Premessa
Spesso, dopo avere rappresentato lo spettacolo “Cenere, racconti partigiani in attesa di un aprile”, accadono cose meravigliose.
Tante persone si avvicinano, ti abbracciano, ti fanno sentire il loro affetto.
Molti ci dicono “grazie”, ed è una sensazione meravigliosa che ripaga i tanti sacrifici fatti.
C’è sempre qualcuno che vuole, in qualche modo, prolungare lo spettacolo, dandoti suggerimenti, chiedendoti spiegazioni su alcuni particolari delle vicende narrate o raccontandoti un episodio riguardante un parente, un conoscente, che ha vissuto quel periodo.
Dopo un paio d’anni, con gli episodi ascoltati, potremmo scrivere una mezza dozzina di spettacoli e chissà che un giorno non lo si faccia.
Nelle vicende che vengono raccontate, spesso compaiono donne, erroneamente considerate figure di secondo piano.
Abbiamo avuto la fortuna di conoscere alcune partigiane che ci hanno raccontato vicende vissute da loro in prima persona.
Nonostante i ricordi riguardino fatti accaduti settanta anni prima, lo hanno fatto sovente con gli occhi lucidi, riuscendo a trasmettere un’emozione fortissima.
Una di queste meravigliose “ragazze”, Nina, si rammaricava di non riuscire a trasferire le sensazioni e le emozioni che aveva provato in quei momenti.
Non è così, naturalmente.
I suoi racconti, proprio perché vissuti in prima persona, sono straordinariamente avvincenti, ma lei non ne era convinta.
L’espressione del suo volto ci aveva fatto capire che ciò la faceva soffrire.
Da lì a decidere di provare a farlo noi, il passo è breve.
Leggendo, studiando, cercando vicende riguardanti le donne, scopri che il cosiddetto “sesso debole” non è per nulla debole, anzi.
La storia è fatta da uomini solo in apparenza. Le donne non hanno avuto solo ruoli di secondo piano o di assistenza, sono sempre state protagoniste, come e più degli uomini.
Abbiamo così cercato di individuare storie apparentemente molto distanti tra loro, ma che hanno in comune il coraggio e la determinazione, caratteristiche che appartengono soprattutto al genere femminile.
Donne e bambini sono considerati, da sempre, la parte debole dell’umanità. Per sfatare questa convinzione diffusa abbiamo inserito in questo libro, che è il testo dello spettacolo omonimo, anche la storia di un ragazzino, divenuto il simbolo della lotta contro il lavoro minorile.
Speriamo che questo nostro lavoro aiuti a comprendere che il coraggio, l’altruismo e la grandezza d’animo sono virtù che appartengono a tutti quelli che vogliono fortemente coltivarle e perseguirle, senza distinzioni di età o di sesso.
Marco Rinaldi e Lazzaro Calcagno.
Prefazione
Marco Rinaldi e Lazzaro Calcagno, confermano la loro sensibilità e la loro bravura.
Dopo “Cenere” ora è nato “Mimose”, e, naturalmente, ti prende. Lo leggi tutto di un fiato, ti scorre via, in alcuni passaggi ti strazia nella commozione.
In particolare ho riletto più di una volta il racconto su Felicita Noli “Alice”, forse perché quel crocefisso, stretto da Lei tra i denti, l’ho visto quando ho partecipato all’inaugurazione della mostra su “Alice” nei locali del comune di Campomorone.
Vedere il segno degli incisivi mi ha fatto pensare a quanta crudeltà c’era nell’averla fucilata da sola: non poteva avere vicino nessuno, non poteva dare la mano a nessuno. Era sola e vedeva i suoi compagni di sventura, trucidati prima di lei, uno vicino all’altro che avevano provato a farsi coraggio dandosi la mano.
Questo libro però ha una particolarità, rilevata anche da Marco e da Lazzaro, mette in risalto il protagonismo delle donne. Un aspetto della storia, nazionale ed estera, che non sempre ha avuto il giusto rilievo, anzi sarebbe meglio dire che, in certe fasi, si è messo in secondo piano quanto le donne hanno fatto. La realtà della storia ci dice invece che le donne sono pari agli uomini nella lotta e nel sacrificio. La storia del nostro Paese ci dice che affrontano con grande fermezza, e molte volte, oltre alla tortura e alla violenza che tutti i partigiani provano sulla loro carne, subiscono oltraggi ben più gravi, proprio perché donne.
La storia del nostro Paese, ma non solo, dà torto anche a chi pensa che possano esserci dei periodi di grande travaglio, nei quali non emerga “la questione femminile”, come si chiamava allora e d’altro canto ha ugualmente torto chi pensa si possa realizzare un movimento reale e vasto per l’emancipazione della donna indipendentemente dai processi generali dello sviluppo della democrazia e della lotta per il progresso.
