Questa storia è collocata nel 1870, nel momento in cui la grande avventura nazionale che ha portato all’unità italiana sta per giungere al suo culmine: la presa di Roma. All’inizio dello stesso anno, sull’altra sponda del Mediterraneo, si apre il canale di Suez: una via veloce verso l’Oceano Indiano che restituisce al Mare Nostrum almeno parte dell’antica centralità. È anche in conseguenza di questo evento che il neonato Regno d’Italia decide di inserirsi nella contesa coloniale con gli altri paesi europei e di acquisire, attraverso la copertura della Compagnia Rubattino, una base logistica nella Baia di Assab, proprio all’imbocco del Mar Rosso.
Da alcuni decenni, la crisi dell’Impero Turco, iniziata quasi due secoli prima con la sconfitta delle armate ottomane sotto alle mura di Vienna, sta precipitando e sulle spoglie del “Grande Malato” si combatte tra le potenze europee emergenti, Inghilterra, Russia e Francia, una lotta senza esclusione di colpi, mentre l’Impero AustroUngarico, a sua volta stremato dal confronto secolare con i Sultani di Costantinopoli e dalle ribellioni interne, assiste quasi impotente alla fine di un’era.
In questo contesto si muove il protagonista della nostra storia, successore dei Capurro, dei Pittaluga e dei Traverso che sono stati protagonisti delle avventure raccontate nei romanzi da me pubblicati in precedenza. Di ascendenze tabarchine, il giovane impiegato Andrea Traverso si muove in una Genova in cui, dopo gli entusiasmi mazziniani, i Rubattino, i Bombrini e gli Ansaldo pongono le basi per il decollo dell’industria e della finanza nazionale. Eroe suo malgrado, si sposterà tra il Mar Rosso e il Mar Nero, tra Suez, Alessandria e Costantinopoli, sugli itinerari mediterranei percorsi dallo spionaggio internazionale in una lotta senza esclusione di colpi cui sarà, alla fine, costretto a prendere parte, per uscirne più maturo e più consapevole.
Trovate sotto, come è ormai consuetudine, un prospetto che riporta le date più significative della nostra vicenda: in caratteri ordinari quelle relative ad eventi storici effettivamente accaduti e in corsivo quelle relative a fatti e personaggi di fantasia immaginati per questo romanzo
Un’ultima avvertenza: come si può capire, una storia ambientata nello scorcio del diciannovesimo secolo si presta a ricreare ambienti, personaggi e situazioni del periodo più fecondo della narrativa d’avventura, da Conrad a Stevenson, da Dickens a Kipling e a London, fino a Melville oppure a certi gialli di Agatha Christie. Ho riletto molti lavori di questi e altri autori, per ritrovare il colore di quelle storie e di quel tempo; da alcuni di questi, ho anche attinto a piene mani, per riprendere descrizioni talmente dirette, precise e attuali che non ho potuto fare a meno di utilizzarle nel nuovo contesto cui stavo lavorando.
Tra i” ganci” e le citazioni, se avete voglia di fare un po’ di caccia al tesoro, segnalo Salgari (le Sunderbunds, James Brooke, “l’ennesima sigaretta” del Cav. Grondona), Gozzano (L’amica di Nonna Speranza, nella descrizione degli uffici del Ministro Visconti Venosta), Luigi Pirandello (ne I Vecchi e i Giovani, verso la fine del V capitolo, racconta una storia di un suo personaggio, il garibaldino Mauro Mortara, con l’esploratore Antinori -realmente esistito-, che qui è ripresa, per combinazione proprio nel V capitolo). Ma c’è anche un omaggio a Gilberto Govi e Vincenzo La Rosa (Colpi di timone) E ci sono Hugo Pratt (la nave Argo, La Valletta, e poi brevi flash qua e là), Lino Landolfi (Procopio di Torrecupa) e Fabrizio De André (un premio a chi lo trova). Poi ci sono Poe e Verga, ma soprattutto ci sono Alvaro Mutis nelle descrizioni dello Steamer e De Amicis in quelle di Costantinopoli: qui rischio il plagio.
Infine: a uno dei personaggi è stato appioppato il soprannome di Mussa de Faero. Era nell’insegna di una trattoria di Sestri Ponente che per combinazione ha chiuso definitivamente proprio in questi mesi. Un altro pezzettino di Genova che se ne va. Una prece.
Prologo: 1835, Guwahati (Assam, nel nord della penisola indiana)
La grossa mano di Tagaryscioff accarezza piano la folta barba rossiccia; l’indice e il pollice scorrono lenti ai due lati del volto, sui favoriti abbondanti, e scendono fino a raggiungere il collo. La bocca si apre in un sorriso di superiorità soddisfatta che lascia intravvedere il luccichio di due denti d’oro. Il ventaglio di carte da gioco nella destra del russo si apre quanto basta e lui ne pesca una. La appoggia, lento e sicuro, sul tavolo per poi schiacciarla con forza. Sotto la pressione, il pollice carnoso, segnato dagli anni, cambia appena colore, sbiancando intorno all’unghia mal curata. Il piccolo cinese pallido che gli sta seduto di fronte accenna appena a ritrarre il capo, come una vecchia tartaruga, dentro alla vestaglia scura; poi stringe gli occhi e deglutisce piano.
