Alessandro Conte
All’ombra dei mirti

Titolo All’ombra dei mirti
Istantanee di vita e storia di Genova Multedo attraverso i secoli
Autore Alessandro Conte
Genere Narrativa - Storico      
Pubblicata il 26/03/2015
Visite 9428
Editore Liberodiscrivere® associazione culturale edizioni
Collana Il libro si libera  N.  157
ISBN 9788899137199
Pagine 164
Prezzo Libro 14,00 € PayPal
Ogni località ha una sua storia, che molto spesso è soprattutto una serie di piccole microstorie connesse le une alle altre nella collana del tempo. Questo è vero, almeno in parte, anche per Multedo, quartiere del ponente di Genova.
Questo libro racconta, in forma di romanzo, alcuni momenti della storia plurimillenaria di Multedo con un filo conduttore: un misterioso oggetto che attraversa le epoche, trasformandosi e passando di mano in mano e che si svela, passo dopo passo, con lo svolgersi delle vicende.
Completa il libro un'appendice di taglio storico, che rivela curiosità e aneddoti collegati agli episodi ed alle ambientazioni del romanzo.
I - Prologo
Genova Multedo, primavera 2018
In quello che era stato l’antico parco della villa Lomellini - Rostan, o meglio in quanto ne rimaneva, la statua di un giovane satiro guardava, come sempre da oltre cinquant’anni, il prato rettangolare del campo di calcio di fronte a sé e, oltre il lato opposto, la sottile linea di cipressi e la grande statua di Dioniso, che accanto a questi era stata trasferita al tempo della costruzione del campo sportivo. Lo stesso destino aveva coinvolto il giovane satiro e molti altri suoi marmorei compagni, incluso Pan, l’antico dio dei pastori greci, il cui ghigno beffardo induceva il satiro a considerarsi personalmente irriso da più di duecento trenta anni.
Che avrà, poi, da ridere di me? Sembrava pensare il giovane, a cui lo scultore aveva dato un sorriso quasi enigmatico su un volto sereno, che in un tempo ormai dimenticato si era trasformato in malinconico, a causa della deturpazione che gli aveva portato via un considerevole spicchio di fronte.
Per essere una statua, il satiro non aveva avuto una vita monotona.
Aveva assistito dapprima alle adunanze settecentesche di uomini e donne di cultura, quindi di futuri cospiratori giacobini o carbonari, poi visite di principi e aspiranti re, ministri stranieri e religiosi; era passato attraverso due guerre mondiali e ne era uscito indenne. L’industrializ-zazione e lo sviluppo edilizio avevano cinto d’assedio il suo mondo, quel parco ricco di verde, monumenti e invenzioni curiose che lo aveva ospitato per due secoli sinché, con la realizzazione del campo sportivo e poi della vicina autostrada con il suo svincolo, aveva dovuto traslocare di alcune decine di metri, ritrovandosi all’estremità di una sottile gradinata a lato del rettangolo verde.
In buona compagnia, comunque.
Molti dei suoi amici erano stati ricollocati insieme a lui: fanciulle leggiadre, altri seguaci di Dioniso, Sileno sempre ubriaco e appoggiato alla sua botte e Pan, che non gli era mai riuscito del tutto simpatico, per lo meno non un amico di cui potersi fidare.
Anche il suo Dioniso aveva cambiato posto ed ora era proprio di fronte a lui. Il grande Tritone nel suo tempietto poco oltre l’altra estremità della gradinata, invece, non si era mai mosso, come quella capretta di marmo quasi accanto, seminascosta da un arbusto.
Tutto sommato, il giovane satiro non sapeva se invidiare il Tritone e la capretta.
Certo non si erano mai spostati, avevano goduto fino in fondo, almeno sino ad ora, della immobilità propria delle statue. Il Tritone, inoltre, protetto dal suo esile tempietto aveva subito poco o nulla l’ingiuria delle intemperie e il suo marmo era ancora come appena scolpito, ricco di dettagli e liscio, diversamente da quanto era accaduto a lui e agli altri suoi compagni sul bordo della gradinata, che si ritrovavano ormai con la superficie ruvida e molti dettagli inevitabilmente smussati e poco leggibili; ciascuno di loro, inoltre, era monco di qualche parte: persino Dioniso aveva perso un pezzo di una mano, per non parlare di altri cui mancava completamente qualche arto o addirittura l’intera testa.
