Marco Ventura
Realtà è il nome del sogno che stai sognando

Titolo Realtà è il nome del sogno che stai sognando
Autore Marco Ventura
Genere Narrativa - Psicologico      
Pubblicata il 16/05/2017
Visite 2506
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Spazioautori  N.  3672
ISBN 9788893390620
Pagine 240
Prezzo Libro 15,00 € PayPal
Le cose non sono mai come sembrano.
Una paziente scappa da una clinica e lascia dietro di sé un cadavere.
Un uomo la insegue nel tentativo di capire chi è davvero, da cosa e da chi sta scappando. L’indagine lo porta a molteplici incontri e alla ricerca di se stesso.
Un’analisi destinata a dare un senso a quel sogno, così complesso e pieno di sorprese, chiamato "esistenza". Sogno che non sempre riusciamo a capire, davvero, se non alla fine, quando ci svegliamo.
 
Ero appena salito e già volevo scendere.
Anzi “dovevo” scendere. Ma non ero sicuro di riuscirci senza farmi male. – Scendi! Svelto! Sì, dovevo proprio scendere e forse era già troppo tardi. Tutto aveva incominciato a girarmi attorno. La sensazione di pericolo stava aumentando. No! Dovevo resistere. L’unica cosa era cercare di resistere. Il più possibile. E mi sudavano le mani. Cristo! Non mi sono mai piaciute le giostre. E allora cosa ci facevo quassù? Come ci sono arrivato su questo enorme cavallo bianco? … Oh mio Dio, ma è vivo? … come fa? … con questo palo dorato che gli trafigge la schiena? … Eppure sembra felice… sembrano tutti felici… Io no. Non sono felice. Odio le giostre!
Mi fanno tristezza, paura… non mi sono mai piaciute, neppure da piccolo… o forse da piccolo sì, qualcuna, ma certo non quelle come questa, con i cavalli, bordati d’oro… eppure l’ho fatto… quando ci sono salito ero piccolo… ora sono grande… Sono cresciuto! Sono cresciuto su questa giostra? Non è possibile. – Scendi! Svelto! Sì, devo scendere… ma non posso…
Gira troppo forte per me e qualcosa mi tiene incollato alla sella… una voce… una voce mi dice che non devo lasciare questo posto. Gli occhi del cavallo mi dicono che non devo. Tutto quello che gira mi dice che non devo. Le mie mani, strette attorno all’asta, dicono che non devo. E comunque, anche se volessi, sono bloccate, non si aprono, ho paura.
Ho paura di restare quassù. Ho paura di scendere… Questo non è un gioco, chi ha detto che è un gioco? Sono troppo piccolo per arrivare a terra. Credevo di essere grande ma ora mi sento troppo debole per riuscire a scendere. Non posso farcela da solo. Aiuto, ho bisogno d’aiuto. Mi guardo intorno, c’è qualcuno che mi può aiutare? C’è, veramente, qualcuno? Devo smettere di guardare solo la schiena di questo mostro bianco e oro. Devo alzare la testa… C’è qualcuno? … SÌ … forse … credo. Ma sto girando troppo forte, tutto appare e scompare, non riesco a fissare un punto, ci sono troppe cose che girano, troppe facce, troppe idee… cerco la faccia di mia madre ma non la vedo… so che deve essere lì… Deve!… tremo se penso che non la vedrò mai più … eppure… eppure… deve esserci… Ci sarà qualcun altro che conosco, che mi conosce? Cosa devo fare? Stringere gli occhi o allargare le pupille? Cerco di fare del mio meglio ma sono in un vortice, giro troppo veloce, tutto si confonde, facce grasse, amiche, sconosciute, paurose, indifferenti… credo di riconoscere… No! Non riesco a riconoscere nessuno. E poi, ad ogni giro, cambiano. Ad ogni giro trovo vecchi amici, lascio i volti di oggi, ritrovo antichi dubbi, nuove paure. Solo un’ombra è sempre la stessa. Sempre. Ad ogni giro. Non vedo la sua faccia ma sento che la conosco. È lì! Marca lo Zenith di ogni mia rivoluzione, a volte più vicina, poi nascosta tra le altre… Devo scendere… non posso più sostenere la forza che mi schiaccia, che mi tira. Devo scendere. Ma so che se scendo non saprò mai chi è quell’ombra. Devo resistere. Riuscire a sorgere e a tramontare ancora un giorno, uno solo. Ancora uno e so che riuscirò a vedere chi è. Riuscirò a capire cosa c’è dietro, dentro… ancora un evoluzione… ora, voglio, resistere… anche se adesso non sono più sulla giostra e non è la giostra che gira… In questo istante eterno sono fermo, perfettamente immobile. Ora sto bene, ora sono io il perno è tutto il resto che gira… ogni mio mondo passato mi gira intorno ed io lo illumino, sono diventato luminoso. Ogni faccia che rivedo non mi turba, capisco cosa si cela dietro ogni maschera, dietro ogni angolo, ora non mi spaventa più niente e tra poco illuminerò quella sagoma oscura e conoscerò il suo nome che già so qual è … Ecco, sta per arrivare, so che tra un attimo sorgerà alla mia sinistra per poi presentarsi di fronte a me, sento l’attimo che precede l’alba… e la giostra sembra rallentare… sembra quasi fermarsi… sembra dire che devo aspettare solo un attimo, un piccolo at… ti… m… … LUCE!
