Titolo | Su “La lingua perduta delle gru” di D.Leavitt | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Saggistica | ||
Pubblicata il | 19/05/2017 | ||
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Care amiche Tisane,
[ La Tisana letteraria, gruppo di lettura]
scrivo queste righe sul romanzo, digiuna dei vostri commenti, che non ho ancora letto per non farmi influenzare. Ho letto però la Postfazione di Fernanda Pivano e mi ha fatto piacere trovare scritto quello che avevo pensato anch’io, ossia che il personaggio più riuscito del libro è Rose, dunque un personaggio femminile. Ma veniamo ad un giudizio complessivo e minimamente articolato su questo romanzo, scritto da un Leavitt molto giovane, soltanto venticinque anni. Se dovessi definirlo con alcuni aggettivi direi: duro per la spietatezza con cui l’autore rappresenta l’universo gay dei cinema e dei bar per omosessuali alla disperata ricerca di propri simili e di contatti seppure sporadici, descrizione in cui non ci viene risparmiato nulla e in cui il linguaggio si fa particolarmente crudo ed esplicito; dolente perché quell’umanità pare dominata dall’ossessione per il sesso e la sua soddisfazione, a cominciare da Owen, che già nell’incipit Nel primo pomeriggio di una piovosa domenica di novembre scendeva frettoloso lungo la Terza Avenue […] le mani sprofondate in tasca e la testa china contro il vento: quelle uscite domenicali durano da vent’anni e lo costringono per l’impellenza del suo bisogno a lasciare il tepore di casa per raggiungere quei locali ed essere se stesso (ma qui la domanda che tutte penso ci siamo fatte è ma Rose perché non indaga? …); necessario, specialmente tenendo conto dell’epoca in cui fu scritto, perché ha gettato un fascio di luce su un mondo spesso misconosciuto da quelli che i personaggi chiamano “i regolari”, ossia gli eterosessuali, rivelando alla vasta platea dei lettori che il tema dell’omosessualità non poteva essere più tabù e occorreva parlarne pubblicamente. E in effetti, da allora, quanta strada anche legislativa, è stata fatta dalle nostre società!
Detto questo, trovo che la seconda parte del romanzo sia superiore alla prima, in particolare la sezione finale con il drammatico confronto tra Owen e Rose e la loro (temporanea?) separazione; naturalmente, almeno per quel che mi riguarda, l’empatia va a questa moglie e al suo dramma, mentre non riesce a coinvolgermi fino in fondo il marito, seppure in alcune parti mi ispiri un sentimento di pietà (quando scopre l’omosessualità del figlio e singhiozza sotto la doccia; quando rivela a Rose che ha fatto di tutto per soffocare la sua vera natura e, nelle ultime pagine, quando chiede ospitalità al figlio e gli racconta il suo dramma). Philip, nella sua ingenua e ansiosa sensibilità, ferita ma non annientata dal disinvolto cinismo di Eliot, mi ispira tenerezza per l’attaccamento alla famiglia e per il tentativo convinto di recuperarne i rapporti messi a dura prova dalla sua confessione.
New York in questo libro è un fondale sporco, con pochissima luce e colore, brulicante di una vita ai margini, inquietante e angosciante; in realtà, almeno questa è la mia impressione, tutto è marginale (lavoro, ambiente, valori, la stessa vicenda che dà il titolo al romanzo) fuorché la tormentata sessualità dei protagonisti e la loro disperata ricerca di autenticità.
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