L’impegno femminile durante la guerra di Liberazione si orientò verso due direzioni: l’una dettata dalla necessità, fu quella di resistere e di dare assistenza ai partigiani, attraverso diverse attività materiali, dalla cura dei feriti, al trasporto delle armi, munizioni, cibo, anche nelle zone più impervie, nei nascondigli dei partigiani, in mezzo ai monti o nelle strutture logistiche clandestine in città.
L’altra direzione dell’impegno femminile è stata quella politica, perché in quella lotta trattano temi sociali, portando avanti rivendicazioni femminili e di emancipazione.
Le donne, in quella lotta, vedono la premessa della realizzazione di una società più giusta, in cui sia garantita l’assoluta parità con l’uomo.
Un tipo di esperienze, di valori e di sentimenti, che hanno attraversato i continenti, travalicato le generazioni e gli strati sociali, ma sono sempre lì a dire con chiarezza che non c’è vera democrazia se quei valori non sono al centro dei pensieri di chi governa e dei cittadini di questa o di quella nazione.
Contro il revisionismo occorre la difesa della memoria, certo, ma in questo caso bisogna rivalutare la storia, andare, fin che siamo in tempo, alla sua riscoperta. Quante storie, quanti fatti ancora da conoscere e con “Mimose” si va nella direzione giusta.
Con la fine della guerra le donne hanno intensificato il loro impegno. Esse hanno conquistato sul campo il diritto al voto (20.000 consiglieri comunali nel ‘46 e ventidue parlamentari elette alla Costituente). Alcuni non capirono subito la portata storica di quella conquista, ma le donne hanno rivelato a pieno il loro spirito nelle battaglie per la Costituente e per la Repubblica, nelle lotte per la vita e per la difesa delle Istituzioni.
Nell’attuale fase delicata del nostro Paese serve una nuova avanzata della democrazia.
C’è il problema dell’eguaglianza dei diritti in ogni campo della vita politica e sociale. Le donne hanno ripreso a parlare al Paese su temi che sembravano aboliti dall’agenda politica, come libertà, diritti civili, la difesa della loro specificità.
Si fanno sentire, giustamente, perché c’è un tentativo di colpevolizzarle, di aggredirle, di rimetterle sotto tutela e ci pare che si sia superato il segno. Troppi parlano di loro, delle loro libertà come oggetti di mediazione senza sentire le loro opinioni. L’emergere di aspetti conservatori, anche reazionari, della vita politica in Italia, sono una minaccia per tutti, anche e soprattutto per le donne.
Oggi come allora riusciremo a superare in avanti questo momento se le donne saranno in prima fila con il bagaglio delle loro esperienze e delle loro peculiarità.
Nel ricordare le donne che riuscirono nel passato, come tante nel presente, a fare cose straordinarie, dobbiamo avere la consapevolezza che le loro coetanee di oggi sono una parte fondamentale per la difesa della democrazia e il rilancio della vita civile.
Massimo Bisca
presidente provinciale A.N.P.I. Genova
Nota degli autori
I racconti di “Mimose” che vi accingete a leggere sono, in pratica, la trascrizione del testo dello spettacolo teatrale omonimo.
Troverete spesso frasi molto brevi, quasi telegrafiche.
Sul palcoscenico l’efficacia di un racconto dipende anche da questo tipo di linguaggio.
L’impostazione è quella di una narrazione per il teatro, pertanto vi chiediamo di non leggere “Mimose” come un romanzo, piuttosto come un articolo di cronaca.
Immaginatevi nella situazione giusta.
Una comoda poltrona di un teatro, i riflettori che si accendono e illuminano il palcoscenico e il narratore che inizia a raccontare e farvi vivere le storie.
Cercate di leggere lentamente e siamo sicuri, o meglio ci auguriamo, che troverete piacevole questo testo.
I sette racconti contenuti sono frutto di un lavoro di ricerca e selezione e sono stati scelti tra oltre cinquanta analizzati.
Crediamo che possano essere interessanti e che possano essere un punto di partenza per chi avesse voglia di approfondire gli argomenti trattati.
Per tutte le violenze consumate su di Lei,
per tutte le umiliazioni che ha subito,
per il suo corpo che avete sfruttato,
per la sua intelligenza che avete calpestato,
per l’ignoranza in cui l’avete lasciata,
per la libertà che le avete negato,
per la bocca che le avete tappato,
per le ali che le avete tagliato,
per tutto questo:
in piedi, Signori, davanti ad una Donna.