HO GLI OCCHI APERTI!
 
 
04. 59 - VENERDÌ
Buongiorno.
Il quadrante della sveglia è la prima cosa che vedo riemergendo dal sonno.
È un amico luminoso, che mi fissa dall’orlo, buio, del comodino… come sempre…
Senza essere del tutto sveglio, continuo a guardare quei numeri verdi e intanto allungo il braccio, con le dita della mano pronte a sfiorare il tasto che disattiva la suoneria.
Arrivo all’appuntamento con il pulsante appena una manciata di secondi prima che il suo ululato interrompa il silenzio.
Sono le cinque.
Adesso.
Ormai succede così tutte la mattine.
Sono diventato preciso.
“Come un orologio”, direi, e questo mi fa ridere, ma allo stesso tempo provo una specie di pudore a pensarlo, proprio davanti ad un orologio vero.
Eppure è successo: sono diventato puntuale.
Dentro.
Già! Un fatto inspiegabile e normale allo stesso tempo. Eppure, ancora mi ricordo di un tempo, in cui dormivo come un sasso e non c’era sveglia, urla o plotone d’ esecuzione, che potesse strapparmi dai miei placidi e profondi sonni. Ma, da allora, qui dentro, è passato molto tempo e sono cambiate molte cose. E mi stupisco a sentire il tocco della mia mano destra, all’altezza del petto. Forse era un prurito mattutino, anche se mi rimane la strana sensazione che, invece, fosse un saluto.
Non ho altre scuse. Mi alzo dal letto e come guidato dalle cadenze di un antico rito, vado ad aprire la finestra. Guardo fuori. Il buio confonde i profili delle case e del cielo. È troppo presto per capire come sarà la giornata. In compenso, laggiù, mi sembra di sentire le cime degli alberi muoversi sotto la spinta di un vento teso.
Il vento.
Già!
Me l’aspettavo.
Una volta non davo così tanta importanza a certi dettagli, il tempo, l’aria, la rugiada, il verde delle foglie.
Vivevo di azioni e non di dettagli.
Ma è passato tanto, veramente tanto… tempo.
Tempo… !
Tempo? Lancio uno sguardo terrorizzato alla sveglia: 05. 38! Meno male! Sono ancora dentro la tabella di marcia, il Dott. Whom arriva alle 07. 01. Posso prepararmi con calma e fare anche colazione. Non credo che, dopo, ci sarà occasione per farla. Nel tragitto tra la stazione e la Villa ci saranno molte cose da sistemare… credo… o no?
Do un’occhiata verso la cucina, ma non penso di avere voglia di mangiare biscotti. Faccio prima a fare un salto in un bar, vorrei arrivare puntuale, anzi, vorrei arrivare in anticipo e poterlo vedere, per farmi un’idea, prima di parlargli e per questo, ho bisogno di una certa calma. Tra l’altro vorrei avere il tempo di rivolgergli una domanda che mi preme: come mai sono stato scelto proprio io?
Con l’idea del caffè che mi spinge e mi attira, esco di casa.
