Titolo | Omaggio alle nostre nonne | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Narrativa - Memoria del Territorio | ||
Pubblicata il | 31/03/2016 | ||
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Scrivere delle donne nate nell’ultimo decennio dell’Ottocento o poco più tardi, attraversando gran parte del secolo scorso, è tuffarsi nel mare della nostalgia, perché loro sono le nonne che hanno accompagnato la nostra infanzia, adolescenza e prima giovinezza: donne a cui il destino ha riservato di vivere sullo sfondo di eventi storici straordinari e di adeguarsi alla rapida trasformazione di modelli culturali rimasti immobili per un tempo infinito.
Per non perdermi, data l’ampiezza e l’eterogeneità dell’argomento, focalizzo dunque lo sguardo sulle donne elbane più o meno coetanee delle mie nonne Giuseppina e Leontina, nate poco prima che il Novecento aprisse il suo sipario sulla belle époque, con tutto il carico di aspettative, speranze, sogni e progetti che l’inizio di un nuovo secolo ispira a ogni essere umano: come se passare dal 1899 al 1900 dovesse segnare un discrimine più incisivo tra il passato e il futuro, tra il male elargito dai giorni vecchi e il bene promesso da quelli nuovi.
Storicamente invece l’Ottocento si chiude con tensioni sociali fortissime e il nuovo secolo si apre con l’assassinio di Umberto I, il re che aveva decorato con la medaglia al valor militare il generale Bava Beccaris, autore della feroce repressione di piazza a Milano nel 1898. Anche all’Elba, la classe operaia, che si va formando con la piena industrializzazione delle miniere, manifesta il suo disagio con proteste duramente represse e il vento dell’inquietudine, alimentato dagli ideali socialisti e anarchici, soffia forte sui monti scavati del Riese e del Capoliverese.
L’eco dei miti del progresso, delle strepitose novità che giorno dopo giorno si affermano – l’elettricità, la radio, l’automobile, la macchina da scrivere, la macchina da cucire − arriva anche da noi, tanto più che a Portoferraio sta per nascere lo Stabilimento, con i suoi altiforni e pontili, che violeranno per quasi mezzo secolo la quiete d’una darsena fino ad allora bella dei suoi velieri.
Accanto all’industria estrattiva e siderurgica, l’agricoltura − in particolare la viticoltura − la marineria, la pesca, la lavorazione del granito, il commercio sopperiscono alle esigenze economiche di un territorio dove comunque la povertà, sebbene dignitosa, costituisce la cifra quasi comune del vivere quotidiano.
La cultura, monopolio dell’élite colta e borghese, è vivace: Raffaello Foresi e Vincenzo Mellini hanno fatto emergere l’Isola dal mito proiettandola nella storia, Mario Foresi è di casa a Firenze, Giuseppe Pietri e Valentino Soldani si avviano a diventare protagonisti delle scene teatrali nazionali.
E le nostre donne, in verità ancora bambine?
Molte sono figlie di operai, pescatori, marinai, contadini e bottegai; altre, di estrazione sociale più alta, hanno per padri medici, avvocati, notai, imprenditori, direttori di banca o di miniera, insegnanti e presidi: solo loro, dopo le elementari, fanno le medie e vanno a studiare in continente, in collegio, per diventare maestre e godere di notevole considerazione all’interno della comunità.
Quasi tutte ricevono, oltre a quella familiare, un’educazione religiosa attraverso la parrocchia e la frequentazione delle suore, dove sono andate all’asilo e a volte anche alle elementari: qui, in un ambiente protetto, e quindi gradito alle famiglie ansiose, imparano a ricamare, talvolta a suonare il piano, si scambiano confidenze e libri “per signorine”, come quelli, che furoreggiano, di Delly.
Di temperamento sono già fiere e coraggiose, promettendo di diventare vere “donne di mare e di miniera” − per riprendere il bel titolo del libro di Lucia Paoli edito qualche anno fa dal comune di Rio nell’Elba −: imparano fin da bambine ad aiutare la mamma nei lavori domestici e nella cura dei fratelli più piccoli, perché nella loro futura casa di spose dovranno saper pulire, allevare i figli, cucinare e preparare, a Natale e a Pasqua, i tradizionali dolci delle feste: la schiaccia briaca, le sportelle, la torta Pasqualina, il corollo.
Alcune di loro, le più povere, accompagnano la mamma-lavandaia di casa in casa, a lavare i panni a domicilio, se esiste un pozzetto in cortile, o nei lavatoi pubblici: aiutano a strizzare i lenzuoli e gli asciugamani, a stenderli e a stirarli, riconoscendone le proprietarie attraverso le immancabili cifre ricamate
Le loro mamme hanno le mani rovinate dal freddo e dal sapone, ma spesso le sentono cantare, chine sul bucato, le vedono ridere, scambiandosi battute con le amiche al pozzo: ne deducono l’ammaestramento forte che si può essere liete anche nella povertà.