Il Tritone, invece, troneggiava in tutta la sua bellezza classica, ancora più della capretta che se aveva conservato il suo posto originario aveva però sofferto le intemperie e qualche altra antica offesa, come testimoniava una zampa con una vistosa crepa, inflitta chissà quando e aggravata dal tempo e dalle piogge.
I motivi di invidia, quindi, non mancavano al giovane di marmo, che d’altra parte rivendicava le proprie avventure contro quelle vite monotone, chiedendosi a volte, in uno sprazzo di sincerità, se quella rivendicazione non fosse piuttosto una consolazione che dava a sé stesso.
Lo stridio dei vicini cancelli che si aprivano annunciava il prossimo ingresso di un gruppo di  tifosi per un allenamento della loro squadra del cuore; poco dopo il satiro venne distolto dai suoi pensieri da dei ragazzi, che si accomodarono tutti intorno a lui, mentre alcuni anziani raggiunsero Pan sinché, in pochi minuti, la gradinata fu quasi piena e colorata da striscioni e bandiere.
L’ingresso dei giocatori fu accolto da grida di incitamento e, come sempre a Genova, da qualche mugugno.
 
Paulo Roberto Riondo, appena entrato nel campo di allenamento, si era voltato verso la lunga e sottile gradinata per ricambiare il saluto della tifoseria. Era un pomeriggio importante per la sua appendice italiana di carriera calcistica: rientrava da un infortunio che lo aveva bloccato alla seconda giornata di campionato dopo aver potuto mostrare ben poco del suo antico valore, che aveva infiammato i tifosi brasiliani della sua vecchia squadra e della Seleçao.
Certo, con gli anni si era un po’ appesantito. Troppo, come aveva compreso senza bisogno di traduzione dal genovese quando, il giorno della presentazione della nuova squadra, aveva udito un anziano tifoso in prima fila commentare ad alta voce: “O me pä ciù riundu che Riondo”.
Non tutto il male, comunque, viene per nuocere e l’infortunio aveva confermato questo antico adagio: la fisioterapia, più intensa di quanto si fosse aspettato, gli aveva tolto qualche chilo eccessivo. Non che ora fosse una silfide, non che fosse tornato ad essere veloce e scattante come un tempo, ma il miglioramento c’era. Quanto alla potenza, quella non era mai venuta meno e, quando calciava, la velocità della palla compensava la lentezza delle gambe.
Indubbiamente, come anche il più critico dei tifosi era costretto ad ammettere, il suo destro continuava ad essere un cannone, il sinistro di più. Peccato, però, che la mira fosse meno precisa di un tempo.
Quel pomeriggio, incitato dal proprio orgoglio ancora più che dalle aspettative della tifoseria e benevolmente imbeccato dai compagni di squadra, sfoderò ripetutamente il suo potente tiro facendo viaggiare la palla attraverso il campo, non sempre felicemente, e realizzando qualche gol seguito da cori di apprezzamento e da applausi.
Preso dall’entusiasmo accennò anche qualche scatto, poi, comprendendo che non era cosa, tornò ad esibirsi soprattutto nei tiri.
Mario, fresco di pensione e tifoso da sempre, era arrivato in ritardo e aveva preso posto su uno spiazzo erboso sopra la gradinata, vicino alla statua di una fanciulla. Era curioso di vedere come se la cavava l’asso brasiliano, dopo il lungo infortunio, e con sua soddisfazione poté ammirare, oltre alle proverbiali cannonate, anche alcuni virtuosismi.
Un sinistro di Riondo, tanto potente quanto a casaccio, mandò la palla su un prato oltre la gradinata, dove rotolò per qualche metro per poi fermarsi bloccata da un arbusto.