Appena supero la linea della porta, mi avvolge l’aria del fuori. È fredda, leggermente umida e profuma di diverso. Per un attimo freno lo slancio… faccio bene ad andare? … Ho dimenticato qualcosa? … Ho preso il portafoglio? … Sono domande che scivolano via, mentre i miei piedi hanno continuato a fare, chissà come, il loro lavoro. Sono già fuori. Alzo il mento e annuso l’aria, non so come riuscirei a spiegare una mossa del genere a qualcuno che me lo facesse notare, ma è una preoccupazione fuggevole, lungo tutto il tragitto, sino alla macchina, non incontro nessuno. Nessun movimento. Niente! Forse, nella notte, gli alieni hanno sterminato il genere umano ed io sono l’unico sopravvissuto. Oppure mi sono risvegliato in una dimensione parallela e questo sembra il mio mondo, ma in effetti, non lo è, per niente. C’è poi la possibilità più agghiacciante e sento un dolore al solo pensarlo: non c’è nessuno perché è maledettamente troppo presto … Cazzo! Normalmente anch’io “non” sono in giro a quest’ora…
Sento che il battito del cuore sta accelerando e incomincio a fare cento cose contemporaneamente. Cammino, mi chiudo il cappotto, rovisto in tutte le tasche possibili, e sono mille, alla ricerca delle chiavi della macchina e getto la solita occhiata alla cassetta della posta. Ho fatto più di dieci passi e sul mio viso gli angoli della bocca non hanno ancora cancellato le pieghe di una leggera sfumatura di tristezza. Nessuna lettera. Nessun messaggio. Vuota!… Per forza! È veramente troppo presto… Ci casco tutte le mattine, lo so benissimo che a quest’ora non ci può essere niente di nuovo, eppure non posso fare a meno di lanciarci uno sguardo, mentre sento che ci dovrebbe essere qualcosa. Un attento lettore di giornali femminili potrebbe dirmi che questo mio pathos è il segno che sono in spasmodica attesa di un qualche evento importante e, chissà, potrebbe proprio essere così.
Salgo in macchina, metto in moto, ingrano la prima e parto, come in un film.
Guido nella foschia del mattino, con la stessa attenzione con cui cerco di capire quali sono le sottili vibrazioni che mi scorrono dentro. Dalla trepidazione, con cui guardo nella cassetta, alla sensazione di delusione, mista a sollievo, che provo, quando non vi trovo nulla. Trovare! Ecco. Devo trovare un bar. Sono in astinenza da colazione e se non bevo al più presto un caffè, impazzisco.
Alla radio, una canzone lascia il posto a una voce squillante, che si mette ad elencare una serie di notizie, che forse appartengono al passato e con cui dovremmo aprire questo nuovo giorno.
Non le ascolto nemmeno, ma devo ammettere che la musica era bella.
Mi interessano di più le insegne: Bar! Ecco! Quello andrà benissimo.
Fermo la macchina, scendo ed entro.
– Buongiorno!!!
– A lei.
– Cosa prende?
– Caffè!
È la prima volta che entro in questo bar, non è sulla mia solita strada, guardo le tazzine e mi sembrano troppo piccole.
– Guardi… facciamolo doppio… il caffè…
La ragazza alza gli occhi e mi sorride dallo specchio…
– Nottataccia o bagordi?
Le guardo i capelli, da dietro e la faccia, nello specchio. Ha un bel modo, sembra una bambina che si diverte mentre lavora, ma i suoi occhi sono occhi da gatta ed è troppo sicura per essere così giovane. Chissà quanti anni hanno quelle mani?
E chissà quanti anni dimostro io, mentre le dico…
– No, no … la notte è filata via liscia. Questo è per prepararmi a quello che mi toccherà oggi…
Si gira con la tazzina in mano, mi guarda e sussurra…
– …basterà il caffè…?
Ci sono donne che hanno un modo di guardare, da farti sentire uno stupido, se non sei ancora saltato oltre il bancone e non le hai già succhiato l’anima, attraverso le labbra. Tutta, sino in fondo… Oh sì!… Questa era così!
Io ero lo stupido.
