Detesto i cellulari e i dispositivi elettronici. Da ormai più di sette anni non ho un computer, né un televisore. Non importa se al lavoro mi deridono perché non sono mai aggiornato sulle notizie di attualità: per me l’unica cosa importante è godermi il tempo libero leggendo un buon libro o costruendo modellini di aerei.
Tutto ebbe inizio un sabato, mentre aspettavo la chiamata di un amico che viveva a Roma. Mi aveva scritto che avrebbe chiamato quel giorno per darmi una notizia importante. Rimasi in casa ad aspettare: sospettavo avesse scoperto qualcosa sulla mia ex e preferisse dirmelo per telefono.
Erano otto anni e nove mesi che non avevo sue notizie. Mi aveva lasciato con una mail in cui diceva che avrebbe girato il mondo con uno chef italiano. Le erano bastate undici righe per mandare in fumo undici anni di fidanzamento. Una capacità di sintesi davvero notevole. Ancora oggi non mi spiego come mai fosse scomparsa da un giorno all’altro.
Ero nervoso, le ore passavano e il mio amico non chiamava.
La sera, preoccupato, alzai il ricevitore e scoprii che non c’era linea. Mi prese una rabbia enorme: con quello che si fanno pagare il servizio fa pure schifo! Non avevo modo di avvisare il mio amico del guasto.
Casa mia brilla sempre come uno specchio e divento di cattivo umore se qualcosa non funziona. Passai quindi il resto del fine settimana ad alzare il ricevitore ogni mezz’ora. Il lunedì rinunciai al pranzo e andai all’ufficio della compagnia telefonica per segnalare il guasto. Dovetti fare una coda lunghissima e, come se non fosse bastato, quando arrivai al bancone, quella menomata della commessa disse che il sistema non registrava malfunzionamenti associati al mio numero e, pertanto, non avrebbe potuto accogliere il reclamo. Le chiesi con ironia se vivesse con me per essere così assolutamente certa che il mio telefono funzionasse bene. Rispose con disprezzo che non ce n’era bisogno; le bastava leggere sul computer che la mia linea “non registrava guasti”. È incredibile la fede quasi religiosa riposta da certe persone nelle porcherie elettroniche. Andai in collera e, sbraitando, le chiesi di parlare con il responsabile. Feci scoppiare un putiferio e alla fine, non so se solo per calmarmi, presero nota del reclamo.
Non riuscivo a stare tranquillo: il pensiero di quella faccenda continuava a frullarmi per la testa. Se davvero la linea fosse stata in funzione? Se qualcuno me la stesse rubando? Magari la usavano per chiamare all’estero o per fare scommesse clandestine. Comunque fosse, la prima cosa che feci quando rincasai fu verificare se fosse tornata. Come immaginavo, il guasto c’era ancora. Cercai di non angosciarmi, presi la mia pastiglia per calmare i nervi e mi misi a cucinare. Stavo cenando, quando sentii il tipico suono del telefono nel momento in cui si compone un numero da un apparecchio in parallelo. Sicuro di cogliere in flagrante il farabutto, sollevai il ricevitore urlando ogni genere di insulti. Fui sorpreso nell’udire una voce femminile che, intimorita, si scusava per il disturbo. Rimasi paralizzato e, senza aggiungere altro, riagganciai.
Trascorsi i giorni successivi senza pensare al telefono. Concentravo le mie attenzioni sul lavoro, per non commettere altri errori: se mi fossi distratto di nuovo mi avrebbero senz’altro licenziato. Con l’arrivo del fine settimana, però, tornai a preoccuparmi.
Il sabato riordinai l’appartamento, lavai la biancheria e mi dedicai all’aeromodellismo. Iniziai a montare un aerosilurante Grumman TBF Avenger, con cui era composta la squadriglia del famoso Volo 19: l’inspiegabile scomparsa di quei cinque aerei nel triangolo delle Bermuda è un mistero che mi appassiona da anni. Ero concentrato nell’assemblaggio di una parte della fusoliera quando sentii il telefono squillare.
– Pronto? – dissi in tono educato.
– Ah, mi scusi, volevo fare una chiamata, ma pare che le linee siano collegate… Lei è il signore dell’altra sera?
– Sì… – dovetti ammettere, diventando rosso.
C’era qualcosa in quella voce che mi attraeva. Non saprei, la delicatezza con cui quella donna pronunciava le parole, il ritmo lento, dolce. Mi sarebbe piaciuto restare a chiacchierare con lei ma, dato che la situazione non lo permetteva, con gentilezza, riagganciai.