William Shakespeare
Treni che vanno, treni che vengono.
La stazione ferroviaria è questo, nient’altro che questo.
Un crocevia di anime che si sfiorano, ma non si incontrano mai.
Volti e sguardi, sguardi e volti.
Attese.
Attese spasmodiche, come quelle di Maria, di Enrica, di Giuseppina … volti che in ogni ruga portano una storia, una storia che appartiene solamente a loro.
E aspettano.
Da sole.
Anche Gina è lì sul marciapiede del binario, con il carico dei suoi ricordi.
Tutte le sere alle cinque Gina è lì, e aspetta.
C’è chi aspetta un padre, chi un marito, chi un figlio.
Lei aspetta suo fratello.
Un fratello è qualcosa di più di un semplice parente, perché un fratello è, per forza di cose, parte di te.
Un fratello non si sceglie, un fratello c’è, punto.
Ogni volta che sente quel fischio sordo che spezza l’aria, lei, come tutti, ha un sussulto.
Ogni volta che arriva il treno delle cinque Gina è lì.
Lo stridio dei freni, la locomotiva che ansima, le porte si aprono rumorosamente e il cuore batte all’impazzata.
Anime sottili che scendono, volti simili, tutti uguali.
Gina si fa coraggio e va loro incontro.
Mostra una vecchia fotografia di Diego a quegli occhi stanchi.
Chi ha la forza di rispondere scuote la testa.
È impossibile riconoscere qualcuno da una fotografia.
Nei campi tutti avevano la stessa faccia, perché in quei campi, si diventa tutti uguali.
E sono pochi quelli che tornano dai campi di sterminio, ma Gina tutti i giorni alle cinque, aspetta.
Le donne sanno aspettare, non si rassegnano, le donne si ribellano e combattono.
Le donne sanno tenere viva la speranza.
Il canto di Alice
Campomorone è un paese nell’immediato entroterra di Genova dove l’appennino sembra volersi tuffare in mare, ma il mare è ancora distante anche se sembra lì a due passi.
Campomorone, dal termine “morone”, sinonimo di gelso, che da quelle parti, cresce spontaneamente e in abbondanza.
A Campomorone, nel 1906 nasce Alice.
A 16 anni inizia a lavorare in un’azienda del paese più a valle, Pontedecimo.
Tra le vie di Camporone risuona spesso una voce melodiosa, sono le canzoni del periodo e la voce è quella di Alice.
Ogni volta che un grande cantante arriva a Genova lei fa di tutto per andare ad ascoltarlo e applaudirlo.
Alla fine del concerto aspetta gli artisti per chiedere loro una cartolina autografata con dedica e quando rientra a casa canta le arie ascoltate poco prima.
La sua voce è limpida, soave, dolce.
Il suo carattere è forte, deciso, risoluto.
Alice è una ragazza di quei tempi, ma è anche una di quelle persone che non riescono a digerire le ingiustizie, e nel ventennio fascista di ingiustizie ne ha già viste tante.
A Bolzaneto, il 25 luglio 1943, difende e salva un repubblichino dalla rabbia di un gruppo di operai antifascisti dello stabilimento Bruzzo.
È papà di un bimbo piccolo, e la vendetta, per Alice, non può prevaricare la giustizia.
Subito dopo l’otto settembre ‘43 inizia a fare propaganda per i partigiani ai quali procura aiuti di vario genere.
Diventa attiva collaboratrice dei Gruppi di Difesa della Donna e nel gennaio del 1944 entra a fare parte della III° Brigata Liguria, in cui svolge un’attività intensissima.
Alice ha l’argento vivo addosso, e se si mette in testa di fare una cosa non ci pensa due volte.
Un giorno come tanti arriva un camion carico di soldati tedeschi. Hanno appena disarmato un gruppo di soldati italiani e li hanno imprigionati.
Li considerano traditori.
Alice, non ci pensa troppo. Sbarra la strada e a braccia aperte intima l’alt e obbliga il camion a fermarsi.
I soldati le puntano i mitra addosso, e lei, impassibile, grida al capitano:
“Mi prometta che non farà del male ai nostri soldati”.
L’ufficiale la guarda negli occhi.
Secondi interminabile, attimi di vita che non passano mai.
C’è silenzio tutto intorno, l’unico rumore è il motore del camion che gira in folle.
Il capitano tedesco ha il braccio destro alzato, fa una smorfia e poi:
“Sì, prometto”.
La guerra continua.
I rastrellamenti sono la quotidianità.
Nei pressi del ponte della ferriera i tedeschi e le brigate nere della “Silvio Parodi” hanno organizzato l’ennesimo posto di blocco. Alice ha un moto di ribellione e urla loro:
“vigliacchi!”.
