo.

Non feci in tempo a chiedergli se avesse mai trovato un rimedio ai suoi mali perché lui voleva continuare il racconto.

“Frequentavo amici quando potevo. Lo sport era la mia unica ancora di salvezza. Un amico che giocava con me a tennis era tra i pochi a cui avevo raccontato la mia condizione miserabile. Voleva aiutarmi. Mi parlò un giorno di persone che aveva conosciuto per lavoro e che praticavano i riti del candomblè in Italia, molto vicino a noi. Mi disse di essere venuto a conoscenza dell’esistenza di sette esoteriche che sperimentavano il voodoo o anche un tipo di macumba di origine brasiliana. Usavano feticci che raffiguravano idoli simili ai nostri santi o che a quelli in qualche modo si riferivano ed io pensai immediatamente che dovevano essere gli orixà. Ognuno di essi forniva un rimedio ai mali della vita. Io mi riempii di speranza, sembrava che la notte senza fine potesse avere un epilogo, comunque fosse. Avrei smesso di sentirmi appeso alla corda di un patibolo che mi impediva di morire.”

“Il mio amico mi accompagnò in un luogo di campagna nelle vicinanze di Milano. Era intimorito perché le ultime informazioni le aveva avute da persone poco raccomandabili che non mi volle mai nominare. Gli dissi che avrei potuto benissimo andare da solo, ma lui rispose che non sarebbe stato a casa in un momento del genere e che, se c’era qualcosa da temere, lo avremmo temuto assieme. Invece Fernando, il sacerdote dei riti candomblè dell’area lombardia occidentale non sembrò affatto una persona pericolosa. Due ragazze all’ingresso del casolare avevano preteso cinquecentomila lire, il movimento aveva bisogno di sostegno concreto. Avrei pagato molto di più pur di trovare i cartelli che mi indicassero la via per uscire dall’inferno, l’inferno di un attimo, rosso e nero come il diavolo, a cui mi riportava il ricordo delle insegne di quell’antro brasiliano, sataniche, mefistofeliche.”

“Parlai a Fernando della pioggia di sangue del tempo, di come le stelle erano cadute. Perché l’inferno, solo l’inferno poteva attendermi dopo quello che la mia vigliaccheria aveva causato. Una vita non sarebbe esistita. Mai. Mai più. Molte volte mi ero chiesto se sarebbe stato maschio o femmina … “

In quel momento ricordo che Paolo, per il grande dolore, si contrasse in una smorfia e non potè tenere a freno una lacrima, una piccola sentinella dell’oceano di dolore che possiamo custodire dentro l’anima. Senza ritegno volle esprimere il grande amore tradito dalla sua stessa viltà. E a poco serviva pensare che il destino di quella vita era forse già stato deciso da qualcun altro. Lui non aveva saputo fare nulla. La sua ipocrisia, il lato scontato e miserevole della sua anima avevano avuto la meglio. La sofferenza sembrava inconsolabile, senza speranza, era un dolore profondo dell’anima. 

Gli tenevo la testa in grembo, tra le braccia. Avevo già deciso, allora, che, anche se l’amore è poliedrico e poliforme, le sue facce ci riportano di fronte ad uno specchio finale, il nostro, quello in cui noi stessi vediamo il paradiso che vogliamo. L’amore che provavo per quell’uomo buono era per me la medicina migliore che avessi mai più preso da anni, forse da sempre.

Lui si riscosse e riprese il racconto: “Fernando mi ascoltava con attenzione. Sembrava una persona molto serena. Volle conoscere ogni particolare che io ricordassi di ciò che accadde quando andai dalla mambo Jana. Alla fine mi disse che mi era stata praticata una magia di confine, di cui lui non conosceva l’essenza, ma avrebbe potuto scoprirla. Si diceva di confine perché comprendeva rituali del candomblè ma anche del voodoo, difatti le mambo sono sacerdotesse voodoo ed hanno poteri magici molto più grandi delle filhas de santo, che sono le sacerdotesse delle danze di negri e dei riti brasiliani derivati dalle tradizioni africane Yoruma. Mi spiegò che l’axè, l’energia universale che fluisce in tutte le cose, era stata corrotta dentro di me al fine di squilibrare la mia vita e ci era riuscita perfettamente. Fernando ci offrì una specie di tè che non faceva affatto schifo, come avevo temuto. Ci disse che doveva studiare il problema e ci mandò ad assistere ad una danza rituale che stava per iniziare al piano superiore del casolare, per ingannare l’attesa. Ricordo che la danza era coloratissima ed inebriante come non ne ho mai più viste, ma non potemmo finire di assistervi. Fernando ci interruppe e ci disse che aveva trovato delle possibili soluzioni, ma saremmo dovuti tornare una seconda volta. Ricordo che mi guardò e, vedendo la mia faccia perplessa disse: non preoccuparti, non dovrai pagare di nuovo.”