Il lunedì successivo passai di nuovo all’ufficio della compagnia dei telefoni e, adirato, sollecitai il reclamo. Una commessa che masticava una gomma, con gli occhiali e una faccia da “cosa vuole che le dica”, mi spiegò che i tecnici erano in sciopero a tempo indeterminato e non rimaneva altra possibilità che armarsi di pazienza. Uscii imprecando. Passai davanti al bar in cui eravamo soliti incontrarci io e la mia ex prima dell’università e credetti di averla vista studiare a un tavolino. Mi avvicinai di qualche metro e mi resi conto che non era lei.
Quella sera, mentre cenavo, sentii di nuovo squillare il telefono. Ero sicuro che fosse la stessa donna. Sollevai il ricevitore con una certa agitazione.
– Pronto? – dissi, e sentii la sua voce angelica.
Parlammo per un po’ dell’assurdità che i tecnici si fossero dichiarati in sciopero a tempo indeterminato. Ci confortammo a vicenda, poi la salutai con un “alla prossima”. Certo, concludere così un’interferenza telefonica è del tutto insensato, eppure credo che quella frase esprimesse meglio di qualunque altra ciò che provavo in quel momento. Ero sicuro che ci saremmo sentiti di nuovo: qualcosa mi diceva che le nostre linee avrebbero continuato a essere collegate, e così fu.
All’inizio ridevamo della nostra disgraziata incomunicabilità e ci congedavamo, scherzando, dandoci appuntamento al giorno dopo; poi, con un tacito accordo, cominciammo a sentirci tutte le sere. Parlavamo fino a tardi e smisi di prendere gli antidepressivi. Mi raccontò che viveva da sola in un’antica villa del quartiere La Recoleta e faceva l’aviatrice civile. Disse che un giorno avrebbe intrapreso un volo lunghissimo: si sarebbe innalzata fin sopra le nuvole e sarebbe giunta dove nessuna donna era mai arrivata ma, per il momento, dedicava il suo tempo a preparare l’itinerario del viaggio. Rideva alle mie battute. Adorava sapere i dettagli riguardanti la costruzione dei modelli in miniatura e faceva mille domande. Io restavo senza fiato quando lei, con grande erudizione, illustrava le abitudini degli abitanti di Buenos Aires degli inizi del XX secolo. Entrambi amavamo gli scrittori russi e avevamo letto quasi gli stessi libri. Ci piaceva il teatro e ci entusiasmavamo con le opere di Verdi. Le raccontai che suonavo la chitarra e una sera le cantai una canzone che avevo composto. Pianse quando le dissi che gliela dedicavo. Sentivo con sicurezza che, finalmente, l’avevo trovata. La mia giornata si divise in due: il tempo in cui chiacchieravo con Myriam e una lunga, interminabile attesa.
Una sera ci trattenemmo fino al mattino. Le domandai se un pomeriggio le sarebbe piaciuto uscire insieme a prendere un caffè, così ci saremmo conosciuti. Accettò senza indugio.
– In realtà ci conosciamo, – disse – bisogna solo che si scoprano i nostri volti.
Pensammo di incontrarci alle sei del pomeriggio al Café Tortoni. Mi sentivo così felice che, invece di camminare, fluttuavo a dieci centimetri da terra. Giunsi all’appuntamento mezz’ora prima di quanto avevamo accordato. Il bar era quasi pieno, ma riuscii comunque a occupare un tavolo dal quale si poteva ammirare tutto il panorama. Ordinai un caffè e cominciai ad aspettare. Guardavo con attenzione il viavai di uomini in giacca e cravatta e donne ben vestite. I minuti passavano. Chiesi un altro caffè. La coppia del tavolo vicino pagò e andò via. Al loro posto si sedette un uomo con l’aria da dirigente e si mise a leggere il giornale. Trasalii vedendo la mia ex entrare nel bagno delle donne. Trattenni il respiro finché non uscì. Non era lei, mi ero confuso di nuovo. Pensai alla possibilità di un malinteso e chiesi conferma del nome del locale al cameriere. Alle sette meno un quarto il mio vicino piegò con cura il giornale e se ne andò anche lui. Myriam non arrivava. Iniziai a impensierirmi. Che le fosse successo qualcosa? Alle sette, in ansia, mi alzai dalla sedia; nel dubbio, prima di andarmene, esaminai la sala tavolo per tavolo. Sono sicuro che se l’avessi vista l’avrei riconosciuta. Tuttavia, quel pomeriggio, Myriam non c’era.
Uscii scoraggiato, senza la forza di camminare. Presi come al rallentatore l’autobus fino a casa mia e, entrando, sentii il telefono.
