La notte è rumorosamente silenziosa. Fuori dal Blue Bar due ragazzi si scolano una birra con lo sguardo vacuo. In un angolo c’è uno che piscia contro il muro, malfermo sulle gambe. Risa soffocate dall’interno e sapore acre di qualcosa di imputridito dentro. Sul selciato bagnato da una pioggia sottile scrosciano passi svelti e ticchettano tacchi a spillo.
Laura, Lora per gli amici, ha perso l’ultimo bus e sfoga sulla bacheca della fermata la sua rabbia impotente. È sola ed è abituata a cavarsela, ma questa sera, anzi questa notte, ha un freddo di rabbia e di paura che le secca la bocca e le labbra. Quello stronzo bastardo l’ha mollata lì, come un pacco indesiderato, e lei a chiamarlo con voce arrochita e incazzata, ma niente: lui è uno come nei film noir, uno che non si volta indietro, uno che scappa via, arrogante e vigliacco, per quel suo figlio di cui non vuol sapere.
“Da una puttana come te non mi faccio incastrare. Vattene, stronza”, ha detto.
Lei lì ferma, gelata, incapace di reagire. Solo quando lui si è allontanato le è uscito un grido strozzato.
“Bastardo! Vigliacco e bastardo! Ti ho anche amato ioooooo… Vai. Vai, che mi fai schifo”.
La camera è in penombra. Un abat-jour manda una luce fioca, nel soggiorno alla tele scorre un film con Scamarcio.
Laura è appoggiata a morbidi cuscini e ha la testa reclinata sulla spalla di Adriano. Hanno cenato a lume di candela e lei gliel’ha detto davanti al dolce, alzando un calice di Passito trovato nel vecchio buffet.
“Il test è positivo… Aspettiamo un figlio”.
Lui la guarda sorpreso poi subito si dà una mossa. Gli uomini non sanno mai cosa fare in questi casi. E la guarda negli occhi, sorridendo intenerito della sua spaurita dolcezza.
“Sono felice”, e come per convincersi posa una mano sul ventre di lei.
Laura ha lo sguardo nei suoi occhi, ma in realtà è già oltre i suoi occhi, in uno spazio dilatato che a lui non è dato vedere né immaginare.
Adriano intuisce di essere di troppo e avverte una fitta di gelo fastidiosa e frustrante.
Lei gli sorride.
“Che hai? Hai una faccia!”.
“Niente. Oggi è stata una giornataccia, perdonami”.
Il corpo tiepido e levigato che ben conosce e si nasconde appena sotto un sottile strato di stoffa, sembra aver eretto contro di lui una barriera insormontabile che spegne sul nascere ogni pulsione di desiderio.
È così che ci si sente la prima volta?, si chiede.
A proposito di paternità, s’intende.
I muri della stanza sono freddi come le pareti di una grotta e sanno di cavolo rancido, tipo mensa militare. La carta da parati è macchiata e piena di strappi.
Lora è al settimo mese, la pancia è sporgente più di quanto lo sarebbe se non fosse così magra. Gli occhi semichiusi e le labbra livide e serrate la fanno sembrare ciò che non è ancora e nemmeno vuole essere.
Lei ci è nata nell’odore della miseria. Ha provato a scrollarselo di dosso, ma è stata sempre e solo un’illusione. L’hanno fregata il sentimento e la passione, quella che ti nasce nel ventre, lì dentro, chissà perché e percome, quella che ti illude, ti annebbia la mente e ti fa sentire sospesa nel tempo e nello spazio, senza tempo e senza spazio appunto, solo un vortice, un desiderio, una follia.
Quanto amaro in bocca dopo, fino a vomitare, ma non sempre e non quella volta, quella di quasi nove mesi prima. Lì l’aveva spremuto tutto il sentimento, quell’avanzo in fondo al cuore, il suo, che credeva secco come una prugna secca e invece era solo una spugna strizzata che aspettava, per espandersi, ben poco: uno sguardo, due parole, anche solo due, di desiderio, magari un complimento, con quel minimo di garbo che non fosse abbassare in fretta i pantaloni e via.
“Mi piaci, farò di te una regina, una nuova Marilyn. Ci so fare io, conosco persone, fidati! Tu sei sprecata qui”.
E le aveva messo in mano due biglietti da cento.
“Comprati un vestitino e della biancheria. Insomma, tu capisci vero? Domani ti telefono, ti combino un provino, è uno giusto”.