- Il Whist non è il tuo forte, Wang Chu. Non avresti dovuto sfidarmi. Mi devi già un bel po’ di rupìe. Sei sicuro di voler continuare?
Il suo avversario ha un fremito. I figli del Celeste Impero, lo sanno tutti, hanno il gioco nel sangue. Non sanno resistere alla sfida dell’azzardo e lui non fa eccezione. Per parlare con l’altro, si esprime in un inglese essenziale:
- Va bene, Capitano. O tutto o niente. Facciamo ancora una partita. Se vinco, vado in pari. Se perdo, pago posta doppia.
Il russo raccoglie le carte sparse sul tavolo e le porge al compagno.
- D’accordo, se vuoi così. Fai tu le carte. - Poi, mentre l’altro mischia il mazzo con impegno puntiglioso, scopre il calcio del revolver che tiene sotto l’ascella: - In ogni modo, se perdi, non pensare di rimettere in discussione le mediazioni sullo scambio che abbiamo combinato.
- Non sono così stupido. Questo è gioco; quello è lavoro. Basta che la roba arrivi. – risponde, quieta, la voce sottile di Wang Chu - I ribelli del Sikkim hanno già depositato i soldi nella banca olandese, a Batavia. Sbloccheranno il pagamento non appena verificato il carico, una volta che questo avrà raggiunto l’approdo di Siliguri.
- Allo Zar Alessandro fa comodo che le frontiere del subcontinente siano in subbuglio e creino complicazioni agli inglesi. È quanto ci occorre per poter continuare senza disturbo la nostra espansione in Asia. Come ti ho detto, nello stesso giorno in cui c’è stata conferma che i soldi erano arrivati in deposito alla banca, la nave con le armi è partita da Batavia per Singapore, secondo quanto concordato. Ora dovrebbe essere già in viaggio per le Sunderbunds e Chandpur, alla foce del Gange. Da lì, il carico risalirà per il Brahmaputra e poi per affluente, fino a Siliguri. Ti ripeto, quindi, che puoi fidarti dei venditori che io rappresento. Tu, però, rispondi della correttezza degli acquirenti. Non scordarlo.
Durante questo scambio di considerazioni, le carte sono state smazzate e distribuite. Ora il gioco riprende, in perfetto silenzio, nella piccola stanza buia, resa anche più oscura dai pesanti, malconci tendaggi di velluto rossiccio che nascondono le pareti e le finestre, sempre che queste esistano, da qualche parte: il pesante odore di cavoli, pesce marcio e riso fermentato che pervade l’abitazione del sedicente Mandarino Wang Chu, infatti, induce a dubitare della loro esistenza.
Non ci vuol molto: la partita finisce in fretta, e la disfatta del cinese è totale. L’uomo si torce le mani. È in difficoltà.
- Amico Tagaryscioff, - propone con il volto contrito - al momento non ho liquidi, per coprire una perdita così forte. Posso firmarti una promessa di pagamento, da onorare quando la mia mediazione sarà stata pagata?
Il russo aggrotta le spesse sopracciglia. Ora è in piedi e, alla luce stenta della lampada appoggiata sul tavolo, la sua ombra sembra trasformarsi in quella di un orso gigantesco: - Amico un corno. - brontola, e la sua voce rotola minacciosa come un tuono che si avvicina. - E non ho nessuna voglia di aspettare che tu sia scappato a nasconderti in qualche buco puzzolente della Grande Muraglia. Abbiamo finito di giocare, e questo è il momento di onorare i debiti. Fuori i soldi!
L’altro, imbarazzato, si contorce. Poi, un piccolo sorriso ammiccante anima i suoi lineamenti giallastri.
- Forse ho una cosa che potrebbe risolvere la questione con reciproca soddisfazione… Una cosa di valore… Ma di grande valore: dovresti darmi un conguaglio…
Il Capitano è incuriosito. - Vediamo. - borbotta. E il cinese lo guida nei meandri della propria abitazione, precedendolo con la lanterna in mano, fino a raggiungere un’altra stanza, più segreta, che deve essere il suo sancta sanctorum, il luogo ove conserva i documenti confidenziali e le cose più care. Apre un importante sécrétaire laccato, maneggia con i cassetti, e alla fine estrae da un grande scomparto un oggetto che adesso risplende alla luce della lampada, riflettendola con bagliori verdi e dorati. Lo appoggia con religiosa devozione sul tavolo, in un angolo del locale.