“Tornammo dopo una settimana, come lui ci aveva detto. Quel giorno Fernando aprì un cofanetto di legno di cedro che è quello che ancora possiedo. Lì c’erano le risposte possibili al mio male. Mi spiegò che il maleficio di Ogun era impuro perché il rito voodoo che era stato imposto ai liquidi iniettati nel mio corpo aveva causato un’aberrazione universale nei miei centri energetici. Ma il fatto che io potevo considerarmi figlio di Eshu mi avrebbe permesso di ricacciare nel gelido fiume le ombre di Ogun.”

“So che è difficile credere a questo, ma ogni volta che sto male io devo disporre davanti a me le ventuno conchiglie, un bicchiere d’acqua e una candela che accendo solo in quel momento. Poi stringo nella mano sinistra la statuetta che rappresenta Eshu vestito di rosso e di nero e dopo pochi minuti il male svanisce.”

Riprese a guardarmi con quel sorriso fanciullesco e insinuante che mi piaceva tanto: “Fernando mi aveva spiegato che sulla mia statuetta aveva voluto disegnare dei simboli importantissimi, quelli che possono determinare la trasformazione dell’orixà nel Dio che apre la barriera, secondo la tradizione voodoo. L’effetto di queste sedute che io posso fare con i miei oggetti può essere così forte da proteggermi per più giorni. Quando subisco un attacco e sono sotto l’effetto protettivo, la mia anima si stacca dal corpo e mi guarda mentre divento un altro o, semplicemente, mi annullo. In quei momenti vengo guidato dal Mago della Luce o Signore del Tempo che mi porta a vedere l’universo attraverso viaggi bellissimi, ma non ho bisogno di correre verso i miei oggetti per ripetere il rito.”

Ecco. Una vita che non si può inventare mi era stata appena raccontata. Quell’uomo sognante e così bello aveva avuto fiducia in me. Ora la notte incombeva su di noi, il tempo era sparito tra le nostre mani come accade ogni volta che facciamo qualcosa di imprescindibile, di avvincente. L’urgenza di crescere ci aveva trascinati. Un’inserviente di cui non ricordo il nome era venuta in giardino alla nostra ricerca. Io le feci cenno che saremmo rientrati di lì a poco. Sapevo che ci avrebbe aspettati per chiudere le porte con le enormi vetrate che davano l’accesso principale al giardino. Paolo mi guardò: “così non saremmo in galera, eh?” 

 

Quella notte non dormii. Il gusto di sognare ad occhi aperti non mi dava pace. Provai a leggere per la trentesima volta I viaggi di Gulliver, mi piaceva molto il suo mondo incantato, quello dove comandano i cavalli, mi piaceva interpretarlo, osservare le metafore del suo tempo e pensare a come oggi siano diventate ancora più assordanti. Spaccano i timpani. Ma Swift, poveraccio, non riusciva a entrarmi in testa.

Quella notte ogni analisi sociologica cedeva il passo all’amore. Brividi mi percorrevano come se il mio stesso sangue entrasse in circolo per la prima volta. Ero confusa. Avrei voluto Paolo con me, non so bene per fare cosa. Accarezzarlo, immagino. Coccolarlo, tenergli la testa sulle gambe e parlargli anch’io di me, della mia vita. Meno interessante, certo, ma non priva di spunti. Sarebbe stata una storia che poteva aiutarlo a capire come mai io adesso lo desiderassi così tanto. Ma lui già sapeva, conosceva le ombre della notte, intuiva i baci della luna prima ancora che lei li scoccasse, poteva stare in sella ai puledri selvaggi della fantasia, quella che allontana la morte, che la saluta con mano sicura. 