Mario si avviò a recuperare il pallone ma lasciò ad un altro tifoso il compito di prenderlo e rimandarlo in campo, distratto da una sagoma bianca che, avvicinandosi, aveva intravisto dietro l’arbusto. Era la piccola statua di una capra, che non aveva mai notato nonostante le sue periodiche frequentazioni del campo.
E dire, per di più, che ogni volta che si recava a seguire gli allenamenti Mario ne approfittava per dare un’occhiata alle statue, in particolare al Tritone e a Pan, il cui sorriso malizioso ogni volta lo induceva, almeno per qualche secondo, a fantasticare. Apprezzava anche le altre sculture, inclusa quella del giovane satiro, ma le sue preferite rimanevano le prime due. La statua del capretto, invece, forse per le piccole dimensioni e la posizione quasi nascosta, non aveva mai attirato la sua attenzione.
Tutto sommato, pensava Mario osservando sorpreso il muso furbetto del piccolo quadrupede, non sono stato giusto con questa statua: l’ho sempre sottovalutata solo perché era piccola e mezza nascosta mentre invece è bella, più di altre che hanno il solo merito di essere più in vista.
Affascinato dalla scoperta inattesa, l’uomo si inginocchiò per osservarla meglio, appoggiandosi goffamente alla schiena della capra per mantenere l’equilibrio. Apparentemente senza motivo, la zampa lesionata si staccò di netto, con un sordo rumore che nessun altro avvertì, cadendo nell’erba a pochi centimetri da lui.
Dopo aver esaminato la zampa staccata, Mario tastò la frattura sotto la spalla del capretto e fu in questo modo che la scoprì, incastrata in un incavo ricavato nella statua, poco sopra la linea di rottura.
Al tatto sembrava un pezzo di legno e decise di toglierlo, per vedere se poteva usarlo come incastro per riattaccare l’arto mozzato della capretta.
Il pezzo di legno si rivelò essere una piccola scatola con una curiosa serratura metallica, una sorta di chiusura a scatto di un tipo che non aveva mai visto. Il tutto sembrava decisamente antico.
L’occasione fa l’uomo ladro, o per lo meno lo tenta, e quel pomeriggio Mario decise di non sconfessare il proverbio.
Dopo essersi accertato che nessuno lo stesse guardando, mise velocemente la scatolina in un tascone del giubbotto e tornò a seguire la partitella per una decina di minuti, dopo di che si avviò anticipatamente verso l’uscita per tornare a casa.
La scatoletta, posata sul tavolo di cucina, era illuminata dalla luce al neon del lampadario. Il suo aspetto antico e la serratura montata sulla superficie esterna, dall’aspetto di un bizzarro doppio chiavistello, avevano incuriosito Laura, che continuava a guardarla silenziosamente anche dopo che il marito ebbe finito di raccontarle come l’aveva trovata.
“Insomma, l’hai rubata” sentenziò infine la donna, con voce neutra.
“No, l’ho presa” protestò Mario, con aria indignata.
“Appunto, l’hai rubata.”
“Uh, che parole grosse. L’ho presa e basta, non era di nessuno, era lì, dimenticata da tutti e chissà da quanto tempo. L’ho soltanto presa, ecco tutto.”
“L’hai rubata” ribatté Laura, chiudendo il discorso e prendendo in mano la scatola, soppesandola e rigirandola per esaminarla meglio.
“Chissà se contiene qualcosa … Non hai provato ad aprirla?”
“Ma no, te l’ho già detto. Volevo riattaccare la zampa di quella statuetta, poi ho visto che era impossibile e allora me la sono messa in tasca e lì è rimasta. Dai, dammela che la apro.”
Laura glie la porse commentando “Ho l’impressione che aprirla non sarà semplice.”
Dopo vari tentativi e qualche grattata al mento e alla testa, fra i radi capelli, Mario si arrese all’evidenza: “Il meccanismo di scatto è completamente incrostato, bisogna togliere quella roba e metterci un po’ di lubrificante …” disse alzandosi per andare in dispensa a prendere quanto necessario.
