La narrazione ci accompagna lungo il percorso del valtellinese Carlo Foppoli che negli anni centrali dell’800 sfida la sorte per inseguire intorno al mondo il suo personale sogno di vita piena e ve- ra. E se, per ogni dove, i suoi occhi non possono staccarsi dall’ipnotico brillare del metallo più raro, la mano nella ta- sca stringe il dono forte e profumato del frutteto di casa.
Il lettore, attraverso lo sguardo del me- dico patriota, rivive l’ansia di lontane mete, la meraviglia per nuovi orizzonti, la tensione ad ardite realizzazioni di chi, senza rinunciare alle proprie radici, anela a conoscere e condividere l’umano a qualsiasi latitudine.
Ma questo non è tutto. Come afferma l’autrice: La partenza non è solo dettata da una speranza concreta, materiale di vita migliore, ma salire su di una nave e partire è un gesto della persona, è qua-
si affidarsi al destino, nella speranza che questo risponda con qualcosa di buono e di grande. È forse la certezza che ovunque l’uomo vada, anche dove non ha famiglia, non ha amici, non ha parenti, c’è qualcosa che lo attende e che può dare compimento al proprio inesauribile desiderio di felicità. Questo spiega perché, nel- la storia, l’uomo nonostante la paura del mare e dell’incognito, non abbia mai ri- nunciato ad alzare le vele.
Come vorrei essere anch’io radicato così in questa terra di Lombardia. E saper col- tivare la vite ed amare queste montagne. Vorrei essere un contadino ed attendere nella mia baita le ombre della sera. Vorrei guardare un fiore di alta montagna nella mattina, un pollone di castagno che germoglia nella selva, una sorgente che sgorga dal ghiacciaio. Vorrei salire fino al casello del latte dell’alpe ed incamminarmi verso quelle cime che oggi appaiono appena imbiancate di neve, dopo il violento temporale estivo.
E quando viene l’autunno con il rastrello pulire la selva e raccogliere le castagne. Poi attendere le luci e i profumi della vendemmia. Come sei bella Valtellina. Come un grembo mi hai generato, come una madre ti ho lasciato. Come una madre non ti ho dimenticato. Così oggi mi stupisci, torni a me così umile e vera. Sento il profumo del fieno tagliato. La pioggia ti ha rinfrescato, brillano le gocce sul vetro, i vapori si dipanano scoprendo i campi smossi e i prati verdi con le erbe piegate dal temporale. Vorrei stamparti nel mio cuore e portarti con me, come la fotografia del primo amore nel portafoglio. Oggi non so chi sono, non so cosa cerco. Torno, ritorno e quasi mi hai atteso. E torno a qualcosa. E torno a qualcuno. Come può un uomo della mia età chiedersi ancora chi è. Fischia treno, fischia. La vita dell’uomo accade. Sfumano i pensieri del mio cuore tra passato e presente.
9 luglio 1910 - Leandro Foppoli rimasto ormai solo nello scompartimento abbando- na il filo dei suoi pensieri, toglie la valigia dalla reticella e si prepara a scendere alla stazione di Ponte in Valtellina. Trasferitosi all’estero a diciotto anni e residente a Londra, raramente è rientrato in paese, ma questa volta è stato richiamato in Italia con urgenza. Il padre Carlo è in fin di vita e il telegramma del dottor Rainoldi non ha lasciato adito a dubbi.
Raggiunta la stazione egli vede con piacere che ad attenderlo c’è l’amico medico, che tiene per mano il nipotino Pierino. Sistemato il bagaglio salgono sulla piccola car- rozza; la cavallina risale senza fretta la strada verso Ponte. I due uomini durante il percorso rimangono in silenzio, senza imbarazzo, ascoltando il rumore delle ruote di legno e il battere degli zoccoli sul risc. Pierino guarda curioso quell’uomo brizzolato vestito elegantemente all’inglese con il volto assorto.
Quando il calesse imbocca la ripida via Ginnasio, Leandro d’un tratto rompe il si-
lenzio e si rivolge a Pietro:
– L’hai curato tu? 17
– Sì, già da un paio di mesi non sta bene. Domenica ci siamo trovati ancora a parlare di politica. Poi negli ultimi due giorni, è peggiorato.
Leandro conosce il medico da molti anni perché Giulia Menatti, la madre di Pietro, frequentava già in gioventù la famiglia Foppoli; quando il chiurese era un ragazzo quindicenne, Leandro era un bimbetto vivace di otto anni. I due hanno avuto oc- casione di rivedersi anche da adulti, se pur raramente. Davanti a casa, scesi dalla carrozza, si fa loro incontro la sorella di Leandro, Giacometta. Dopo un intenso ab- braccio al fratello, la donna li accompagna in cucina, poi direttamente nella stanza dove l’anziano padre si è fatto sistemare con il letto vicino alla finestra. Leandro preso dall’emozione non si avvicina subito al padre.
Allora Pietro si accosta:
– Carlo... c’è Leandro.
Carlo assopito riprende vigore. Gli occhi offuscati brillano di gioia.
– C’è Leandro. Il mio Leandro.
Nella stanza il silenzio profondo è interrotto da un scoppio disperato: – Papà, papà, sono io. Sono tuo figlio! Voglio tutto papà! Ti ricordi papà? Voglio tutto! Tutto! Piange Leandro stringendosi al papà che il destino gli ha tenuto così a lungo lonta- no. Piange amaramente per quell’amore filiale incompiuto di chi non riesce o non può star vicino ai propri genitori.