– Perché non sei venuto? Ti è successo qualcosa? – disse Myriam con voce agitata – Sei malato? Ti ho aspettato quasi un’ora.
Ammutolii mentre lei, affranta, continuava a farmi domande. Le dissi di calmarsi, che non mi era successo niente.
– E allora perché non sei venuto? – domandò smarrita.
Cercai di spiegarle che io avevo aspettato al bar un’ora e mezza, che di sicuro il mancato incontro era dovuto a un fraintendimento. Tuttavia, con nostra sorpresa, l’ora e il luogo erano esatti. Ci vollero alcuni minuti per riprenderci dallo sconcerto. Continuavamo a parlare, ma i silenzi erano diventati così lunghi e stridenti da convincermi che uno dei due avrebbe finito per chiudere. Per fortuna superammo il brutto momento e la conversazione finì in allegria, ridendo alle mie battute sui fantasmi.
Tutto tornò alla normalità. Continuammo a sentirci la sera e, pochi giorni più tardi, nacque l’idea di una seconda uscita. Questa volta, dichiarammo, non ci sarebbero stati equivoci. Pensammo a un bar meno frequentato. Ripetemmo fino alla nausea l’indirizzo, come ci saremmo vestiti e l’ora dell’appuntamento.
Arrivai sul posto quando mancavano solo cinque minuti. Cercai un tavolo accanto all’entrata. Ordinai un gin tonic e iniziai ad aspettare. Come la volta precedente, Myriam non si presentò. Ero fuori di me. Cosa le sarà successo? Mi stava prendendo in giro? Tornai a casa infuriato ma, quando sentii la sua voce angosciata e fuori controllo, i miei dubbi sul suo comportamento crollarono.
– Mi prendi per stupida? – gridava come ammattita – Perché non sei venuto? Guarda che sono grande per giocare a nascondino!
Tentai di calmarla ma non voleva sentire ragioni. Dovetti giurarle su mia madre che ero andato anch’io e, a quel punto, tacque. Le dissi con risolutezza che quell’inconveniente aveva una spiegazione e l’avrei scoperta.
– Quindi – continuai in tono sicuro – la cosa migliore è non tornare sull’argomento finché non ci vedremo.
Incoraggiato dal suo silenzio aggiunsi che, per evitare qualsiasi equivoco, l’avrei aspettata il giorno successivo nel mio appartamento per cenare insieme. Inoltre, le dissi, avrei avuto una risposta per l’accaduto. Riagganciai, convinto delle mie parole, ma la verità era che quella faccenda mi appariva assolutamente inspiegabile.
Il giorno dopo riuscii a tornare presto dal lavoro. Mentre preparavo la cena, il cielo si ricoprì di nuvole e cominciò a piovere. Il cuore mi batteva all’impazzata. Cercavo di tranquillizzarmi pensando: “Sta per arrivare. Da un momento all’altro suonerà il citofono”. Guardai fuori dalla finestra: il temporale peggiorava. Dopo mezz’ora di attesa persi il controllo. Afferrai il telefono e composi un numero a caso sperando che lei alzasse il ricevitore. Silenzio minaccioso. “Sta per arrivare, sta per arrivare”, ripetevo di continuo, come chi prega per la salute di un proprio caro.
Poco dopo, sentendomi intontito per gli ansiolitici, mi buttai a letto. Credo che mi addormentai poiché lo squillo del telefono mi fece sobbalzare. Era Myriam, in lacrime.
– Hai avuto un incidente? – domandai preoccupato.
In risposta sentivo solo il suo pianto ferito. Quando fu calma, disse con voce spezzata:
– Mi hai mentito! Non abiti a quell’indirizzo. Sono bagnata fradicia. Ho suonato il campanello fino allo sfinimento. Ho citofonato perfino al portinaio, ma nemmeno lui ha risposto. Prima di andarmene ho suonato a un vicino e… sai cos’ha detto?
Scoppiò di nuovo a piangere.
– Che non ti conosceva e che in quell’appartamento non ci vive nessuno!
– No! Aspetta, Myriam! – gridai – Non potrei mai mentirti!
– Non so cosa pensare… Credevo fossi… Credevo fossi diverso.
– Lo sono, te lo posso dimostrare! Dammi l’indirizzo di casa tua e aspettami, ti prego.