La serratura, tornata pulita e luccicante come fosse nuova, continuava a non volersi aprire e cominciava, con il suo rimanere invariabilmente chiusa, ad esasperare il pensionato che per reazione inveiva pesantemente contro la scatola, aggiungendo qualche moderata bestemmia.
“Dai qua!” fece la moglie, allungando la mano verso la scatola, con una espressione di blanda commiserazione.
“Perché, tu pensi di riuscirci?”
“Fammi provare, cosa ti costa?”
Mario le diede la scatola e Laura, incurante delle fosche previsioni del marito, diede una sommaria occhiata alla serratura e ai vari lati della scatola, poi prese un robusto ago da cucito da una vecchia latta che un tempo aveva contenuto biscotti.
Il marito smise di canzonarla e si sporse in avanti, incuriosito, mentre la donna infilava l’ago in un piccolo foro e cominciava a muoverlo in vari modi, provando ora a spingere e ora a tirare le due piccole asticelle metalliche del chiavistello.
“E come l’hai visto quel buchetto?”
“Diversamente da te, ci vedo ancora bene.”
“Con gli occhiali. Comunque, vedo che non serve a niente.”
Mario aveva appena finito di ribattere che un secco rumore metallico fece cambiare l’espressione impegnata della moglie in uno sguardo di trionfo.
Posò la scatoletta sul tavolo di fronte a sé e al marito. Il coperchio, sebbene sganciato, era ancora al suo posto mentre i due, esitanti, guardavano quell’antico oggetto senza sapersi decidere.
“Bé, non la apri?” disse infine il marito.
“Chissà cosa ci sarà dentro … Devo proprio aprirla io?”
“Sei tu che hai sbloccato la serratura.”
“Ma sei tu che l’hai ru … presa.”
“Allora apriamola insieme, tu prendi il coperchietto da quel lato e io da quest’altro, al mio via lo solleviamo.”
Ognuno dei due strinse un lato del piccolo coperchio fra i polpastrelli del pollice e dell’indice, quindi all’unisono lo sollevarono.
La scatoletta, finalmente aperta, conteneva una ciocca di capelli di colore castano chiaro.
I due coniugi si guardarono l’un l’altro, stupiti, quindi Mario prese i capelli e li posò delicatamente sul tavolo. La scatola, che all’interno era in gran parte impregnata di un colore azzurro intenso, non conteneva nient’altro.
“E questi di chi saranno?” disse l’uomo, incapace di dire altro.
“Chi può saperlo?” rispose la donna che, pragmaticamente, rimise al suo posto la ciocca, facendo attenzione a non lasciare sul tavolo neppure un capello, e richiuse la scatola. “Non ci resta che una cosa da fare: che tu la riporti al suo posto” aggiunse dopo lo scatto della serratura.
“Cosa dici? È impossibile, dovrei rimetterla dentro la statua e portarmi attrezzi e cemento, o almeno del mastice adatto, e riparare la zampa. E, a parte che sono lavori che non so fare, con quale scusa? Se mi vedesse qualcuno? Chissà cosa potrebbe immaginarsi …”
“E altrimenti cosa pensi di fare? Vuoi tenerla? Se c’era qualcosa di prezioso, almeno …”
“Potrei … potrei farla sparire. In qualche modo.”
“Vuoi buttarla? Tu sei pazzo. Qualcuno ci ha messo dentro quei capelli, forse di una fidanzata, forse di un marito o di un figlio, o una figlia, o di un genitore … Sarebbe una mancanza di rispetto, a dei morti, per di più …”
“Non pensavo mica di buttarla nella spazzatura” rispose Mario, pensieroso. “Senti, farò così, in settimana vado dal ferramenta e vedo se c’è qualche colla rapida adatta al marmo, poi al primo allenamento vado lì e cerco di rimetterla al suo posto e riattaccare la zampa. Oppure la lascerò da qualche parte, fra gli arbusti vicino a dove l’ho trovata … e poi qualche santo sarà.”