Intanto crescono assistendo con meraviglia e sgomento al loro lento farsi donne: sono ragazzine dal seno acerbo, dal punto vita sottile, dai fianchi che si arrotondano: si sorprendono orgogliose e stordite dalla loro femminilità in boccio. Il ciclo le impaurisce: le loro madri parlano poco dell’argomento, sono evasive e imbarazzate; dicono di non aver paura, che capiterà mensilmente; tra i sospiri raccomandano:“Stai attenta!”, “Abbi giudizio!”. Carpiscono qualche informazione in più dalle sorelle grandi o dalle zie giovani: il tam tam che si sentono ripetere è che bisogna arrivare illibate al matrimonio, altrimenti davanti ai loro occhi si potrà spalancare la voragine della rovina e della disapprovazione sociale.
Si apre loro un mondo affascinante e misterioso, sebbene pieno di rischi: cominciano a guardare con sufficienza i loro coetanei maschi, ancora bambini, sentendosi invece attratte dai ragazzi più grandi. Qualcuna si innamora presto, perde l’appetito e il sonno. Adesso passano più tempo a scegliere, tra i pochi che possiedono, il vestito che sta meglio, sciacquano i capelli con la camomilla per un riflesso biondo, con l’aceto per la lucentezza. Su e giù per la piazza, guardano, sono guardate e arrossiscono covando in cuore la speranza di un germoglio di felicità. Che coincide col far capire al giovane su cui hanno posato gli occhi che loro sono disponibili, ma che tocca a lui fare il primo passo, cercando un incontro furtivo, un appuntamento, dentro un portone o in una via secondaria, per “parlarsi”, dichiararsi e prepararsi alla “chiesta” ufficiale ai genitori.
Se tutto andrà per il verso giusto, dopo il fidanzamento ufficiale, a diciotto, vent’anni, saranno già con la fede al dito e un marmocchio in braccio.
Nel matrimonio investono tutto: sicurezza, reputazione, benessere morale e materiale. Non tutte avranno fortuna: scopriranno troppo tardi che il marito beve, alza le mani, non è assiduo nel lavoro, si “confonde” dietro ad altre gonnelle, ma sono preparate a sopportare in silenzio, a soffrire senza chiasso; la loro missione è essere spose modello, brave mamme, custodi del focolare domestico: così hanno giurato in chiesa, nell’abito bianco della loro verginità, davanti all’altare, il giorno delle nozze, il più importante della vita. Solo l’amica più cara o la sorella o la mamma conosceranno le loro pene, ma il consiglio sarà sempre quello: stringi i denti e vai avanti.
Nella maggioranza dei casi, se il marito-capofamiglia ha un lavoro regolare, si farà un vanto di tenere a casa la moglie e non farla lavorare: la sua donna godrà così dello status sociale ambito di fare “soltanto” la casalinga, invece della contadina, della domestica, della lavandaia, della bottegaia.
Ma a Marciana Marina e a Cavo ci sono “le salate”, fabbriche per l’inscatolamento del pesce azzurro, e la mano d’opera è quasi esclusivamente femminile mentre nel versante occidentale molte donne lavorano nei campi o nelle vigne con gli uomini di casa: hanno le mani callose e la pelle scurita dal sole ma l’abbronzatura non è ancora apprezzata e loro sognano di essere bianche come le “signore”.
La “grande Storia” irrompe con prepotenza nella loro “piccola” storia individuale con la Prima Guerra Mondiale: molte vedono partire babbi, fratelli, fidanzati e mariti, alcuni dei quali non fanno più ritorno. E’ il tempo dei saluti e delle lacrime, della paura che attanaglia il cuore. Qualcuna resterà con un bambino piccolissimo da accudire, che, al ritorno di un padre sconosciuto, scoppierà a piangere vedendolo.
Finita la guerra, arriva la tragedia della spagnola, che miete un numero impressionante di vittime: e loro, le nostre nonne, sempre lì, a rimboccarsi le maniche ed asciugare il pianto.
Gli anni venti e trenta sono gli anni della loro piena giovinezza: quasi tutte spose e madri, ricorrono a fotografi professionisti per fissare sulla pellicola la fisionomia di figli e mariti, dopo averli vestiti dei loro abiti migliori; loro stesse posano volentieri, curate nell’abbigliamento e nelle acconciature, come le attrici che vedono al cinema o sulle riviste, per lasciare di sé l’immagine di donne belle, felici e al passo coi tempi.
Il fascismo conquista molte di loro, le “massaie d’Italia”, spingendole a partecipare a raduni che inneggiano al Duce o a festeggiarlo quando viene in visita a Portoferraio.
Se hanno in famiglia uno zio socialista che parla male dell’ “uomo della Provvidenza” lo considerano un miscredente e una pecora nera: poche hanno coscienza della dittatura in cui vivono.
