Gran Bazar, il cuore della città vecchia. Un dedalo di vicoli, centinaia di piccoli negozi di ogni genere, affollati di turisti incantati dai colori dei tessuti, dai profumi delle spezie, dal fascino dell’atmo-sfera magica di Istanbul.
Proprio qui Aziz, un vecchio e stanco mercante, avvolto in un caftano nero, con la barba bianca lunga e incolta, il viso solcato da profonde rughe, aveva trovato il rifugio ideale, il suo angolo di paradiso, il punto di non ritorno in cui aspettare serenamente la fine dei suoi giorni.
Aveva trascorso la vita girovagando di città in città, come un nomade del deserto, con la capacità di leggere le stelle e orientarsi grazie a loro e con la consapevolezza che siamo destinati a vivere tutti insieme sotto un unico cielo stellato, sotto il quale si compie, inesorabile, il nostro destino.
Era un fabbricante di cucchiai.
Ne creava di ogni forma e dimensione, proprio come suo padre prima di lui, e suo nonno, e il padre di suo nonno. Tutti gli uomini della sua famiglia erano intagliatori di posate.
Discendeva da quel mercante, antenato di Aziz che, secoli prima, aveva acquistato, in cambio di quattro cucchiai di legno, un cristallo trovato da un mendicante in una discarica.
Quel pezzo di vetro concavo, che ricordava proprio un cucchiaio, gli aveva fatto fare fortuna: lo aveva rivenduto, per dieci monete d’argento, a un gioielliere disonesto, che lo rivendette a sua volta per dieci monete d’oro, e che morì di morte violenta in seguito a una rapina.
Della sua morte venne ingiustamente incolpato il mendicante che aveva scambiato il cristallo per i cucchiai: fu impiccato sulla pubblica piazza, dopo che si era rifiutato di rivelare chi possedesse il vetro rubato.
Si narra che quando il nodo gli strinse la gola, dalle sue mani cadde un cucchiaio di legno.
L’antenato di Aziz, invece, venne incarcerato per aver osato opporsi all’esecuzione del mendicante, proclamando a gran voce la sua innocenza.
L’uomo finì i suoi giorni in una cella umida e maleodorante, ma quel che aveva accumulato durante gli anni di libertà, proprio grazie al suo lavoro di intagliatore di posate, consentì alla sua discendenza di sopravvivere con dignità.
Il suo primogenito, Aziz anch’egli, proseguì nella tradizione di famiglia. Intarsiò posate per una vita intera e tramandò ai suoi figli l’arte del fabbricare cucchiai.
La maledizione del pezzo di vetro a forma di cucchiaio, però, perseguitò nei secoli tutta la famiglia di Aziz.
Quel cristallo era in realtà un diamante di ottantasei carati, il Kasikci, di valore inestimabile che, dopo alterne vicende, finì nelle mani di Letizia Bonaparte, madre di Napoleone.
La donna lo vendette per tentare di proteggere il figlio dall’esilio e dalla morte sicura, ma la maledizione del diamante insanguinato non permise all’Imperatore la salvezza.
Il nuovo acquirente fu un pasha turco, e il gioiello tornò così, finalmente, nel suo paese d’origine. L’uomo, già benestante, dopo essere entrato in possesso del prezioso cristallo si arricchì ancor più, ma poco tempo dopo fu accusato di ribellione e condannato a morte.
Il diamante a forma di cucchiaio venne confiscato dal Gran Visir e in seguito incamerato nei forzieri ottomani, e ora è esposto nel museo del Topkapi, con il nome di Kasikci Elmas o, per dirla come gli inglesi, Spoonmaker.
Aziz conosceva bene la maledizione, ma non aveva potuto né voluto sottrarsi ad essa; sarebbe bastato cambiare mestiere, ma egli non rinunciò all’attività dei suoi avi. Aveva trascorso l’intera vita a costruire cucchiai e ora che le sue mani inferme non riuscivano più a intagliare il legno o battere il metallo per dare la forma che lui aveva in mente, non gli restava che posizionare ogni mattina un banchetto all’interno del Gran Bazar per cercare di vendere le creazioni che aveva scolpito negli anni.
Cucchiai rotondi, ovali, triangolari, quadrati, bizzarri nelle forme, nelle dimensioni e nel materiale; cucchiai di legno, di ferro, di acciaio, di rame, cucchiai lunghi, corti, intarsiati, smaltati, colorati, disegnati, tutti autentici pezzi unici, tutti ideati da Aziz, il fabbricante di cucchiai.
Il vecchio era solito raccontare ai nipoti la leggenda della maledizione dei cucchiai: qualcuno portava fortuna negli affari, qualcuno in amore, qualcuno, al contrario, dolore e morte. Andava ripetendo ogni sera ai bambini la stessa favola, per farli addormentare. Così aveva fatto con lui suo nonno, e con questi il nonno di suo padre, e così all’indietro fino al fabbricante di cucchiai che aveva barattato i suoi quattro kasikc di legno con il pezzo di vetro insanguinato.
L’importante, per non essere travolti dalla maledizione, era saperli riconoscere e comprenderne il significato: ogni cucchiaio raccontava un pezzo di storia, uno stato d’animo, un’emozione.
Aziz era un saggio mercante e non un improvvisato venditore ambulante in cerca di ricchi e ignoranti turisti cui vendere merce di poco valore a prezzi esorbitanti.
Prima di separarsi dalle sue creature, voleva acquisire la certezza che, chi li avesse portati con sé lontani dalla sua Turchia, li avrebbe amati quanto li amava lui, pezzo per pezzo.
