Prefazione di Francesco Surdich
Qualsiasi esperienza di viaggio, anche se ridotta nel tempo e nello spazio, è prima di tutto un momento e un’occasione di conoscenza e per questo ha rappresentato in tutte le epoche e in tutte le culture uno degli elementi fondamentali della costruzione delle identità e delle differenze che si sono sempre definite nel loro reciproco rapporto anche nei casi in cui questo è stato di natura conflittuale. Ma, perché l’esperienza odeporica possa assumere questo significato e questa valenza che le conferiscono un valore significativo anche per le realtà a noi più vicine e familiari, è stato ed è indispensabile da parte di chi viaggia avere la curiosità e il bagaglio di conoscenze necessarie per avere la capacità di saper “vedere”, cioè cogliere l’essenza di ciò che si osserva, e non solo “guardare”, vale a dire limitarsi all’esteriorità ed alla superficie delle cose. Un atteggiamento, quest’ultimo, purtroppo molto ricorrente nelle modalità attuali del viaggio, che tende a consumarsi in maniera sempre più frettolosa, sulla base di schemi e stereotipi precostituiti, giustamente deprecato da un intelligente e sensibile viaggiatore anche dei labirinti dell’interiorità, Antonio Tabucchi, come ci ricorda il provocatorio passo sull’inutilità di molti viaggi, tratto da “Viaggi e altri viaggi”, opportunamente posto in epigrafe a questo volumetto.
Da qui l’importanza del retroterra culturale di chi viaggia e dell’aiuto che, per compiere al meglio questa esperienza realizzando in modo attento e proficuo i propri percorsi, può venire dalle guide, uno strumento sempre molto utile come nel caso di questo lavoro di Pier Guido Quartero, corredato dalle illustrazioni e interpretazioni fotografiche di Antonello Cassan, Enzo Dagnino, Anna Gugliandolo, Franco Muià e Lina Pedrazzini, realizzato calpestando personalmente il terreno, il solo modo per unire al piacere di camminare quello di rivisitare i luoghi percorsi attraverso una lenta e attenta riflessione. Si tratta di uno strumento che si propone lo scopo di condurre il lettore, attraverso sei tappe di cui vengono forniti anche i tempi di percorrenza, corrispondenti ad altrettanti capitoli che si dipanano con una struttura omogenea, lungo un itinerario che attraversa Genova da Capolungo alla Vesima, quindi lungo l’intero percorso urbano di Genova, inseguendo le tracce, in taluni casi ancora percepibili, dell’antica via romana: una strata, vale a dire una via selciata e costruita con strati sovrapposti di materiale che ne garantivano la resistenza e la durata, che rappresentò la sola significativa via di scorrimento orizzontale della Liguria fino a tutto il Settecento, ora in parte asfaltata (è il caso, ad esempio, di via San Vincenzo) e in parte a mattonata, nello stile delle vecchie creuze.
Un percorso quindi attento e interessato a ponti, chiese, ville, torri, fortificazioni, antichi opifici, edifici civili ed hospitali, dei quali meritano un cenno quello di Sant’Antonio, annesso alla chiesa omonima situata nel borgo di Prè, la cui origine può essere fatta risalire alla fine del XII secolo; e quello di Palmaro annesso alla chiesa dove venivano accolti i pellegrini palmieri provenienti dal basso Piemonte per imbarcarsi alla volta della Terra Santa, così chiamati per l’usanza di riportare in patria, al loro ritorno, un ramo di palma della Palestina. Ma anche a targhe ed iscrizioni murali, voltini indispensabili per il controllo del tracciato e cappellette, ecc., il tutto proposto attraverso una miriade di informazioni di ogni tipo grazie ad un accurato lavoro preliminare di ricerca e raccolta dei dati realizzato, come abbiamo già detto, attraverso l’osservazione personale, ma completato anche, grazie all’utilizzo della letteratura scientifica sull’argomento di cui vengono segnalati i contributi più significativi, da una ricerca e utilizzazione di documenti, carte antiche (in particolare la Tabula Peutingeriana e l’Atlante del Vinzoni), tracce di abitazioni, oggetti, monete, tutti suggeriti da una capillare lettura delle testimonianze storiche, dell’evoluzione del tessuto abitativo, delle evidenze architettoniche e ambientali, del modificarsi del contesto antropologico del territorio osservato e descritto.
Non mancano neppure l’eco di suggestioni musicali, come il ricordo della stazione di S. Ilario attraverso la famosa “Bocca di rosa” di Fabrizio De Andrè, o letterarie, come i versi dedicati a Piazza Sarzano nei Canti Orfici di Dino Campana; nonché richiami e riferimenti alle tradizioni e alle leggende, da quella del Pacciugo e della Pacciuga, due statue che si trovano in un corridoio laterale del Santuario di Coronata, alla festa del preboggiòn di Sestri e Palmaro (p.110). Tutte sollecitazioni, per quelli che hanno la passione di camminare animati da interessi culturali, a leggere e utilizzare questa guida e a mettersi in cammino.