– … dovrà bastare…
Mi sono esercitato per anni, nel tentativo di riuscire ad avere, anch’io, quello stesso tipo di espressione, come se volessi dire: “adesso non ho tempo, baby, ma non sai cosa ti perdi… ” e non sono mai riuscito a capire se funziona.
– Male che vada noi siamo sempre aperti…
– Bene…
– E non facciamo soltanto un buon caffè…
– Davvero?
Ci guardiamo, negli occhi, più di quanto non sia necessario, per un semplice caffè.
Vuoi dire che questa volta, il mio sguardo assassino, funziona? Proprio adesso che non ho tempo?
– Oh sì sì… facciamo anche delle brioches … mmmmm… squisite … con la crema pasticcera, con il miele… provi quelle con la marmellata d’arancio… sono fantastiche… Una volta assaggiate non potrà più farne a meno… Dovrà venire qui tutte le mattine…
– Una bella tentazione…
– Il modo più dolce per cominciare la giornata…
Lo dice con gli occhi che si socchiudono e scintillano allo stesso tempo… e questo non mi fa pensare solo alla marmellata del ripieno…
Chissà? Da come ne parla sembrerebbero proprio delle paste assassine…
– Pericolosissime…
E ride! Io continuo a guardarla, affascinato da quel particolare pericolo in cui potrei andare a cacciarmi, se incominciassi a infilare il mio dito, nel ripieno goloso di quella nuova brioche… dietro i miei occhi partono le immagini… e dentro il petto partono le pulsazioni. Ma, più veloce del pensiero, la mia mano, in automatico, sta già portando la tazzina verso la bocca. Prima ancora di bere, sento, sulle labbra, il calore della tazzina e, nel naso, forte come una staffilata, l’odore. Forte! È un buon segno. Se qui è tutto buono come il caffè…
“ bella ragazza”
Già, bella ragazza. Lo penso anche io, mentre lei mi dice: zucchero? E si avvicina, per offrirmi un cestino pieno di bustine colorate. Si muove bene e per un attimo, le nostre dita si sfiorano.
Per un attimo… lungo.
E proprio in quel lungo, varco temporale, entra, dalla porta, un’altra anima persa, in cerca di conforto. Tossisce e poi, con la voce roca, dice:
– Un caffè. Forte!
– Serataccia?
Ho già sentito queste parole, ed anche il tono. Solo adesso noto le sue mani. Troppo veloci per essere davvero belle. Come dotate di una volontà propria, hanno passato un panno giallo sul banco e aggiunto un altro piattino, vuoto, accanto al mio. Mi assale la strana sensazione di aver perso qualcosa. La stessa sensazione che provo quando qualcuno si sporge da sopra la mia spalla a leggere il mio giornale. Finisco di bere e poggio la tazzina esattamente sullo stesso cerchio, marrone, disegnato da una goccia distratta, scivolata via lungo il bordo, troppo stretto.
Tempo scaduto.
Non ho neppure la scusa di chiedere quanto devo: è scritto, grande, sopra la cassa.
Pago ed esco. Altre persone entrano. Attraverso il marciapiede. Altre persone lo percorrono, nei due sensi. Apro la portiera e mi siedo nella macchina, gelida. Quanti “altri” ci sono in strada? Tanti. Ognuno chiuso nel suo cappotto, non proprio impermeabile al grigiore del mattino. Mi passano tutti davanti senza accorgersi di me.
Non metto subito in moto, mi perdo a guardare il resto del mondo che ho lasciato fuori dai finestrini. Intanto, dentro, cerco di rivedere la scena che ho appena vissuto. Lo faccio, ogni tanto. Qualcosa deve avermi convinto che viviamo troppo di corsa ed io cerco di rallentare. Mi fermo per rivivere, un’altra volta, quello che mi è appena successo. Provo a risentire le emozioni, cercare di capire, resto a chiedermi se ho fatto le cose giuste, se non ho fatto qualcosa che avrei dovuto. Magari così scopro nuovi spiragli… non si sa mai. Questa volta restare immobile ad interrogare il volante, non mi è d’aiuto ed il senso di freddo non mi abbandona. Faccio un ultimo tentativo e tento un rapido conto: quante persone possono entrare in un bar in un giorno? Ordinano tutte un caffè? Non ne ho idea. Mi ricordo che qualcuno mi ha detto che il maggior introito, per i bar, sono proprio le tazzine di caffè. Questo sembra un locale florido, quindi: tante. E allora? Che importanza ha? E la barista sorride a tutti allo stesso modo? E tutti se ne accorgono? Che senso ha? Più rimango seduto a pensarci meno ci capisco.