Il piccolo Pierino è rimasto fuori dalla stanza, in attesa.
– Vieni via – fa la cameriera – vieni con me in cucina. Il bambino rimane incollato lì davanti a quell’uscio, spia dentro, poi spaventato, scappa nel cortile assolato e silen- zioso. Il cuore gli batte forte per aver voluto strappare quel pezzo di mondo adulto, sconosciuto che si chiama dolore, che si chiama amore.
Pierino si infila nel fienile della casa vicina quasi a cercare refrigerio a quella forte impressione e si appoggia al muro per riprendere fiato. Le mucche placide rumina- no nella stalla e attraverso il muro sente il loro lieve masticare e lo strusciare degli zoccoli sul fieno. Rimane fermo in silenzio. Dal fienile sente un movimento strano che richiama la sua attenzione. Nella penombra qualcosa appare dall’alto o meglio, qualcuno. Un bimbetto dai capelli a spazzola emerge dal fieno. È Michelino. Pierino sa, glielo ha detto il nonno, che è un bimbo gracile nel fisico e nell’intelletto, con i pensieri più semplici.
– Michelino, lo zio Carlo sta morendo!
Finalmente si confida con qualcuno e gli sembra di sentirsi un poco adulto e un po’ meno solo. Michele a quelle parole rimane confuso ed incerto, poi si raggomitola nel fieno e sommessamente si sfoga con un pianto leggero, consolatorio.
Pierino lo guarda:
– Non era tuo zio – commenta.
Michelino si asciuga le lacrime per rispondere.
– Però mi voleva bene.
Egli non può dimenticare quando l’anno prima il dottor Foppoli aveva fatto scappare a gambe levate alcuni monelli che lo stavano tormentando buttandogli la terra negli occhi. Da allora lui ed il dottore erano diventati quasi amici. Queste cose però, lo dovete ammettere, sono difficile da spiegare da parte di un bambino, così a Michelino che non sapeva fare lunghi discorsi non rimane che piangere.
Pierino sente la voce del nonno che chiama. Allora saluta l’amichetto.
– Devo andare, Michele. Se vieni a Chiuro ti faccio vedere la collezione di cartoline. – Grazie, – fa l’altro con grande consolazione – io ho tre monete di bronzo...
– Portale, così le guardiamo con la lente.
– Non so, forse dopodomani...
– Ora vado, il nonno mi aspetta.
Il dottor Pietro raggiunto il nipote si avvia in silenzio verso Chiuro. Poco dopo si sentono rintoccare le campane della chiesa. Pietro assorto china la testa.
A Ponte la voce della morte del dottor Foppoli corre veloce. Vengono avvisati i sin- daci dei comuni vicini e gli amici radicali inviano telegrammi a Roma per informare politici ed autorità. Luigi Credaro lascia le sue incombenze alla Camera dei Senatori prevedendo il viaggio in Valtellina già per il giorno successivo.
Sì, il vecchio buon dottore se ne è andato.
Carlo il medico. Il patriota. Il repubblicano.
E il consigliere provinciale.
Il frequentatore di casa Nathan. Il fautore della prima ferrovia in Valtellina. E il presidente della banda.
Carlo l’uomo che amava la sua vigna.
Carlo l’amico di Michelino.
Ma chi poteva dire di conoscere veramente il dottor Foppoli? Qualcuno era stato capace di guardarlo per davvero fino in fondo all’anima?
Pietro riflette. Nessuno ha osato leggere fin nel profondo la vita di Carlo. Forse perché lui stesso non voleva farla conoscere. O forse l’aveva dimenticata perché era diventato molto anziano. E si era dimenticato di sé come di un piccolo oggetto ripor- tato da uno dei suoi lunghi viaggi.
Questo pensa Pietro scendendo verso Chiuro. Chissà, forse verrà un giorno in cui qualcuno racconterà la sua vita...
È passato tanto tempo. È ora...
La narrazione ci accompagna lungo il percorso del valtellinese Carlo Foppoli che negli anni centrali dell’800 sfida la sorte per inseguire intorno al mondo il suo personale sogno di vita piena e ve- ra. E se, per ogni dove, i suoi occhi non possono staccarsi dall’ipnotico brillare del metallo più raro, la mano nella ta- sca stringe il dono forte e profumato del frutteto di casa.
Il lettore, attraverso lo sguardo del me- dico patriota, rivive l’ansia di lontane mete, la meraviglia per nuovi orizzonti, la tensione ad ardite realizzazioni di chi, senza rinunciare alle proprie radici, anela a conoscere e condividere l’umano a qualsiasi latitudine.
Ma questo non è tutto. Come afferma l’autrice: La partenza non è solo dettata da una speranza concreta, materiale di vita migliore, ma salire su di una nave e partire è un gesto della persona, è qua-
si affidarsi al destino, nella speranza che questo risponda con qualcosa di buono e di grande. È forse la certezza che ovunque l’uomo vada, anche dove non ha famiglia, non ha amici, non ha parenti, c’è qualcosa che lo attende e che può dare compimento al proprio inesauribile desiderio di felicità. Questo spiega perché, nel- la storia, l’uomo nonostante la paura del mare e dell’incognito, non abbia mai ri- nunciato ad alzare le vele.