Aveva odore di tabacco il suo bacio profondo, si muoveva come un ballerino di flamenco, un gigolò con la faccia da impunito in cui lei aveva intravisto una luce negli occhi, e poi lui, il Chico, ci aveva aggiunto una carezza astuta e calda partendo dalla nuca, prima di arrivare al punto di non ritorno.
È da quella sera dell’urlo strozzato che non lo sente né sa più nulla di lui.
Rosita, Rosa Jimenez Blanca Sendero, un’amica, insomma una che le passa qualche cliente, un lavoretto, qualche spicciolo, due parole appena, ma preziose.
“¿Cómo estás, que pasa Lora?”.
Insomma, Rosita la sta aiutando. Le ha anche procurato l’indirizzo di una tizia, all’inizio della gravidanza, sì per un aborto, quelli da pochi soldi, ma lei no, non ha voluto.
Ora è lì che accarezza la sua pancia e quel suo desiderio che si muove scalciando ed è un sorriso amaro il suo, un sorriso esausto.
La luce che filtra dalle persiane stinte e sbilenche è fioca, lei è digiuna. Sente dei passi su per le scale, è l’ora di Rosita con qualcosa per cena: sì è l’ora e sembra un gioco di parole.
Lora perde conoscenza proprio in quel momento, proprio mentre un liquido caldo le sta scendendo tra le cosce.
La porta si apre da lì a cinque minuti e poco dopo, ma lei non potrà ricordarlo, una sirena e una luce violetta intermittente riempiono a sprazzi la stanza e violentano il vicolo, per quei venti minuti necessari, lasciandolo poi opaco e smarrito com’era prima, rintanato nel suo buio maleodorante e desolato.
Laura si è svegliata dolcemente intorpidita, è da tanto che non le succede, la stanza è in penombra. L’orologio digitale segna le 9.30.
“Accidenti, è tardi!”.
“Ma che tardi. Dove mai devo andare!”, e si rigira sull’altro fianco, chiudendo gli occhi.
È la sua mattinata libera, il lunedì mattina. Lo studio di architettura può attendere.
Dal tepore carezzevole del cuscino, nella sua mente cominciano a fiorire le proiezioni delle più recenti elaborazioni d’interni che, a mano a mano, prendono sempre più le fattezze di quella che sarà la sua casa, quella in cui andranno ad abitare lei e Adriano prima che nasca il figlio. Sono una coppia di fatto e non convivono nemmeno, per adesso, benché si conoscano da più di tre anni.
Questo pensiero s’intrufola nella sua mente fino a prevaricare. Lui ha una famiglia, d’origine s’intende, i due genitori e alcuni cugini. Questi ultimi vivono a centinaia di chilometri, sparsi per l’Europa, ma i genitori no, vivono con lui, o meglio è lui che vive con loro e piacevolmente accudito a quanto pare, perché non sembra avere nessuna fretta di schiodarsene.
È la prima volta che questa riflessione si fa strada in lei e, proprio perché inaspettata, la fa pensare. Laura è pazzamente innamorata di Adriano, gli ha dedicato tutta se stessa e con lui ha – hanno?, si domanda – fatto un figlio e nemmeno conosce i suoi suoceri. Lui gliene parla spesso, questo sì, ma non glieli ha mai presentati o meglio, ora che ci pensa, lo ha evitato anche quando sembrava inevitabile.
“Mia madre è particolare, un poco protagonista, soffre di alti e bassi d’umore”.
“In questi giorni è intrattabile”.
“Stanno partendo per un viaggio, una crociera, così si distraggono un po’”.
“Mio padre deve affrontare un piccolo intervento e, dopo, la convalescenza”.
“La casa è in disordine, la donna che li aiuta è ammalata e mia madre, con il suo carattere, sarebbe in imbarazzo”.
In realtà si sono sentiti al telefono, lei e i futuri suoceri; ha telefonato lui, a dire il vero, passandoglieli per un saluto: in genere auguri di Natale o compleanno, poche occasioni e poche parole.
Ma come sono strana, puntigliosa fino alla pedanteria nel lavoro e così facilona nelle relazioni affettive, pensa Laura, che di passione vive e ci si è tuffata dentro tutta nella relazione con quest’uomo, fino a farci un figlio.
Per la prima volta comincia a percepire aspetti problematici e contraddizioni che la mettono a disagio.