Lo avrei aiutato, questo era deciso. Ma come? Aiutare una persona richiede la grande capacità di sapere come fare, come conoscere davvero un altro essere, profondamente diverso da te, e restare te stessa. Lo sforzo che dovevo fare era quello di entrare nel suo mondo in punta di piedi, sapendo esattamente chi ero io, cos’era stata la mia vita, avrei potuto girovagare per sentieri dell’anima impervi e sconosciuti senza paura di perdermi. Con gli occhi dell’infanzia avrei osservato, con la bocca dei vent’anni avrei baciato, con le mani della vita avrei abbracciato, stretto forte, soffocato il male. Ma tutto questo alla mia età? Era possibile? Avrei saputo vincere in modo totale o sarei sprofondata nell’effimera melassa di un istante? 

 

Nei giorni seguenti ci comportammo come due innamorati adolescenti. Godevamo della comprensione di tutti e della ammirazione complice di qualcuno. Essendo perfettamente in grado di badare a noi stessi ci muovevamo all’interno della Casa e nel grande giardino con totale autonomia. Una volta Paolo ottenne di farci accompagnare in paese da un’inserviente, dietro lauta mancia. Era iniziato il mese di novembre e i gabbiani continuavano a volare su di noi, sulle giornate uggiose, sulle letture, su un bacio rubato. Paolo giocava a scacchi, a biliardo, persino a risiko. Sosteneva che la vita stessa è un gioco e che, comunque, il gioco è indispensabile, da olio al cervello. 

Avevamo una vista sul mare sempre aperta per noi, per la nostra anima che guardava barche colorate. Vedevamo dei gozzi da pesca, non quelle barche di lusso che mi confondono. Li vedevamo baluginare sul mare, nel sole lontano e ripensavamo all’infanzia con dolcezza. Gli raccontai di quel giorno in cui ero andata a pesca con mio padre e con il suo amico Pepen, quello che aveva la barca più grande del paese con un enorme motore entrobordo. Ricordo il colore azzurro con le strisce gialla e rossa della barca e la luce dell’acqua.

In quei giorni capivo quanto ero importante per lui. Gli stavo dando la serenità, la forza che non aveva mai più avuto, quella di chi sa di essere amato veramente, con la verità che annulla per sempre l’egoismo. Lui mi ricambiava con la forza e la passione che doveva avere sempre avuto dentro e che io non avevo mai vissuto. Mi sentivo felice come una bambina. O come a vent’anni.

Ogni tanto gli capitava di entrare in crisi, ma non sembravano essere scompensi devastanti come quello cui avevo assistito la prima volta. In ogni caso lui trovava una scusa per chiudersi nella propria stanza e dopo dieci minuti tornava in circolazione come niente fosse. 

Fino alla sera in cui ci trovammo da soli nella sua stanza e lui decise di capire meglio quanto eravamo giovani. È strano per me non riuscire a trovare il modo di spiegarvi l’emozione che provavo. Proverò a dirvi che per me l’attrazione fisica era qualcosa di sconosciuto, nel senso che c’era stata nei confronti di mio marito, ma io ho ricordo solo di una piacevole abitudine. Invece adesso, nel modo di guardarmi di Paolo c’era qualcosa di diverso ed io non capivo come facesse a trovarmi interessante quanto i suoi occhi dicevano. Lui riusciva a far sentire speciale una donna della mia età e riusciva a non farmi pensare al passato, come una boccata d’aria dopo una notte senza fine, come se io fossi stata veramente la più bella, la più bella del mondo. Voi capirete che sentirsi dire così possa fare impressione a una donna della mia condizione, ma lui non mi diede il tempo di rifletterci troppo e iniziò a baciarmi in un modo che a pensarci divento rossa anche adesso, anche se voi non potete vedermi.

Poi, davanti alle stelle che saltavano nel cielo e giocavano tra loro, lui si trasformò. L’uomo sereno e sicuro di sé scomparve alla velocità della luce. Il male gli era rientrato nell’anima e lo stava possedendo. Tutte le volte che il suo cuore liberava l’energia dell’amore, quel male oscuro tornava a colpirlo, gli ricordava un vecchio debito contratto da tempo ed ormai incancellabile. Io vidi il crescere dell’apnea e non sapevo cosa fare. Sembrava una crisi particolarmente violenta, Paolo teneva le mai al collo come se qualcuno volesse strozzarlo e lui si stesse difendendo. Io non sapevo se cercare di disporre i suoi oggetti per il rito e non capivo nemmeno se sarebbe stato in grado di eseguirlo. Biascicava cose senza senso: “la caverna ... eccola … ti prego Signore della Luce e del Tempo, liberami, liberami.”