I due tornarono a guardarsi negli occhi, in silenzio e poco convinti della proposta dell’uomo. Entrambi, anche se nessuno dei due voleva ammetterlo all’altro e forse neppure a sé stesso, erano in fondo incuriositi da quel mistero e avrebbero voluto sapere di chi erano quei capelli e la storia di cui erano muti testimoni. Senza contare, poi, quella strana serratura e la scatola con quel legno così antico e, soprattutto, con quel colore azzurro incredibilmente brillante.
Se solo fosse stato possibile saperne di più …
Ad ogni modo, giudicarono che l’idea che aveva avuto l’uomo non era poi così insensata e decisero di riporre temporaneamente la scatola in un cassetto del comò, fra calze e mutande.
Intanto, pensava Laura chiudendo il cassetto della biancheria, vedrò se in qualche biblioteca c’è un libro sulla Villa, magari ci trovo qualche indizio.
Guardando la propria immagine riflessa nel grande specchio sovrastante il comò, le venne spontaneo attorcigliare una ciocca dei suoi capelli intorno a un dito, un gesto che non le era per nulla abituale.
 
II - Borla
Myrtetum, estate dell’anno 53 a. C.
Borla era seduto di fronte alla sua capanna, sul bordo meridionale del villaggio arroccato sulla collina. Guardando i boschi, i campi coltivati e il mare che si stendevano sotto di lui pensava, come gli accadeva spesso da diversi mesi, che forse nella sua vita aveva sbagliato tutto o, per lo meno, aveva preso molte decisioni errate, soprattutto quelle decisive.
Aveva più di settanta anni e da quando era tornato al Carmo, come lui e gli altri pochi abitanti chiamavano ancora il loro villaggio, aveva potuto constatare senza appello che la sua vita era stata tanto densa di avventure quanto misera di affetti duraturi.
Dopo anni di viaggi, di ricchezze improvvisamente guadagnate e rapidamente perdute, lavori improbabili, tempeste marine e marce in deserti assolati o in boschi ombrosi e fitte foreste, compagni di avventura e compagne occasionali, si era ritrovato ad Alessandria d’Egitto ormai irrimediabilmente solo, stanco e vecchio.
Un pomeriggio, trovando un angolo quieto fra alcune vecchie barche bisognose di riparazione, si era soffermato a guardare l’ormai familiare sagoma del grande faro di Alessandria. Gli erano tornati in mente, in modo più vivo che in altre occasioni, la casupola dove era vissuto da bambino e da ragazzo, il bosco sacro di mirti ai piedi del villaggio dove, in occasione di feste e processioni, seguiva i genitori insieme ai fratelli e alle sorelle, l’acqua bassa e cristallina del Varenna che per lui fanciullo era il fiume per antonomasia, dove in prossimità della foce catturava rane, piccoli pesci e qualche anguilla o dava la caccia alle anatre in mezzo ai canneti.
Per molti anni, completamente immerso nel presente, Borla non aveva più ripensato al villaggio della sua adolescenza né ai suoi familiari ma, con la vecchiaia e l’inattività, la nostalgia era entrata a fare parte dei suoi sentimenti, prima timidamente e poi con intensità via via maggiore. Così si era ritrovato spesso a ricordare il passato, i posti dove aveva vissuto e le persone con cui aveva condiviso momenti di vita.
Soprattutto suo padre.

 

Cinquantasei anni prima.

Borla, eccitatissimo, era appena rientrato nel villaggio fortificato in cima alla collina, da dove con lo sguardo si dominava gran parte dell’arco costiero, dopo alcune ore trascorse a osservare i lavori per la costruzione della nuova strada che i Romani chiamavano Via Aemilia Scauri, giù nel cantiere alle pendici collinari, a un centinaio di metri dalla spiaggia.
Sino a quel giorno il ragazzo non aveva mai visto nulla di simile.