Il subliminale “messaggio Quartero”
di Franco Lorenzani
Prima di tuffarmi in questa guida, ho letto (come molti) Trekking a Genova, che ne costituisce il nobile antefatto. L’itinerario della via Antica Romana ( e i suoi rimandi fisici e meta-fisici), accattivante per tutti, lo è ancor più per un architetto/urbanista in cerca di un “sentiero” utilmente percorribile per rinnovare la bellezza e la riconoscibilità dei luoghi in cui viviamo.
Il racconto e l’argomentare di Pier Guido Quartero, immergono in un paesaggio urbano (arricchito da usi, costumi e personaggi) sopravvissuto alla frantumazione del moderno, suscitando piacevolezza, nostalgia, ammirazione…con immagini capaci di farti star bene, di coinvolgerti scaldandoti insieme gli occhi e il cuore. E, prima ancora di poter reagire, penso che molti lettori siano sospinti a desiderare un impossibile ritorno al passato e a condannare unanimi “il nuovo” che avanza (anzi, che è già avanzato).
Ma… attenzione. Credo che il messaggio dell’autore non voglia essere questo. Almeno io ne do convintamente una diversa chiave di lettura, della cui aderenza al pensiero dell’autore mi conforta la sua (preventiva) approvazione.
Dobbiamo riconoscere che il fascino dell’antico, di ciò che è stato (almeno per quanto riguarda le condizioni del territorio, delle città e del paesaggio), è sempre più dominante e cresce di pari passo con i fallimenti, le contraddizioni, le “brutture” del moderno. Specie guardando alle tante trasformazioni senza qualità che mutano in peggio l’immagine e il “sapore” delle città, dei paesaggi, dei contesti in cui viviamo.
Non è certamente un caso se, negli ultimi 40 anni, i soli interventi di urbanistica e di riorganizzazione del territorio che hanno avuto indiscutibile successo nel nostro paese, riguardano essenzialmente il recupero dei centri storici e la ricostruzione del paesaggio agrario, cioè interventi ancorati a matrici architettoniche, urbanistiche, territoriali e “simboliche” che ci arrivano dal passato. Ciascuno di noi, come ciascun visitatore straniero, non può che ammirare “goduto” la piacevolezza dei nostri centri storici recuperati, la bellezza delle ville rinascimentali e dei loro giardini rimessi a nuovo, l’equilibrio e l’armonia dei vigneti, frutteti, oliveti in terrazzamenti e colline, recuperati alla produzione. Casi nei quali abbiamo saputo ottenere risultati concreti e metodologici eccellenti. Non però nelle espansioni urbane, non nelle nuove periferie, non per le nuove forme del turismo costiero, non nel paesaggio industriale, non con le nuove infrastrutture, non per opere di architettura…e così via, fatta eccezione per qualche “eccezione”, appunto. Quasi una “solida” dimostrazione che, senza ripercorrere o applicare “stampi” collaudati, la nostra cultura architettonica, la nostra sensibilità progettuale, la nostra organizzazione burocratica e sociale, non siano in grado di fare qualcosa di degno e di apprezzabile. Dunque non ci resterebbe che ripescare la ricchezza e i valori di tutto ciò che abbiamo ereditato e che ha saputo sopravvivere fin qui….Una prospettiva non propriamente entusiasmante, direi. Perché una società (una collettività) che non si accontenti solo di sopravvivere, deve essere capace di costruire il proprio presente e il proprio futuro non basandosi esclusivamente sul passato. Viene perciò naturale chiedersi: perché è successo tutto questo, come è possibile che continui ad accadere ? E, soprattutto, come se ne esce? (e su quest’ultima domanda spunta il possibile aiuto rintracciabile nel “messaggio subliminale presente nella Guida Quartero”). Ma andiamo per ordine.
Tralascio di parlare del perché è accaduto… la ricostruzione, il boom edilizio, la speculazione, l’immigrazione dal sud, le città operaie (Genova docet). Interessa più gli storici e i critici, e comunque non c’è qui lo spazio per una disamina seria del problema.
Un cenno del perché accade ancora, va invece necessariamente fatto, soprattutto per capire come se ne può uscire.