L’unica cosa sicura è che non sono più in anticipo.
Giro la chiavetta e il silenzio si trasforma prima in un rauco brontolio e poi in una bella vibrazione. Nessuno alle spalle, nessuno davanti, inserisco la prima e riparto. Riaccendo anche la radio. Devo cambiare sette stazioni prima di riuscire a sentire solo della musica.
Arrivo in stazione accompagnato da un vecchio R&B tornato di moda.
Sono le sei e cinquantacinque. Dopotutto sono riuscito a farcela.
Parcheggio. Scendo, entro in stazione, m’ inabisso in un sottopasso e rispunto sul quarto binario.
Proprio mentre arriva il treno.
Puntualissimo. Anche lui.
La motrice incomincia a rallentare, con un miagolio che vuole sottolineare lo sforzo che devono fare, i freni, per bloccare, gentilmente, una massa così grande. Il treno si ferma, lì, davanti a me. Per qualche secondo non accade niente, poi le porte si aprono e scendono in cinque.
Uno è il Dott. Whom.
Non posso confonderlo.
Ha un portamento che lo distingue dal resto di inconsapevoli fagotti, che lo circondano. Nessun bagaglio. Solo una ventiquattrore. Nera. Viene verso di me, sicuro, senza indecisioni, devo essere l’unica persona lungo il binario che ha l’aspetto di essere venuto a ricevere qualcun altro. Mi guardo meglio intorno e scopro di essere semplicemente l’unica persona che ha la faccia rivolta verso il treno.
Quando siamo esattamente uno di fronte all’altro, ci stringiamo la mano.
Un saluto asciutto, formale, essenziale.
– Buongiorno.
– Buongiorno.
Non mi viene nient’altro da dire.
Mi scanso e con il braccio indico la strada per uscire. Lui mi sfiora ed io seguo la sua scia, ha un profumo sottile, non lo avrei mai indovinato, contando che l’aspetto sembra massiccio… Sì, la sensazione giusta è sottile, ma non scontato, mi sorprende anche con un sentore di esotico, di speziato, deciso, non aggressivo. Armonico. Senza sbavature. Come il suo passo. Belle scarpe. Bei vestiti. Il cappotto deve essere di cachemire, dà l’idea del caldo e del morbido, mentre lo sguardo gli scivola sopra. La 24 ore luccica come un gioiello e non la definirei un oggetto da lavoro. Tutto ineccepibile. Faccio un sospiro e lo seguo. Lo guardo camminare e mi sembra assolutamente fuori posto su questo marciapiede trasandato. Mi viene da notare che in questo punto, per qualche misero metro, le piastrelle di cemento grigio, affiancano binari dall’infinita superficie lucida e dalla base arrugginita. I treni mi fanno pensare. E mi viene da chiedermi se tutte le stazioni hanno lo stesso odore di ferro e di vuoto. Se c’è veramente, qualcuno, alla guida dei treni, oppure se sono un altro modo di chiamare il destino, se sono posti dove ci si incontra o dove ci si lascia e se oggi, alla fine, si metterà a piovere.
Speriamo di no.
Intanto controllo la mia distanza da Whom e mi chiedo se è sempre così imperturbabile o se è solo una questione di approccio.
Uscire dalla stazione è un attimo.
A un tratto Whom si ferma, le sue spalle si alzano lentamente ed a lungo, sembra essere sorpreso di respirare. Lo capisco, mi ricordo che anche a me, la prima volta che sono venuto da queste parti, l’aria mi sembrava diversa. Ma adesso non saprei dire. Ora sa di aria e basta. Ci si abitua a tutto… no?
Come al rallentatore vedo la sua testa che si gira e mi guarda, non dice niente ma sembra lo stesso una domanda… Cazz… Che stupido che sono! Tolgo di tasca il telecomando. Lo punto e premo. Qualcosa deve succedere perché i lampeggianti mi rispondono e, per ora, mi sembra che siano l’unico segno di comprensione, da parte del mondo, nei miei confronti. Apro la portiera e Whom scivola dentro la macchina, come se fosse fatto d’acqua, ma poi, seduto, al mio fianco, sembra solido come un pezzo di roccia.