La fermano, la strattonano, la fanno scendere dalla bicicletta e la portano in caserma.
Alice non ha paura.
Li sfida e ha il coraggio persino di aggiungere che le violenze che i tedeschi e le camicie nere stanno commettendo sono inutili perché ormai per loro la guerra è perduta.
Definisce vergognoso il loro agire e chiude con una frase:
“Non illudetevi, la guerra finirà presto.
Potete andarvene.”
Alice viene rilasciata, ma i fascisti se la legano al dito.
Il 7 agosto del ‘44 le brigate nere della “Ponzanelli” bussano alla porta di casa sua.
Vogliono farla parlare, vogliono sapere i nascondigli dei partigiani e questa volta, hanno intenzione di usare ogni mezzo per farle abbassare la testa.
Viene torturata per ore, picchiata selvaggiamente, ma Alice non apre bocca, non dice una parola.
Verso l’una di notte la caricano su un camion.
Lungo la strada per Isoverde, il paesino poco sopra Campomorone, improvvisamente il camion si ferma.
Alice viene fatta scendere a forza, con lei ci sono cinque giovani partigiani arrestati qualche giorno prima.
Gli uomini vengono messi in riga, Alice spinta dall’altra parte della strada.
Una raffica di mitra squarcia il silenzio della notte.
Cinque ragazzi, cinque giovani vite vengono spezzate e i corpi restano inermi sul selciato.
L’odore della polvere da sparo è ancora nell’aria quando uno dei soldati si volta:
“C’è anche la donna!”.
La spingono con violenza contro il muro.
Al buio dal poggiolo di fronte, assiste alla scena, Rosita, la sorella di Alice.
Passano pochi secondi.
Sono pochi istanti, ma sembrano durare un’eternità
Alice prende la catenina d’oro, mette il crocifisso in bocca, tra i denti.
Parte la raffica.
Alice contrae le mascelle, nell’ultimo istante di vita.
Di lei resta un crocifisso d’oro sul selciato.
Un piccolo crocifisso inciso dai suoi denti.
Una volta che conosci la storia di Alice e ti trovi a passare da Campomorone, tra quelle vie strette, tra quei palazzi che cercano la luce, non puoi fare a meno di pensarci.
Sarà la suggestione, sarà che certe storie ti entrano dentro e sembra che non vogliano più uscirne, ma quando passi da lì, se chiudi gli occhi, ti sembra quasi di sentirla cantare…
Un mese dopo l’uccisione di Agostina Felicita “Alice” Noli comincia a formarsi la prima brigata partigiana tutta femminile, la brigata combattente “Alice Noli”.
Alla fine della guerra si contano 25 donne partigiane fucilate in provincia di Genova, su 907 impegnate nella lotta di liberazione.
A Genova e in Liguria i gruppi di difesa delle donne (Gdd) svolgono un lavoro fondamentale: fanno saltare i binari della ferrovia a Sampierdarena, a Cornigliano assaltano un camion tedesco carico di cibo, a Sestri e in Valpolcevera strappano ai tedeschi i propri figli, che stanno per essere deportati in Germania.
Ad Alice viene attribuita la croce al merito di guerra ed una medaglia garibaldina.
A lei è dedicata la scuola media di Campomorone, l’asilo di Pontedecimo e una via a Genova Sampierdarena.
Il crocifisso d’oro inciso dai denti di Alice è stato esposto in una mostra a lei dedicata nel 2013 a Campomorone, il suo paese.
Un altro treno è arrivato e se n’è andato, ma la speranza non è morta, è solo rimandata, Diego arriverà domani, forse.
Alle cinque, Gina sarà di nuovo lì, in stazione.
Le stazioni sono un crocevia, spesso di passaggio, fatto di gente che arriva e di gente che va, ma a volte, sono solo la tappa di un viaggio.
Coincidenze di destini.
Quando guardi l’orizzonte quel destino sembra lì, talmente vicino da poterlo toccare.
Oltre l’orizzonte c’è una terra, una possibilità e la stazione ferroviaria diventa l’anticamera per l’accesso ad una vita nuova.
E quel treno, spesso, conduce alla fine della terra, dove comincia il mare.
Il Porto diventa lo spartiacque tra la disperazione del presente avaro e la possibilità di un futuro diverso.
Il destino è oltre quella distesa immensa, appena dopo l’orizzonte.
E allora si parte, con una valigia di cartone con dentro pochi stracci, verso la terra dei sogni, verso l’America.
Perché l’America non è solamente una terra, è il sogno che colora la speranza.
New York, Montevideo, Buenos Aires.
E allora si parte!
Si va in America.