Il tracciato della via romana proseguiva con qualche curva e preferibilmente in piano o con pendenze modeste, cercando di evitare per quanto possibile brusche salite e discese, aprendosi varchi nella boscaglia di mirti senza risparmiare qualche maestoso leccio. Per non urtare troppo gli abitanti del posto, i Romani avevano deciso una limitata variante, che avrebbe evitato di attraversare una piccola radura utilizzata dai locali per i loro riti, passandole accanto. Era per via di quella discussione fra l’architetto romano e il capo del villaggio che Borla, dalle labbra di suo padre, aveva appreso dell’avvicinarsi del cantiere e se ne era incuriosito.
Quando i lavori furono arrivati a lambire il bosco sacro di mirti, il Lucus o anche il myrtetum, come lo avevano ribattezzato i Romani, Borla si decise a scendere dal villaggio lungo l’antico sentiero, che si spingeva sino al mare e alla foce del Varenna, e si avvicinò timidamente al cantiere.
I Romani non sembravano curarsi della sua presenza, era solo un ragazzo dall’aria inoffensiva, né di quella di due anziani, uno dei quali osservava i lavori esibendo delle smorfie evidenti mentre l’altro ne sembrava in qualche modo compiaciuto, forse apprezzando la futura comodità che il nuovo percorso avrebbe assicurato ai suoi spostamenti.
Borla si fece meno timido e dopo aver scavalcato un alberello abbattuto si avvicinò a quello che di lì a poco sarebbe diventato il bordo stradale, sfiorando piccoli cumuli di pietrisco e stando attento a non inciampare in alcuni attrezzi posati per terra, osservando tutto con curiosità, quasi avidamente.
La strada sarebbe stata così larga, pensava, che se un uomo ci si fosse sdraiato di traverso rimaneva ancora spazio per qualche cesta. Per non parlare della pavimentazione: altro che terra battuta o qualche ciottolo: quei lastroni di pietra, che venivano posati su altri strati di pietre, ghiaia, terra accuratamente sistemati, lo affascinavano per la meticolosità con cui venivano disposti. 
La serietà e l’impegno di quei lavoratori, l’ordine e il metodo con cui operavano e l’orgoglio di uno di essi, che parlava un po’ di genuate quanto Borla masticava qualche parola latina imparata da suo padre, di ritorno dall’emporio di Genua o da altri mercati vicini, gli raccontavano che si trattava di una strada destinata a durare quanto le vite di centinaia di uomini.
Tornò al villaggio, deciso a percorrere quelle strade.
***
Suo padre. Non era stato certamente felice quando gli aveva detto delle sue intenzioni.
Gli era tornato in mente all’improvviso e lo aveva visto come se lo avesse davanti, socchiudendo gli occhi all’ombra di una veranda che lo riparava dal sole egiziano. 
Quel giorno suo padre lo aveva guardato con il dolore negli occhi, impotente di fronte alla decisione irrevocabile del figlio.
Mi avrebbe voluto sempre con sé, al Carmo, si disse mentalmente, insieme a tutta la famiglia.
Come era stato per generazioni e come probabilmente non sarebbe più stato, perché Borla non era il primo giovane che se ne andava e altre famiglie avevano deciso, tutte unite, di lasciare il villaggio.
Dopo una lite furibonda con suo padre e un silenzioso addio alla madre, sotto gli occhi attoniti delle sorelle e dei fratelli, con l’eccezione del primogenito che lo guardava con aspra riprovazione, Borla aveva lasciato per sempre il Carmo, o almeno così pensava in quel momento, portando con sé soltanto la tunica e le brache che indossava.

 

A Genua, raggiunta camminando per poco più di un paio d’ore sul lastricato della via Aemilia Scauri, aveva avuto la fortuna di trovare il mercante Plauco, un uomo maturo mezzo ligure e mezzo romano senza moglie e senza figli, che sapeva parlare anche il greco, proprietario di una barca in grado di praticare il cabotaggio e alla ricerca di nuove braccia per integrare la piccola ciurma. Con lui aveva trovato un maestro, che gli insegnò tutto quello che gli serviva per viaggiare nel Mediterraneo e guadagnare con il commercio.