Tagaryscioff, che lo ha seguito dappresso, si avvicina, portando all’occhio destro la caramella che ha estratto dal taschino. Rimane in contemplazione dell’oggetto, tormentando, concentrato, la punta folta e spessa di un baffo.
Ciò che Wang Chu ha deciso di mostrargli è con tutta evidenza uno splendido, prezioso prodotto dell’artigianato cinese. Si tratta di una statuetta di dimensioni non piccole, lunga all’incirca due palmi, raffigurante un leone sdraiato, in posizione di riposo, ma con la coda che sferza l’aria, come ad avvisare di stare attenti, che la calma apparente può rapidamente trasformarsi in un’aggressività improvvisa e micidiale.
Il materiale usato dall’artista per realizzare il corpo della belva è lucido, di colore verde: allo sguardo attento del russo appare palese che si tratta di giada. Per la criniera, gli occhi e la coda, invece, è stato utilizzato dell’oro biondo, che aggiunge pregio ulteriore al lavoro dell’orafo.
- Una giada Feji Tsui. - mormora il cinese con reverenza. Poi - Che ne dici, mio onorevole amico? Pensi che possiamo ragionare su uno scambio?
Il russo risponde alla domanda chiedendo a sua volta: - Come lo hai avuto? C’è una storia, dietro a questo leone?
- La storia c’è, ma non è il caso che te la stia a raccontare tutta. Posso solo dirti che questo oggetto fa parte di una antica parure da scrivania, appartenuta a un alto funzionario di Beijing, la capitale dell’Impero. Sfortunatamente il calamaio e il portapenne sono andati smarriti ma, oltre alla statua, che funge da fermacarte, si è salvato il sigillo.
Mentre il cinese racconta, la sua mano traffica con l’oggetto. Si sente lo scatto di una molla e la criniera del leone si solleva, rivelando uno scomparto segreto, dall’interno del quale Wang estrae un anello realizzato con gli stessi materiali utilizzati per la statuetta e raffigurante in effige la testa dell’animale.
- Come vedi c’è anche un piccolo vano nascosto, per conservare oggetti o documenti riservati… - L’orientale sta ancora parlando quando l’altro scatta con una velocità imprevedibile, data la sua mole, e, strappatogli di mano il sigillo, si interpone tra lui e il tavolo sul quale è appoggiato il leone di giada.
- Molto bene. Credo che, alla fine, riusciremo a metterci d’accordo.
Il cinese, confuso e preoccupato, abbozza: - Non ho finito di raccontarti… Comunque, avrai visto che l’oggetto è di grande valore… Dovremmo accordarci per un conguaglio.
- Conguaglio? Tu continui a menare il can per l’aia e a tirare in lungo, perché vuoi trasformare una sconfitta al gioco in un affare per te, ma non mi imbrogli. Dubito molto che, a rivenderlo, potrei rifarmi del denaro che mi devi ma, si sa, noi russi abbiamo il cuore grande… Voglio venirti incontro. Prenderò questa roba senza chiederti altro. Siamo pari e patta.
Così dicendo, il Capitano, allungata una delle sue grandi mani ad afferrare anche la statua, muove un passo per uscire dalla stanza, ma il grido del cinese lo fa tentennare:
- Ricorda! Non ti ho detto tutto! C’è una maledizione!..
Appoggiato allo stipite della porta, Tagaryscioff lancia all’altro uno sguardo interrogativo ma per nulla spaventato. Wang coglie l’opportunità:
- Guarda il ventre del leone. Vedi che ci sono incisi dei caratteri nella mia lingua? Dicono che chi si approprierà di questo oggetto prezioso con la violenza o il raggiro non morirà nel suo letto.- Il cinese si ferma, poi piagnucola: - E tu mi stai rapinando!
- In effetti, data la vita che faccio, non mi aspetto di morire nel mio letto: magari morirò nella steppa o su qualche montagna, oppure nel boudoir di qualche splendida bagascia turca o siamese. Comunque dovresti ringraziarmi: se non mi hai voluto dire come lo hai avuto, quasi certamente è perché si tratta di cosa che non puoi raccontare, quindi, portandotelo via, ti sottraggo alla maledizione. Davvero, - conclude ridendo, compiaciuto della trovata - dovresti ringraziarmi! - E si allontana a gran passi, diretto all’uscita.
Noi, invece, rimaniamo qui nella stanza, almeno ancora un poco, a contemplare il povero Wang Chu. Una lacrima sta formandosi nell’angolo dal suo occhio a mandorla, ma non è una lacrima di dolore. Lo sguardo dell’orientale, infatti, è carico d’odio e di rabbia, e il mormorio che esce dalle sue labbra è ben diverso da un lamento. Una litania di maledizioni in cinese accompagna l’uscita di scena del Capitano Tagaryscioff e del Leone di giada.