Quasi 48 anni, li compirò tra meno di cinque mesi… lavoro nella scuola da vent’anni, sette dei quali come Educatore in un Convitto Nazionale, ed il resto vissuti, perché è questo il termine corretto, prima come supplente a Bergamo e poi come docente di ruolo a Genova, mia città natale.
Ma cosa mai può avermi spinto a scrivere questo libro?… ci sto pensando da ben quattro giorni e finalmente credo di aver trovato la risposta, o meglio, come sempre, le risposte. Innanzitutto a spingermi verso questa impresa è stato un mio alunno di quest’anno, frequentante l’Ultimo anno, e quindi dal quale prenderò congedo fra meno di tre mesi, meno di CENTO giorni, come loro dicono pensando all’esame di Maturità. È davvero un ragazzo speciale, con una straordinaria sensibilità ed umanità. Un giorno, un po’ di tempo fa, mi disse: “Prof, ha mai pensato di scrivere un libro?”. La mia risposta fu che sì, più di una volta mi era venuto in mente questo desiderio, anzi avevo già scritto vari racconti, per mio puro diletto più che con la speranza di vederli un giorno pubblicati, ed ho anche con me, da sempre credo, un romanzo “nel cassetto”, cominciato a scrivere quando ancora frequentavo l’università, mai portato a termine, ogni tanto aggiornato, modificato, con qualche capitolo aggiunto, ma mai veramente terminato. Un po’ come se l’averlo sempre lì sia diventato un simbolo: quante cose avrei voluto realizzare nella vita, quante ne ho portate a termine, ma quante ancora sono in attesa di vedermi lottare per realizzarle. “Allora prof prima o poi spero proprio di poter leggere un suo libro”, aveva concluso così la nostra conversazione questo mio alunno.
La seconda risposta che ho trovato al perché di ciò che sto facendo è il fatto che fin da bambino ho sempre adorato scrivere e sognato di pubblicare un romanzo; alle elementari la mia maestra non aveva gradito il genere “giallo” di un mio racconto, per quei tempi e per quell’età tanto scabroso da aver fatto scrivere al Direttore scolastico sul mio quaderno “O tempora! O mores! Siamo figli di Caino?”. Io non capivo assolutamente il significato di quelle strane parole, che col tempo scoprii essere latine, caro buon vecchio Cicerone, ma capii che non avevo ricevuto un complimento, soprattutto per la reazione di mia madre, che diede del bigotto ed ottuso al Direttore.
La terza e credo determinante risposta che ho trovato è che, giunto al mezzo del cammin di mia vita, come insegnante, e mi perdoni il Sommo poeta per l’aver sfruttato i suoi versi, voglio dare un senso a ciò che sto vivendo da vent’anni, per il quale ho davvero speso tutte le mie energie, senza mai risparmiarmi, facendo sicuramente tanti errori, quia errare humanum est, ma amando ogni giorno questo lavoro, che mai e poi mai definirei un lavoro, bensì IL lavoro più bello che avrei potuto svolgere nella mia esistenza.
Dare un senso scrivendo un libro? Sì, perché credo che il mio cervello stia accumulando troppe informazioni, troppe esperienze, ed ho paura che vada in corto circuito, ma soprattutto perché voglio rendere partecipi gli sfortunati, che leggeranno questo libro, di quanto vario, affascinante, faticoso, frustrante, esaltante, gratificante sia il mestiere di insegnante, così bistrattato dalle facili opinioni da bus o da bar, così messo sempre ai margini della società, anche a livello salariale, ma così fondamentale per la vita di ciascuno di noi perché magari nella vita non conosceremo mai un attore o un politico, né tantomeno un astronauta o uno scienziato capace di trovare la soluzione ad uno dei mali dell’umanità, ma tutti, e dico proprio TUTTI, nella nostra esistenza siamo entrati in contatto con un insegnante che, volenti o nolenti, si è intrufolato nelle nostre vite, e vi ha lasciato un segno indelebile, buono o cattivo che esso sia.