Decisi di tenergli la testa con le mani in attesa che si calmasse un attimo e mi desse modo di chiamare aiuto. Non sapevo cosa fare di più o di diverso. Temevo che i miei tentativi fossero puerili, ma volevo stringerlo e fargli percepire tutto l’amore di cui ero capace. Non giocavo alla crocerossina, no, lo tenevo stretto come una madre che abbraccia un piccolo ammalato, come a parlare con le braccia e con le mani e dire sono qui, sono con te e ci sarò sempre e sconfiggeremo tutto il male che può esserci, insieme. Lui roteava gli occhi, ma lo faceva con una frequenza che mi sembrava diminuire. Io pregavo sempre di più un dio sconosciuto, il Dopo che dice Ti Amo, Ti Amo cuore, braccia e occhi miei, Ti Amo. Lui ansimava, ma sempre meno. Sbatteva le gambe, ma sempre meno. Sempre meno. 

Restai per un tempo infinito in attesa di segni che mi facessero pensare alla fine della crisi. Il respiro di Paolo diveniva sempre più regolare, i suoi tremori stavano cessando. Ricordo che solo allora mi accorsi del fatto che avevo pianto durante la lotta. 

Mentre il mare accarezzava la notte e le stelle correvano nel cielo in girotondo, io sfioravo il corpo del mio amato il quale era caduto in un sonno profondo. Sereno, ristoratore, si sarebbe detto. Avrei dormito con lui, per vegliarlo, per proteggerlo. Lo spostai con fatica nella giusta posizione sul letto e gli sfilai i pantaloni e la camicia per la prima volta e spero che mi crederete se vi dico che mi sembrò ancora più bello. Mi spogliai anch’io e mi infilai nel letto con lui. Si stava stretti. Era la prima volta che capitava una cosa del genere e, comunque, sarei andata via ben prima che facesse mattina. Sorrisi al pensiero di quanto fossero ridicoli i miei timori. Non volevo che nessuno si accorgesse del fatto che mi ero fermata lì, ma se qualcuno se ne fosse accorto, quale sarebbe stata la mia punizione? Chi poteva punirmi, e per cosa, esattamente? E come? In cosa poteva consistere la punizione? C’è chi è talmente abituato alle catene da non ricordare nemmeno di non averle più perché il tempo le ha sciolte.

Feci molta fatica ad addormentarmi. Le immagini di maghi e diavoli misteriosi si accavallavano nella mia mente. Paolo si rigirava molto spesso, ma io riuscivo ad adattare la mia posizione. mi stupiva la grande quantità di capelli che aveva, nonostante tutto, era stempiato molto in alto, ma dietro era totalmente coperto e con distribuzione assolutamente equilibrata. Sembrava sorridesse nel sonno, evidentemente sognava qualcosa di piacevole. Le mie carezze non lo disturbavano e ad un certo punto mi resi conto che si stava verificando quel fenomeno che, in senso tecnico, definiamo erezione e che denotava come lui fosse assolutamente a proprio agio, immerso in visioni eccitanti. Non potevo resistere e cominciai a toccarlo ripetutamente, lo sfioravo, ero titubante, poi sempre più vogliosa, da una parte temevo di svegliarlo e dall’altra intendevo godermi questo segreto del tutto personale il più a lungo possibile. Poi lui aprì gli occhi. Mi guardò senza dire una parola.

Passammo momenti di autentica estasi ed io ero sempre più stupita, sia per il fatto di riuscire a provare certe sensazioni ormai dimenticate, sia perché, a meno che la memoria non mi tradisse, mi sembrava tutto molto meglio di come lo ricordavo.

Quando tutto fu finito Paolo mi tenne ancora stretta tra le sue grandi braccia. Ero felice. Come una bambina, come una ragazzina, come una donna amata, protetta, utile.

“Anna, mi è entrata la luna nel cuore, ha portato un sentimento e una pace senza fine. Ha riportato la voglia di vivere, per un giorno o ciò che sarà. Non ho mai vegetato, credimi. Ho sempre vissuto. Combattendo, soffrendo, ma non ho mai rinunciato a vivere. Tu ....”

Poi si mise a piangere a dirotto. Anche se in quel momento nessuno dei due poteva rendersene conto, l’oceano del male stava subendo la sua sconfitta definitiva.

