Le tre leggi dell’energia
Prima legge
Tutto l’universo è formato da energia.
L’energia vibra, quindi tutto l’universo è una vibrazione.
L’energia vibra a velocità differenti, quindi mostra qualità differenti ai nostri sensi.
Seconda legge
L’energia deve scorrere, quindi per farlo deve essere in un costante stato di leggero squilibrio.
Terza legge
L’energia di una certa qualità, o vibrazione, attrae un’energia dello stesso tipo.
Quello che emaniamo ci ritorna.
Rinaldo Lampis, L’uso cosciente delle energie,
Torino, Amrita edizioni, 1993
Quel giorno di dodici anni fa, in montagna, ero in uno stato di agitazione che per me definirei naturale, come sempre. È una specie di movimento interiore che ho imparato a riconoscere negli anni e che talvolta mi fa sentire un po’ inadeguata e un po’ inappagata. Stavo aspettando che i miei ragazzi tornassero dalle piste e al solito m’era montata l’ansia. In quell’ultima settimana di febbraio la neve cadeva ogni giorno a Limone Piemonte e quei due spesso sceglievano le discese non battute e io mi preoccupavo per ogni loro ritardo.
A dire la verità, sciare sulla neve fresca è esaltante e piace molto anche a me. Poi, con le gobbe e i montoni è ancora più divertente, anche se è un po’ pericoloso nel caso in cui si ha poca esperienza.
Stavo aspettando il ritorno dei miei figli in questa mia casetta di montagna che avevo messo su con cura e attenzione e non avevo niente da fare se non aspettare. Ero lì che scrutavo la mia libreria e cercavo qualcosa da leggere per rilassarmi nell’attesa che quei due impuniti ritornassero.
La mia predisposizione d’animo è sempre stata rivolta al miglioramento della mia posizione rispetto al luogo che abito e al tempo che vivo, anche alla ricerca di una specie di perenne spazio amniotico dove purificare lo spirito e la mente e vivere una gioiosa serenità.
Nella vita mi sono sempre aspettata qualcosa di epocale. Non in termini di potere economico o sociale ma piuttosto riguardo al modo di stare sulla Terra, qualcosa che potesse sempre e in ogni momento cambiare la mia percezione delle cose, del mio mondo, della mia esistenza. Per questo senso di adesione, di condivisione, ho sempre viaggiato cercando posti nuovi e costruendo vite differenti in ogni geografia trovata, anche se il viaggio che ho sempre apprezzato di più è quello che ho fatto – e faccio – da quando sono nata. È il viaggio che ogni singolo individuo fa all’interno di se stesso e ha a che fare con il senso di appartenenza, con la gioia di vivere nell’universo al di là di ogni illusione materialistica, ha a che vedere con la possibilità di guarire da ogni bruttezza visualizzando l’essenza di ogni desiderio, capendo se il raggiungimento di un obiettivo anelato davvero renda poi migliori e indentifichi felicemente ogni atto creativo della nostra vita.
So per esperienza che ogni tappa di questo viaggio interiore è stata sempre una rinascita, con tutto il bagaglio di quello che ero stata e qualcosa sempre in più che poi mi ha forgiata, aperta alla possibilità di integrazione con quello che mi circondava. Ogni fermata di questo viaggio, poi, è stato il momento in cui ho pianificato una mia nuova partenza per un luogo nuovo dove ho cercato, tentato di approdare successivamente.
La fermata è il momento in cui mi preparo a intuire, liberare, immaginare e quindi a migliorarmi, traslocando i miei affetti in un posto più limpido e più comprensibile, sgombro e purificato dall’incubo delle frustrazioni fisiche e dei risentimenti, dai rimpianti. Tuttavia, questo viaggio ho sempre avuto bisogno di affrontarlo partendo da un luogo che mi rappresentasse, che accogliesse l’opportunità di trovare ogni mia reale e nobile essenza senza smarrimenti, con accudimento. Sarà questo il motivo per cui sono sempre stata attirata da dimore abbastanza rotondeggianti e facilmente arredabili.
Il fatto è che io ho capito di non volere dei passati troppo ingombranti. A me piace avere una specie di direttiva da raggiungere, un pezzo alla volta, e nell’ambito di questa caratteristica la percezione del posto che mi circonda è fondamentale. Ho imparato che in una casa piccola le emozioni sono più facilmente fruibili e non agisco soltanto per la mia individualità ma anche per la necessità di una riunificazione con l’esterno, con una forma di energia che è nutrimento per lo spirito.
Dunque, ero lì in montagna quel giorno di febbraio. Osservavo tutta la mia serie di libri di arredamento, depliant, fotografie, riviste di posti che collezionavo e dove io avrei voluto avere una casa, e mi domandavo cosa potessi leggere. Tutto rigorosamente parlava di country, di campagna, stavo scegliendo e all’improvviso, accidentalmente, mi cadde sul piede un giornale: Vivere Country, la vita in un posto in campagna, proprio sull’alluce.