Per questo era determinato a non vendere a chiunque gli offrisse del denaro.
Una sola volta, in passato, aveva commesso quell’errore: aveva creato, su commissione di un ricco straniero, quattro cucchiai con il disegno del melograno, che dovevano essere portati in dono a una fanciulla, in occasione delle sue nozze.
Ma il vecchio intagliatore conosceva bene la maledizione del kasikc: “Regalare cucchiai porta ricchezza - pensò - ma alto è il rischio di dolore e morte. Perché io stesso devo contribuire all’infelicità e alla rovina di una giovane sposa?”
Rimase indeciso sul da farsi e perplesso per qualche tempo, poi, però, la cifra offertagli dallo straniero riuscì a tacitare la sua coscienza. Aziz aveva a casa tante bocche da sfamare, e si lasciò convincere.
Consegnò allo straniero i quattro cucchiai, e conservò per sé il prototipo, quello che aveva intagliato per prova. Il disegno sul manico era meraviglioso, non sarebbe stato giusto privare i passanti di quella vista, perciò decise di tenerlo in esposizione sul suo banchetto.
Nel corso degli anni era capitato spesso che qualche turista si fosse fermato ad ammirare proprio quel cucchiaio di legno con il manico colorato di rosso, e che avesse manifestato l’intenzione di acquistarlo, ma Aziz non aveva mai voluto separarsi dalla sua creazione, da quella copia senza valore ma di grande bellezza.
Una mattina, circa un mese fa, uno straniero suscitò in Aziz una strana sensazione: l’uomo emanava forza ed energia positiva, tuttavia suscitava in lui anche un’inspiegabile diffidenza.
L’uomo, avvicinatosi al banco, prese in mano proprio il cucchiaio con il disegno del melograno e lo rimirò con curiosità.
“Cosa ti attrae, straniero?” domandò Aziz mentre faceva il giro del banco per avvicinarsi all’uomo.
“Bello quel disegno. È un melograno, vero?” disse l’uomo in perfetto turco, ma con inconfondibile accento occidentale.
“Sì, è un melograno. Bello il disegno, ma ancor più bello è il cucchiaio, non trovi? E ancor più bella è la sua storia, ascoltala straniero!”
Aziz raccontò la leggenda della maledizione dei quattro cucchiai e descrisse la lunga scia di sangue che aveva sporcato il loro cammino attraverso gli anni; narrò quanta fortuna portassero negli affari, ma quanto alto fosse il prezzo della ricchezza.
Narrò che nell’antica Costantinopoli possedere cucchiai era segno di distinzione e agiatezza economica: chi li possedeva li portava infilati nella cintura, come i cowboy facevano con la pistola; ciò significava che erano pronti a mangiare, sia perché potevano permettersi di acquistare il cibo, sia perché si distinguevano dai poveri, che invece mangiavano con le mani.
Raccontò poi la storia del mendicante e del pezzo di vetro a forma di cucchiaio, delle sventurate vicende di coloro che entrarono in contatto con il cristallo e della maledizione che avvolge proprio i quattro cucchiai che il mendicante barattò con la pietra.
Consigliò allo straniero di visitare il Topkapi e di ammirare il Kasikci, oggi lì custodito.
“Tu vieni da Ankara, vero, straniero?” chiese poi il vecchio.
L’uomo non rispose e con aria brusca domandò: “Quanto vuoi per questo cucchiaio?”
Aziz rimase colpito dal tono imperioso dello straniero e, fissandolo negli occhi rispose: “Mi spiace, ma questo è solo un modello, non è un cucchiaio finito, e non è in vendita.”
“Ascolta vecchio, ti ho già dato tanti soldi una volta, e te ne darò tanti anche ora, ma voglio quel cucchiaio!” disse l’uomo deciso.
Aziz si ricordò all’improvviso di quel volto: era l’uomo che, qualche anno prima, aveva accompagnato lo straniero che gli aveva commissionato il regalo di nozze.
Sì, era proprio l’uomo di Ankara, e questa volta lo aveva riconosciuto non solo dall’accento.
Aziz, però, non riusciva a capire perché volesse a tutti i costi anche quel cucchiaio; l’uomo vestito all’occidentale doveva aver ben imparato che la maledizione dei kasikc non era solo una leggenda: in tutta Istanbul si raccontava che sua moglie, alla quale i cucchiai erano stati portati in dono, fosse morta assai presto, sebbene ricchissima, di una malattia che i poveri non avevano denaro per curare.
Il silenzio di Aziz costrinse l’uomo ad adottare un’altra tattica: “Sarò sincero con te, mercante. Di quattro che ne avevo, credevo me ne fosse rimasto uno, ma ora temo di averlo perduto. Devo andare dalla madre di mia moglie, e lei vuole che lo porti con me. Non ne conosco la ragione, ma quella donna non accetta rifiuti. Te lo domando un’altra volta: quanto vuoi per quel cucchiaio?”
“Sarò sincero anch’io, straniero; quel cucchiaio è maledetto, e tu lo sai: porta fortuna negli affari, ma causa dolore e morte. Mi sei simpatico, anche se qualcosa in te non mi convince. Tu hai già sofferto e non voglio essere io la causa di altri dolori, perciò no, non te lo venderò, per nessuna cifra.”
Aziz gli voltò le spalle, tornò dietro il banchetto, prese in mano il cucchiaio e lo nascose tra le pieghe del suo caftano: nessuno più avrebbe dovuto possedere il kasikc maledetto.