 

La mattina ci ritrovammo a colazione. Mi sentivo raggiante e ricapitolai mentalmente tutti i momenti della serata precedente. Vedevo negli occhi di Paolo una luce nuova, che lo rendeva ancora più affascinante. Gli dissi che tra le sue braccia non mi mancava più nulla e che la vita ha sempre un senso, sia se cerchiamo, sia quando troviamo.

Mi chiese se fossi mai stata in Polinesia, risposi di no: “in Polinesia ci sono molti atolli, spesso si tratta di isole rotonde, come un abbraccio. Quando ti abbraccio, quando sento il tuo respiro su di me, mi sento su un atollo, il nostro atollo lontano dalle cose sbagliate di questo mondo, la nostra isola dove nessuno può farci del male.”

 

Nei giorni successivi ci rendemmo conto che Paolo era improvvisamente e completamente guarito dal male oscuro che lo aveva perseguitato per tanto tempo. Progettammo di andare a Venezia, Vienna, Parigi. E forse anche su un atollo, perché no? 

Durante quell’inverno facemmo l’amore tante volte, quante non credevo avrei più potuto. Facevamo le nostre passeggiate sotto controllo. Il nostro alito si spostava col vento verso mondi nuovi, le nostre parole d’amore avrebbero contagiato altra gente, chissà dove. Poi le rondini anticiparono farfalle coloratissime e le nostre stupende gite sul Beigua. Ricordo tanti momenti felici e il suo sorriso radioso all’uscita da una trattoria o davanti ai panorami che conquistavamo con le nostre scalate. Andammo a Venezia intorno alla fine del mese di maggio e ricordo bene che, quando il figlio di Paolo gli chiese se per caso era ammattito, lui lo guardò fisso negli occhi e gli rispose: “se tu osservassi attentamente la tua vita, i tuoi soldi, l’educazione dei tuoi figli, quella della tua segretaria e quella della tua amante, perderesti il coraggio di parlare di pazzia.” 

Il vero amore non richiede legami a nessuna età, ma credo che la cosa fosse particolarmente evidente nel nostro caso. Il Natale successivo vennero a trovarci congiuntamente le nostre famiglie e Paolo ritenne opportuno dichiarare che ci saremmo sposati entro un paio di mesi. Vi dirò solo che sua nuora svenne mentre la mia, che era già ubriaca, si limitò a guardare mio figlio con l’aria di una che vorrebbe dire davanti a tutti: o risolvi la questione o non la vedi più neanche in fotografia.

Insomma, ci divertivamo.

Quasi un altro intero anno è passato. Non siamo riusciti, in realtà, ad andare in alcun atollo polinesiano, ma non abbiamo mai perso il nostro.

I nostri progetti si sono interrotti qualche tempo fa, quando Paolo si è ammalato in modo irrimediabile. Se vi dicessi i mesi di dolcezza indicibile e infinita che abbiamo trascorso assieme, pur in quella non felice condizione, fareste stavolta davvero fatica a crederlo. Ogni carezza, ogni riaprirsi di una palpebra ha potuto svelare un nuovo universo. Ogni bacio, ogni risata strappata al tempo sono volati via sul mare, accompagnati dalla nostra tramontana, sono andati in visita allo spazio eterno, senza fine. Ogni profumo in più, raccolto con mani tremanti, è rimasto nell’anima.

 

 Ed eccola lì, la luna.


 




La nostra vecchia amica, che guardiamo da millenni con desiderio, con i sogni che facevamo da bambini, con l’amore struggente dei vent’anni.




Vi sarà capitato, magari d’estate, durante una sera di fuochi di quelli che si fanno da ragazzi, di allontanarvi dal gruppo, appartarvi con la fidanzata, il fidanzato, un amico ... meglio da soli. E iniziare a guardarla, così luminosa, bella. Ci potete fare un cerchio con le braccia e stringendo verso il basso le punte delle mani disegnare un cuore per vedere com’è da dentro il cuore ... dentro il cuore.




Dicono che ci siano già stati degli esseri umani sulla luna. A me sembra lontana.




Dicono che un giorno andremo in altre galassie e, comunque, ci sono nostre apparecchiature (degli umani intendo) che già vanno al limite del sistema solare. 




Sarà. A me sembra tanto lontana.




 




Gli occhi degli antichi greci erano i più belli del mondo. Scuri, profondi, luminosi.




La Luna è di origine greca. E i suoi occhi sono così. Sono scuri, profondi e luminosi. Ti dice che se porterai l’amore con te, vivrai la vita più bella che ci possa essere. In ogni caso.









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