Domenica scorsa, 11 marzo 2012, mentre passeggiavo tra casa mia e Nervi, riuscendo ad essere solo coi miei pensieri, nonostante le decine e decine di persone che, come lucertole, godevano il tepore del primo sole quasi primaverile, qualcosa nella mia mente è scattato. La voce di quello studente, sommatasi a una quantità di pensieri che erano lì, pronti a riordinarsi per emergere, mi ha fatto esclamare: “Ho trovato!”. Non ero certo il buon Pitagora, ci mancherebbe altro, ma davvero avevo trovato l’idea per dar voce a ciò che da tanto avrei voluto comunicare. Non avrebbe senso scrivere una storia inventata, non mi ci vedo a immaginare personaggi più o meno realistici, avventure mozzafiato o descrivere luoghi mai visitati, se non con la fantasia. Voglio raccontare la mia esperienza di insegnante, ed ho anche trovato la maniera per farlo: per ogni lettera dell’alfabeto, in fondo insegno Lettere e non poteva essere altrimenti, ci sono termini che rimandano a situazioni e momenti delle mie giornate, che forse non appartengono solo a me, ma sono condivise da tanti altri insegnanti sparsi per il mondo. Sicuramente sono situazioni ed esperienze che ho condiviso con tanti fino ad oggi, e che forse, se gli capiterà mai di leggere queste pagine, si ritroveranno e rileggeranno un piccolo pezzetto della loro vita.
Già da adesso li ringrazio perché, sia nel bene che nel male, mi hanno trasmesso qualcosa che giorno dopo giorno mi ha fatto crescere, maturare, mi hanno insegnato qualcosa perché, e vorrei che tutti lo ricordassero sempre, non si insegna nulla senza imparare sempre qualcosa!
A
Come mai ho deciso di cominciare con questo termine? Forse perché in questo periodo è una delle cose a cui penso maggiormente, e di cui mi rendo conto quanto sia difficile coltivarne qualcuna davvero reale, sincera e profonda nel mio ambiente di lavoro. Anni fa, quando ancora la visione della scuola era per me permeata di ottimismo incondizionato, credevo che fosse facile instaurare rapporti di amicizia in un ambiente lavorativo che dovrebbe essere fatto di collaborazione, condivisione, in cui non ci sono rivalità per posti di prestigio, avanzamenti di carriera, opportunità di poter guadagnare più di altri. Mamma mia come mi sbagliavo!
Se penso a questi vent’anni passati nel mondo della scuola e provo a fare un bilancio di quante relazioni di amicizia vera sia riuscito ad imbastire comincio a trovare eccessive le dita di entrambe le mani. Ma non voglio essere così pessimista, e quindi parlerò solo delle amicizie che ho trovato e che sono state davvero importanti in questi anni.
La prima, e non potrebbe essere altrimenti, riguarda Claudio, mio collega che insegna religione nel mio stesso Liceo. Ci siamo conosciuti undici anni fa e fin da subito c’è stata un’intesa davvero speciale tra noi. Ne abbiamo condiviso davvero tante in questi anni, uniti dal fatto di credere entrambi agli stessi valori, di ritenere questo impiego davvero un qualcosa di più che un semplice lavoro, credendo sempre fermamente nei ragazzi che ogni anno avevamo nelle nostre classi, lui molti più di me, e cercando sempre di farci in quattro per aiutarli nella crescita. Per spiegare il significato della nostra intesa credo sia opportuno citare la definizione che un Dirigente, del quale porterò sempre con me un meraviglioso ricordo, diceva sempre quando ci vedeva insieme: “Eccoli lì, il gatto e il gatto…perché di due una volpe non la riusciamo a fare!”. E aveva davvero ragione. In più di un’occasione ci siamo ritrovati a sopportar critiche, oppure a dover digerire forme più o meno sopportabili di ingiustizia, e per lo più perché tutti e due siamo sempre stati poco “astuti”, poco propensi a tiraci indietro quando c’era bisogno, troppo disponibili che, come si suol dire a Genova, è equivalso spesso a far la figura dei fessi! Ma non cambierei un solo minuto di quelli che ho condiviso con Claudio, una persona che davvero mi ha aiutato tanto in momenti non facili che ho vissuto, con il quale ho condiviso alcuni dei momenti più intensi, divertenti o faticosi. Uno su tutti? Credo il primo viaggio d’istruzione a Roma, con due classi seconde. Furono decisamente giornate intense, in cui coi ragazzi visitammo molto di quella meravigliosa città, vivendo momenti molto allegri, ma anche faticosi. Ho ancora davanti agli occhi una delle notti in cui, mentre facevamo da guardia nel corridoio, cercando di far sì che gli studenti non facessero troppo baccano, smettessero di uscir dalle stanze e pian piano si mettessero a dormire, ci mettemmo a giocare a carte seduti in terra, con un mazzo di mini carte da briscola. Sembravamo due poveracci, forse un poco lo eravamo, e quando oramai i nostri ragazzi si erano calmati e sembrava giunta l’ora di ritirarci nelle nostre stanze per poche ore di sonno, sul pianerottolo comparvero alcuni studenti stranieri, tutti belli allegrotti e un po’ bevuti, che ebbero la magnifica idea di passare picchiando alle porte delle stanze dei nostri studenti, svegliandoceli tutti nuovamente! Altro che andare a dormire ma, invece di arrabbiarci o avere una reazione alterata, scoppiammo a ridere seduti per terra, con alcuni nostri ragazzi che ci guardavano mezzi allibiti e mezzi divertiti.