Partecipano con entusiasmo alle feste di paese, come quella “dell’ Uva”, ai raduni gioiosi e chiassosi di Santa Caterina a Rio Elba, quando si fa più accesa la scherzosa rivalità tra “riesi di su” e “riesi di giù”; leggono libri d’amore, ascoltano la radio, idolatrano Francesca Bertini, la diva del muto, si commuovono con i film dei telefoni bianchi, cantano le canzoni di Alberto Rabagliati e Wanda Osiris, piangono la morte precoce di Rodolfo Valentino.
Alcune di loro conoscono Filippo Tommaso Marinetti, che negli anni ‘30 passa le vacanze al Cavo, nella villa Hammeler-Mazza di Capocastello; qualcuna nel 1934 incontra per le vie del paese un signore col berretto da marinaio e la pipa in bocca, che passeggia e s’intrattiene volentieri a chiacchierare con chi ne ha voglia: vengono a sapere che è uno scrittore francese di gialli, il suo nome è Georges Simenon e ha affittato, per farci una crociera nel Mediterraneo con la moglie Tigy, l’Araldo, una goletta registrata alla capitaneria di Portoferraio, con equipaggio elbano.
Lo scrittore, nel suo diario di bordo, scrive che l’aria ha la dolcezza dei fichi maturi, che la gente è povera ma piena di dignità e d’orgoglio, abituata alla solidarietà e alla condivisione del poco che possiede.
Intanto il tempo scorre e le nostre donne stanno per vivere uno dei periodi più difficili della loro vita, quello della seconda guerra mondiale.
Si ricomincia a soffrire per le partenze degli uomini, per la paura di quello che può accadere, per la fame, le privazioni, le ristrettezze, le incursioni aeree, i bombardamenti, le vedovanze.
La fame morde: si trova poco o nulla, occorre rifornirsi regolarmente con Piombino ma le mareggiate non sempre permettono i collegamenti.
I lavori delle donne si moltiplicano: non solo fanno i salti mortali per procurarsi qualcosa da portare in tavola, ma rigirano anche le stoffe, per vestirsi, o utilizzano coperte militari per farci cappotti. La pesca dà qualche sollievo: Cesira e Marianna tutti i giorni portano pesce al mercato di Rio Marina ma non fanno in tempo a posare le cassette di zerri sul banco di pietra, che subito si forma una fila di persone con la tessera annonaria in mano. Il pesce non è mai abbastanza.
Il settembre 1943 è terribile: il 16 viene bombardata Portoferraio, il giorno dopo comincia l’occupazione tedesca, una settimana dopo affonda lo Sgarallino con più di trecento persone a bordo. L’Elba sprofonda nel lutto e nel dolore.
L’inverno ‘43-44 è durissimo: per le notizie che giungono e per gli stenti che la nostra gente patisce. Nel giugno, l’operazione Brassard scaccia i tedeschi ma molte donne elbane sono stuprate dai “liberatori” e la loro vita è segnata per sempre da quel dramma.
Finalmente arriva la pace, il dopoguerra, il voto, la Repubblica, la democrazia, la vita che lentamente cerca di farsi strada: le nostre donne hanno figli ormai grandi, che, a loro volta, desiderano metter su famiglia. Molte di loro diventano nonne in quegli anni: la gioia è grande e con i nipotini in braccio rivivono una seconda giovinezza.
Ma il lavoro è poco: lo Stabilimento è chiuso, le prospettive incerte; l’Isola è in bilico tra un passato che non può ritornare e un futuro turistico che ancora è utopia.
Resiste l’attività mineraria ma tanti giovani emigrano − Piombino, Genova, Torino, il Belgio, la Germania. − o si imbarcano
Loro resistono, come sempre, e cominciano a vivere una stagione di benessere economico, quale mai hanno sperimentato nella loro vita: arrivano la televisione, il frigorifero, la lavatrice, le medicine giuste, gli antibiotici. Arriva anche il ‘68, la rivoluzione dei costumi e della morale: per loro non è facile seguire il ritmo del progresso, che mette in soffitta il tradizionale tesoretto di principi e di valori, ma, con la loro mente duttile, la loro intelligenza e sensibilità, pur con qualche affanno, ci riescono.
Sono in armonia con figli e nipoti, trascorrono una vecchiaia serena: assistono al decollo turistico dell’Isola, non di rado partecipano alle prime esperienze di imprenditoria familiare.
Si preparano al traguardo della loro esistenza con la consueta dignità da regine, attive fino all’ultimo: a leggere, fare l’uncinetto, gioire delle nuove nascite in famiglia. Qualcuna riesce a diventare bisnonna, a festeggiare gli 80 e i 90 anni.
E guardandosi indietro non hanno rimpianti, perché hanno seminato e coltivato bene il campo di grano della loro vita: le spighe sono dorate e la mèsse abbondante.
Solo di tanto in tanto le trafigge la nostalgia: della giovinezza lontana, del primo amore e del primo bacio, dell’agilità e bellezza del loro corpo sfiorito.
Ma non lo danno a vedere: si asciugano di nascosto una lacrima sorridendo ai nipoti e percorrono in silenzio i grani del rosario.
MGC/gennaio 2016