Prima di chiudere le posi alcune domande sul mio palazzo, e lo descrisse alla perfezione. Inoltre, nominò l’antica panetteria che si trova di fronte. Ma allora, se era stata davanti a casa mia, cos’era successo? Andai dal portinaio il quale, in ciabatte e di malumore, sostenne di aver passato il pomeriggio in casa a guardare la televisione. Constatai con il suo aiuto che il citofono funzionava. Senza fare ulteriori controlli, uscii di corsa. Il temporale imperversava. Appena potei, balzai su un autobus e scesi nella via di casa sua. Percorsi sotto la pioggia diversi isolati cercando di non pensare, ma, quando arrivai, la paura mi pietrificò. Da una finestra rotta era possibile vedere che la casa di Myriam era vuota. Sembrava abbandonata da decenni. Iniziai a dare calci e pugni alla porta fino a farmi sanguinare le nocche. Non ebbi la forza di interrogare i vicini e tornai a piedi. Rincasai tardi, fradicio, confuso e con l’angoscia che mi opprimeva il petto. Mi buttai a letto così com’ero.
La mattina seguente mi alzai triste e decisi di non andare a lavorare. Tirai le tende per lasciar entrare un po’ di luce: il temporale non cessava. Preparai la colazione e mi accomodai nello studio per riprendere il montaggio dell’aerosilurante Grumman TBF Avenger. Verso mezzogiorno mi accorsi che qualcuno aveva fatto passare una busta sotto la porta: era una lettera del mio amico che viveva a Roma. Siccome non riusciva a mettersi in contatto per telefono, scriveva per informarmi che stava per sposarsi e mi invitava alle nozze. Dovevo solo trovare un passaggio: al soggiorno e al resto delle spese avrebbe pensato lui. Alla fine, con noncuranza, aggiungeva di aver saputo che la mia ex era incinta. Calcolai che non ci frequentavamo da quasi nove anni. Quel figlio non poteva essere mio. Nel pomeriggio finii di costruire l’aereo della famosa squadriglia. L’orologio segnava le sei. Ero ancora in tempo per andare al negozio a comprare un nuovo modellino.
Il padrone del locale si affrettò a ricevermi e, con un sorriso a trentadue denti, mi domandò cosa cercassi. Risposi che non lo sapevo, questa volta mi sarei fatto consigliare. Cercò allegramente tra gli scaffali e, con molta cura, depositò una scatola sul bancone. La guardava come se fosse un tesoro.
– Questo – i suoi occhi brillarono – è il progetto di un monoplano ad ala bassa, un BFW con motore da ottanta cavalli costruito in legno di pino.
Aprii la scatola e iniziai a studiare il disegno. L’aereo era un vero gioiello. Mi piaceva, ma non sapevo con certezza se acquistarlo. L’uomo lesse i dubbi sul mio volto.
– A lei interessano i misteri – affermò con l’abilità del buon venditore – Le assicuro che questo aereo ne ha molti.
Lo osservai incuriosito.
– Questa è la fedele riproduzione del Chingolo II – continuò entusiasta – il monoplano che andò perduto insieme all’aviatrice Stefford.
– Non conosco questa storia.
– Myriam Stefford. Scomparve nell’agosto del 1931 mentre sorvolava la foresta delle Yungas nel nord dell’Argentina, un luogo in cui la vegetazione è così fitta da non permettere il passaggio della luce del sole. Voleva essere la prima aviatrice a unire Argentina e Stati Uniti. Ricordo come fosse ieri – disse con nostalgia – quando mio nonno parlava delle voci che circolavano all’epoca. Si diceva che l’aereo era stato sabotato e alcuni piloti svelarono dettagli sinistri sul mistero: sarebbe stato lo stesso marito che, accecato dalla gelosia, aveva limato la chiavetta del motore dopo aver scoperto che la moglie era innamorata di un altro. Le indagini della polizia non portarono a nulla.
Balbettai che lo compravo e rincasai in silenzio con la scatola tra le mani. Senza neanche cenare iniziai a costruire il monoplano di Myriam. Continuai fino a tardi; aspettavo la sua chiamata. Alla fine, la stanchezza prese il sopravvento e caddi in un sonno profondo.
La sognai nella cabina di pilotaggio. Sapevo che non l’avrei più rivista perché stava per iniziare il suo ultimo volo. Salutava felice prima del decollo. L’elica ruotava impaziente come lancette dell’orologio. Il vento accarezzava il suo splendido viso, identico a quello della mia ex.
Saranno state le dieci di mattina quando fui svegliato dal telefono. Il cielo si era rasserenato. Sollevai il ricevitore, colmo di speranza.
– Buongiorno, signore. – disse una cordiale voce femminile – Chiamo dalla compagnia telefonica. Desidero informarla che il guasto alla sua linea è stato riparato.