Al riparo della veranda egiziana Borla, dopo essersi dissetato con un frutto dolce e maturo, aveva ripensato ai viaggi a Tiro e a Corinto, al soggiorno fortunato a Massilia e poi la lenta navigazione risalendo il Rodano e, lasciata la barca, i viaggi nel paese dei Galli, verso settentrione e quindi ad occidente sinché un giorno, giunto dietro a una grande duna di sabbia colore dell’oro, aveva sentito un frastuono mai udito prima. Con i suoi compagni e un vecchio Gallo, che sogghignava per la loro ignoranza, Borla aveva scalato la duna sino a vedere dall’altra parte delle onde immense che si abbattevano inesorabilmente su una spiaggia che sembrava senza fine. Era la prima volta che vedeva l’oceano e gli bastò per decidere che non lo avrebbe mai navigato. Non era certo un codardo, mai aveva avuto paura dell’ignoto o era arretrato davanti al pericolo, ma non era un avventato.
Morsicò un altro frutto e pensò alle cime innevate dei Pirenei, all’Iberia e alle coste della Libia, ai deserti attraversati in compagnia di una banda di predoni della Numidia, all’Egitto dove, durante il suo primo soggiorno, aveva rischiato di essere dato in pasto ai coccodrilli e dove, in seguito, decise di fermarsi per il resto dei suoi giorni.
Sino a quel pomeriggio in cui, seduto fra barche mezze rotte e all’ombra di una veranda, di fronte al grande faro di Alessandria, alternando il ricordo alla nostalgia e passando attraverso il bilancio della propria vita, dopo alcune partite a senet e numerosi sorsi di birra egiziana, Borla decise di tornare al villaggio dove era nato, per non allontanarsene mai più.
Così era tornato e, prima ancora di salire al villaggio, si era recato alla foce del Varenna e poi aveva camminato sulle due spiagge delle piccole baie di ponente e di levante, separate dalla modesta scogliera con cui il promontorio multedese entrava nel mare: erano rimaste le stesse che aveva conosciuto da bambino, quando vi si recava silenziosamente con suo padre sorprendendo spesso dei caprioli che, scesi dai monti, uscivano dalla boscaglia come incuriositi dalla distesa del mare e, talvolta, si abbeveravano ai ruscelli che si univano ad esso.
La spiaggia, per lo più grigiastra, vicino ad una di quelle piccole foci presentava delle chiazze di un colore molto più scuro, per via di una polvere nera e fine portata dal ruscello. Suo padre gli aveva insegnato come raccoglierla e utilizzarla per abbellire le suppellettili di casa con qualche disegno.
Borla si alzò con fare incerto, dovuto agli acciacchi portati dagli anni, dal masso squadrato che utilizzava frequentemente come sedile e si avviò verso la vecchia capanna, un tempo affollata ed ora abitata soltanto da lui. I pochi superstiti della sua famiglia con i loro discendenti, infatti, avevano da molto tempo abbandonato il villaggio per trasferirsi di poco più a levante, dove un romano, un certo Cornelio, possedeva una notevole estensione di terreno quasi pianeggiante e pagava bene chi fosse disposto a coltivare la sua fertile proprietà.
Questo era quanto gli aveva raccontato un anziano, uno degli ultimi abitanti del Carmo, e Borla si era sistemato nella sua antica casa, ritenendolo comunque un suo diritto e sicuro che, se anche fossero venuti a saperlo, i suoi parenti non se ne sarebbero lamentati.
Non era andato a trovarli, né aveva cercato di far loro sapere del suo ritorno. Dal vecchio conoscente aveva appreso che i suoi fratelli e le sue sorelle erano morti e per i nipoti Borla era un estraneo, così come loro lo erano per lui.
Si recava spesso, invece, ai piedi di un vetusto mirto nel boschetto ai piedi dell’altura, dove sotto terra, in due urne, riposavano le ceneri dei suoi genitori. 
La sua abitazione, come tutte le altre capanne, aveva il tetto di paglia e muri di rami impastati con il fango, poi ricoperti da un rozzo intonaco di argilla, basati su un più solido muretto circolare di pietre. Questa era la sua casa, e non provava nessuna nostalgia per le raffinate costruzioni che aveva abitato o frequentato a Corinto, Alessandria, Tiro, Roma e in altre ricche e popolose città.