Sicuramente con Claudio il lavoro a scuola ha assunto in questi anni un significato assai più profondo, perché abbiamo sempre cercato di seguire l’idea che i ragazzi sono davvero importanti, destinatari sì del sapere che un insegnante trasmette in classe, ma soprattutto persone che lentamente e faticosamente stanno maturando e cercando di trovare il proprio posto nella società. Dal collaborare nei consiglio di classe all’organizzare attività teatrali o anche ludiche, siamo famosi oramai per l’annuale gita a Gardaland, ogni momento di questi anni lo abbiamo condiviso e ciò credo abbia giovato ad entrambi, dato ad ognuno la forza per non arrenderci di fronte a delusioni, fallimenti, o anche contrasti.
La seconda amicizia importante maturata in questi anni è legata al periodo in cui ho lavorato come Istitutore presso un Convitto Nazionale. Lì ho conosciuto un altro Istitutore, Angelo, con il quale ho collaborato per cinque anni, dal quale ho ricevuto un’infinità di ottimi consigli, massime di vita che sono un prezioso bagaglio che porterò sempre con me, e al quale devo soprattutto l’essere riuscito ad affinare il senso della misura, il saper usare la moderazione sempre prima di prendere un’iniziativa, di intervenire di fronte ad un problema cercando sempre la soluzione non più facile, ma quella giusta. A lui devo anche l’aver imparato a stare attento ai minimi segnali che i ragazzi mostrano quando qualcosa in loro non va, quando lanciano richieste di aiuto senza mai cercarci direttamente, ma sempre sperando che qualcuno si accorga di loro. Davvero, grazie ad Angelo, quegli anni sono stati una palestra di vita importante, di cui faccio continuamente tesoro, spero non in maniera impropria od errata.
Rimangono memorabili le nostre partite a scacchi, il condividere l’amore per la buona tavola, anche del buon vino e della birra ad essere sinceri, ed una cosa che di lui ho sempre apprezzato è il senso dell’umorismo, dote secondo me essenziale per dare la giusta misura alle cose, altrimenti si finisce per prendersi troppo sul serio.
C’è un’altra cosa di cui sono debitore nei confronti di Angelo. Un giorno, mentre ci trovavamo nella stanza degli “Assi”, come ci chiamavano i nostri convittori, mi ha detto che la cosa fondamentale, secondo lui, è dire sempre quello che realmente si pensa, essere sempre se stessi di fronte a chiunque. Se poi come siamo o ciò che pensiamo a qualcuno non piace, pazienza… sarà lui a rimetterci, non noi! Grazie Angelo di questa tua perla di saggezza…spero solo di essere riuscito fino ad oggi a farne tesoro.
Un’ultima riflessione legata al termine “amicizia” con cui ho deciso di cominciare questo mio racconto. È vero che nella vita conosciamo tante persone, che molte di esse sfiorano a malapena le nostre esistenze, lasciando un ricordo appena percettibile, ma riguardando questi anni mi rendo conto di quanto tante persone conosciute nella scuola abbiano lasciato, chi più chi meno, un’impronta del loro passaggio che è rimasta indelebile. Sono quindi gli altri supplenti del mio primo anno a Bergamo, che spettacolo era giocare a pallavolo al pomeriggio, condividere durante gli intervalli le nostre esperienze, ridere per cose che capivamo solo noi, mentre i colleghi più anziani ci guardavano quasi fossimo animali strani. Sono altri colleghi conosciuti a Trescore, una delle esperienze più belle che abbia vissuto, e su cui tornerò più avanti. Alcuni altri istitutori del Convitto, Paolo e Marco su tutti; alcuni colleghi del mio attuale Liceo, qualcuno di essi già in pensione, termine che oramai sta divenendo una chimera, altri che ancora condividono con me le giornate, la presenza dei quali è davvero importante, se non altro perché dà umanità a ciò che si vive quotidianamente. Ultimi, ma solo perché sono davvero tantissimi, considerati da me amici, sicuramente perché da loro ho ricevuto probabilmente più di quanto io abbia dato loro, sono tantissimi dei miei ex studenti, oramai uomini e donne con la loro vita.