Ci sono, secondo me, alcune principali ragioni, fra loro compenetrate e concorrenti: la frammentazione delle competenze sul territorio; la proliferazione e sovrapposizione di leggi, piani e normative (dalle leggi Regionali a quelle Europee); la prevalenza del procedimento sul progetto e, in ultima istanza, la vittoria incontrastata di un approccio astratto e burocratico (anche nel linguaggio) al tema della trasformazione e del governo del territorio, che relega all’ultimo e infimo stadio il ruolo e il senso del progetto. Il progetto non è mai centrale. Non sono mai in primo piano, cosa si pensa di fare, la qualità delle opere progettate, la loro aderenza al territorio e alle popolazioni interessati, il legame con gli antefatti, il collegamento alle sensibilità e agli interessi locali, la messa in luce e in valore delle specificità di un luogo piuttosto che di un altro.
No, quello che conta, quello che le procedure burocratiche considerano prima di ogni altra cosa, è il rispetto dei commi delle leggi, l’aderenza alle indicazioni “astratte” pensate magari 10 o 15 anni prima dai Piani Territoriali o dai Piani Regolatori (che nel frattempo non si chiamano neanche più così ) e via elencando. È come se la matericità, che è l’essenza prima ed ineliminabile di ogni azione dell’uomo sul territorio e sul paesaggio, fosse diventata invisibile, anzi “da non doversi vedere”.
È qui che il “messaggio subliminale” Quartero ci viene in aiuto. Il suo ripercorrere sentieri e creuse che hanno avuto una concretezza e un peso specifico diretto sul farsi della città, il suo riannodare strade, ponti, case, lapidi, storie e mestieri in un unicum riconoscibile e distinto proprio per le sue specificità, indica un metodo, “il metodo”: è’ ancorandosi alla conoscenza diretta, esperienziale, delle individualità territoriali che può nascere un adeguato progetto sia di conservazione che di trasformazione urbana. E questo è tanto più vero quanto più è ricca (come accade in Italia e anche a Genova) l’identità che viene dal passato. In questo modo, ri-appropriarsi del passato non è restarne prigionieri e avversare il nuovo, ma dotarsi di pesi, misure, linguaggi per disegnare e costruire un nuovo che gareggi in qualità col passato che dovrà affiancare. Allora “ricucire le periferie”, come esorta Renzo Piano, può non restare solo uno slogan ma tradursi in uno strumento efficace per arricchire il nostro guardaroba (per restare nella metafora sartoriale) da utilizzare per tutte le stagioni.
Come tradurre questo a Genova, a partire dagli stimoli del Quartero pensiero?
Nel 2006, una bella e interessante pubblicazione della Regione Liguria, Dipartimento della Pianificazione Territoriale, “Aurelia & le Altre”, ragionando del recupero del paesaggio dell’Aurelia lungo tutta la nostra regione, aveva messo in luce in particolare le potenzialità di recupero degli antichi percorsi della Via Romana di Quinto, di Quarto e della Castagna, come assi di un progetto di riconnessione urbana fra il levante, San Martino e la Foce.
È stato uno dei principali spunti operativi di una stagione della pianificazione territoriale regionale che intendeva promuovere un approccio diverso alla formazione dei piani regionali: non più astratte tavole della verità, calate dall’alto per “ri-ordinare” il mondo, ma un diffuso lavoro culturale, di informazione, di scambio di strumenti conoscitivi, di esempi virtuosi da seguire, di casi concreti da correggere o da duplicare. Erano i primi anni duemila e avremmo voluto imprimere una svolta “etica e empirica” all’azione, altrimenti prevalentemente burocratica, della pianificazione regionale, come aiuto all’agire di tutti gli interessati (comuni e professionisti in primis)*.
Altro scenario: Genova. Nel dibattito che cinque anni fa si diffuse in città, nell’imminenza dell’approvazione del PUC (Piano Urbanistico Comunale, una volta chiamato PRG - Piano Regolatore Generale), molti di noi dicevano (semplificando): “non dobbiamo più discutere di sola “carta”. Si approvi quanto prima il PUC per poterci dedicare subito a costruire progetti pubblici organici, per parti di città. Progetti che mettano insieme le proposte private, le richieste delle associazioni dei cittadini, l’identificazione delle aree pubbliche da valorizzare…così da fare un cronoprogramma delle priorità e delle reali possibilità di intervento.”
La Val Bisagno, dalla messa in gioco delle grandi infrastrutture sottoutilizzate (Volpara, Gavette…), alla valorizzazione dell’Acquedotto storico, fu una delle aree prese a campione per iniziare “una nuova stagione di progettazione urbana”.
L’una e l’altra esperienza sono rimaste al palo… se riprendessimo da li?
* In quegli anni prende vita la serie dei Quaderni del Dipartimento della Pianificazione Territoriale della Regione Liguria, i cui soli titoli rendono bene l’dea che li anima: Qualità delle Aree produttive e Commerciali, Il sistema del verde, Star bene in città,Idee di Liguria:I Capoluoghi, Aurelia & le Altre,Parlami di Aurelia, Sopra & Sotto l’Autostrada,Sciuscià &Sciorbì.