Accanto al grosso anello in ceramica, che racchiudeva il focolare, raccolse una coppa circolare e poco profonda, un kylix comperato a Genua da suo padre molti anni prima. Non era stato un grande affare, era in più punti scrostato e molto probabilmente il dio Dioniso non doveva averne gradito l’uso, durante i semplici culti che periodicamente venivano celebrati nel bosco di mirti.
Forse che per questo mio padre sia morto così giovane? Si chiese Borla, scacciando il pensiero di avere intristito, con la sua assenza, gli ultimi anni del genitore.
Cercò e recuperò tre piccole scatole e dei pennellini fra delle ciotole accatastate in un angolo, una delle quali conteneva qualche residuo della focaccia e del latte di pecora che avevano costituito il suo pranzo; quindi uscì all’aperto con quanto aveva preso, facendo attenzione soprattutto che la fragile coppa non gli cadesse dalle mani. Voleva approfittare delle ore di luce che lo separavano dal tramonto per proseguire la decorazione che, da alcuni giorni, stava dipingendo sul kylix. 
Finora aveva tracciato sull’esterno delle linee nere simili a viticci e delle foglie di un verde brillante; ora aveva deciso di dipingere l’interno uniformemente di uno stesso colore. Aveva scartato subito l’idea di usare il nero; era invece indeciso tra il verde brillante e l’altro colore che non aveva ancora usato e che parsimoniosamente, essendo il suo preferito, voleva utilizzare solo per ciò che riteneva più importante e prezioso.
Prese la scatola che conteneva il verde e, con decisione, tolse il coperchio su cui spiccavano alcuni geroglifici disegnati dallo scriba da cui, poco prima di lasciare Alessandria, aveva comperato le tre scatole.
Subito dopo, con altrettanta decisione, richiuse la scatola e la posò a terra per prenderne un’altra che, unica delle tre, non riportava sull’esterno nessun segno o decorazione. Quando l’ebbe aperta, apparve un colore azzurro, intenso e brillante, come un pezzo di cielo sceso sulla terra.
“Dovessi anche finirlo, questo kylix avrà l’interno tutto azzurro”, pensò Borla ad alta voce e senza esitare cominciò a dipingere.
Aveva quasi terminato di stendere la prima mano di colore quando avvertì una timida presenza alle sue spalle: un ragazzino, nipote del suo anziano amico e il più giovane dei pochi abitanti del Carmo, si era avvicinato silenziosamente e guardava come rapito quell’azzurro quasi irreale, che sembrava provenire da un mondo fantastico.
Sì, ho proprio scelto il colore giusto, pensò Borla confortato dallo sguardo meravigliato del bambino, che gli ricordava sé stesso quando ancora piccolo osservava suo padre riparare la casa o quando, ragazzo, era rimasto affascinato dalla costruzione dell’Aemilia Scauri.
Quando avrò finito, Dioniso non si potrà più lamentare, rifletteva compiaciuto del suo lavoro.
Qualche giorno dopo un soddisfatto Borla, ai piedi di un antico mirto, dopo aver bevuto dal kylix un piccolo sorso di vino resinoso ne versava il resto sul terreno, in corrispondenza delle due piccole urne sotterrate.
 
Ogni località ha una sua storia, che molto spesso è soprattutto una serie di piccole microstorie connesse le une alle altre nella collana del tempo. Questo è vero, almeno in parte, anche per Multedo, quartiere del ponente di Genova.
Questo libro racconta, in forma di romanzo, alcuni momenti della storia plurimillenaria di Multedo con un filo conduttore: un misterioso oggetto che attraversa le epoche, trasformandosi e passando di mano in mano e che si svela, passo dopo passo, con lo svolgersi delle vicende.
Completa il libro un'appendice di taglio storico, che rivela curiosità e aneddoti collegati agli episodi ed alle ambientazioni del romanzo.

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