Mentre guido lo guardo, con la coda dell’occhio e mi devo ricredere: è più piccolo di come me lo immaginavo ed i suoi lineamenti potrebbero essere più dolci, se non fosse per lo sguardo. Fisso. Indubbiamente la sua fama ed il suo contegno contribuiscono a distorcere l’immagine che ognuno di noi ne ha. O per lo meno, che, io, ne ho. Sono passati già abbastanza minuti di perfetto silenzio e adesso ne sono assolutamente sicuro: non credo che faremo conversazione. Nel mio petto sento un formicolio che non riesco a distinguere bene, potrebbe essere delusione, ma anche sollievo. Mah, tiro un sospiro ed ho almeno una certezza: Whom non fuma. Nell’alone che lo circonda non c’è traccia di nicotina. Bene! Mi sarei sentito imbarazzato a dovergli far notare che dentro il microcosmo che è la mia macchina, proprio non si può fumare.
Mi concentro sulla guida. Gli alberi scorrono via, tra la nebbia del mattino. L’asfalto lucido sembra un fiume, sul quale si riflettono le luci dei fari. È una semplice strada. È la solita strada. Eppure mi sento imbarazzato nello scoprire che, su questa strada, tanto conosciuta da essere ormai scontata, oggi, riesco a trovare un nuovo modo di percorrerla.
Dalla radio una voce troppo allegra mi informa che: “Sono previste forti piogge al Nord”
E mentre supero una sonnacchiosa giardinetta, mi viene da chiedermi, “quanto” forti?
Dopo, la strada, è vuota e sono libero di accelerare. Tutto incomincia a scorrere intorno a noi ancora più rapidamente mentre una vibrazione, di fondo, ci fa sentire quanto il motore sia felice di sprigionare la sua potenza. Mi piace guidare così e vorrei continuare, ma e la distanza non è molta e siamo quasi arrivati. Rallento, quel tanto che basta, per imboccare il viale senza derapare, supero il cancello e poi, come per magia, siamo davanti allo scalone d’ingresso alla Villa.
Non riesco a fermarmi senza che la ghiaia del viale scricchioli sotto le ruote, ma piano. Giro la chiave. Il motore capisce che è arrivato il suo momento di ritornare ad essere solo un pezzo di ferro. Ho ancora la mano sul cruscotto e sento l’aria fresca che entra dalla porta alla mia destra. Non ho avuto la sensazione che si sia mosso, ma il Dott. Whom, adesso, è fuori, e sta per salire sul primo gradino dello scalone. Faccio il giro dell’auto, chiudo lo sportello che lui ha lasciato aperto e lo raggiungo.
Mi chiedo come faccia a muoversi senza scomporsi.
Io, al contrario, sento di essere troppo agitato.
In cima alla scala non vedo Beth, come mi sarei aspettato, in compenso, un usciere, che non mi ricordo di avere mai visto, ci saluta e ci informa che siamo attesi nel salone. Dopo un formale inchino, si scusa per il fatto che ci dovrà precedere. Molto, molto, d’effetto. Devo ammetterlo, ha un suo stile. Ovviamente io conosco perfettamente la strada, ma non mi sembra il caso di farglielo notare. Si ferma davanti alla grande porta doppia, bussa e, dopo un giusto attimo di attesa, ci fa entrare.
Il “salone” è un posto veramente imponente e noi, arrivati al suo esatto centro, siamo scandagliati da sei paia di occhi: Ganz, Kojinskj ed Einz. Il “gotha “ di Villa dell’Est, al gran completo. 
Le cose non sono mai come sembrano.
Una paziente scappa da una clinica e lascia dietro di sé un cadavere.
Un uomo la insegue nel tentativo di capire chi è davvero, da cosa e da chi sta scappando. L’indagine lo porta a molteplici incontri e alla ricerca di se stesso.
Un’analisi destinata a dare un senso a quel sogno, così complesso e pieno di sorprese, chiamato "esistenza". Sogno che non sempre riusciamo a capire, davvero, se non alla fine, quando ci svegliamo.

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