Dopo aver un po’ zompettato di dolore per casa, maledicendo la mia innata distrazione notai che la rivista si era aperta in un punto preciso e due vecchi mulini rivelavano il loro splendore. Ancora dolorante, di sottecchi guardavo un po’ quelle pagine e un po’ tornavo con lo sguardo al mio alluce sperando che non mi si gonfiasse il dito. In ogni caso, dopo un altro pugno di imprecazioni, mi sedetti sul divano massaggiandomi il piede e cercai di capire di cosa si trattasse.
La località, innanzitutto, era Gagliole, nelle Marche, in provincia di Macerata. Io ho vissuto a Terni per un po’ e quindi questi luoghi mi sono abbastanza familiari. Leonessa e Amatrice erano le mete preferite della mia mamma scalatrice e in effetti a me l’Appennino piace perché può essere dolce e pieno di colori, ma può essere anche molto aspro e duro con i suoi scuri e la sua impervia scontrosità. Un po’ Yin e un po’ Yang.
Questo territorio ha colline basse e tante sono le colture che si concentrano soprattutto a fondovalle e fin dalla prima volta, che visitai questi luoghi, rimasi affascinata dalle querce maestose che rimarcano le viuzze vicinali e punteggiano i campi, dai cerri, dai lecci, dalle distese di asfodeli in fiore, dal profumo intenso della madreselva etrusca che si arrampica su per le colline alte, boschive, e dove spesso è facile trovare qualche borgo medioevale.
La foto del primo mulino con enormi querce intorno, come sanno essere enormi e belle le querce delle Marche, era stato da poco ristrutturato e veniva utilizzato come bed & breakfast. Bello senza dubbio, ma mi appariva tutto un po’ messo apposta per essere apprezzato nella sua luce migliore. E poi lo vedevo enorme, troppo grande per le mie esigenze… No, non era di mio gradimento.
A duecento metri da questo primo mulino, attraversando un pioppeto, si arrivava all’altro mulinetto costruito su due piani. Mulinetto… Insomma, piccolo piccolo proprio non era, ma nemmeno gigante come il suo gemello.
Sulla rivista era stato fotografato in un paesaggio invernale e con la luce del pomeriggio ispirava serenità, accoglienza. C’erano svariati scatti da varie angolazioni, ma la foto che mi colpì più delle altre lo ritraeva da dietro. A guardarlo dal basso sembrava avesse quattro zampone al posto dei pilastri portanti, affondate nella terra con potenza e autorità, una postura che sapeva di antica protezione, di solidità. Dalla parte sinistra notai un arco da dove scorreva un ruscelletto, proprio sotto una parte della costruzione. Tre grandi finestre al primo piano e tre piccole al secondo, erano nasi da cui il mulino respirava, fiatava il buono di dentro. C’erano anche foto dell’interno e la casa appariva come una groviera. O meglio: come costruita con cellette, quasi un favo, ma al posto del miele in quei buchi ci mettevano suppongo la legna, i sacchi di grano che poi venivano buttati di sotto, dove c’era la tramoggia un po’ malandata, a dire il vero. E poi vidi le macine, con una grossa vite al centro…
Tutto questo non so se me lo immaginai lì per lì o davvero lo stavo osservando dalle foto o forse mi sto ricostruendo il puzzle dopo averlo visto, ma Mulino mi folgorò. Non lo avvertivo soltanto come un caseggiato del XIII secolo, piuttosto avevo avuto l’impressione di qualcosa di vivo e mi pareva addirittura di sentirlo il rumore dell’acqua che scorreva lenta e inesorabile, come una ninna nanna, per tutta la costruzione. Me lo sentivo trascorrere addosso, come il tempo suo avvenuto, come il ruscelletto che scorreva sotto le sue fondamenta. In quel momento, pensai, ero anche disposta ad aver paura restando magari sola lì, con il bosco intorno e tutta la sua vita, anche in pieno inverno, anche di notte. Fu una sensazione piacevole, di pace sì, come se avessi diritto ad abitare il posto e le mura che mi si erano parate davanti.
Chiusi la rivista, non prima di aver registrato tutti i contatti. Telefonai qualche ora dopo per avere tutte le informazioni e dopo quattro giorni misi in croce un mio amico e mi feci accompagnare a Gagliole.
Facemmo seicento chilometri in fibrillazione, a velocità sostenuta. Sentivo qualcosa che mi chiamava e, soprattutto, avevo saputo che c’era un altro acquirente e non potevo permettere che Mulino andasse a qualcun altro.
Era l’ultimo giorno di febbraio e con me portai anche il mio bassotto Arturo.