Titolo | A Natale | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Saggistica | ||
Pubblicata il | 22/12/2017 | ||
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La magia del Natale ha da sempre coinvolto narratori e poeti, perché il tema della nascita di un Dio Bambino, che porta luce e speranza all’umanità, è talmente suggestivo da sollecitare l’ispirazione letteraria anche di intellettuali laici, che riconoscono comunque in tale festività la celebrazione di valori quali la famiglia, l’altruismo, la generosità, la fiducia nel domani. Vasta è dunque la gamma di racconti o di poesie che declinano con modalità diverse, ma sempre originali ed evocative, la festa più bella dell’anno. Mi limiterò, anche per esigenze di spazio, soltanto ad alcuni testi, che più di altri hanno lasciato una traccia nel mio immaginario. A partire dal racconto di Grazia Deledda “Il dono di Natale”, in cui già la descrizione del paese, pur nella modestia delle abitazioni, evoca un’atmosfera fiabesca:
“Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole”.
Protagonisti sono due bambini, Lia e Felle, figli di pastori, gente umile dedita ad un lavoro che non risparmia neppure loro, eppure sereni e pieni di speranza per il futuro e anzitutto per quel Natale, che si annuncia straordinario, perché l’unica sorella di Felle e dei suoi quattro fratelli maschi sta per fidanzarsi con un giovane ricco che le ha rubato il cuore, mentre Lia, da parte sua, aspetta con trepidazione un evento ancora più grande, che si svelerà solo alla fine. Il fascino di questo racconto consiste nell’atmosfera natalizia che la scrittrice sarda riesce a creare, offrendoci il quadro di una civiltà pastorale antica, quasi mitica, intrisa di valori irrinunciabili, quali l’attaccamento alla famiglia e alla fede religiosa oltre che la fiducia nel domani; così, l’attesa della Messa di mezzanotte, della cena che ne seguirà e la descrizione della neve, che ammanta tutto di candore, fanno da degno fondale al mistero che sta per compiersi e che aleggia lieve su tutte le pagine. Pagine indimenticabili, che l’autrice dedica “a chi ama i regali di Natale ed è curioso di sapere qual è il dono fatto a Lia e anche quello fatto a Felle. A chi ama le storie che ricordano le nostre tradizioni. A chi ama mangiare cose buone, soprattutto i dolci. A tutti i bambini e a chi ha il cuore bambino”. Come quello del protagonista:
“Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua. Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino. In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro illuminava loro la via.Tutto era bello, tutto era luce e gioia.”
Di tutt’altro genere è il racconto “I figli di Babbo Natale” di Italo Calvino, graffiante denuncia del consumismo natalizio, in cui il protagonista Marcovaldo, magazziniere sognatore e ingenuo, anima candida e sensibile, alle prese con i risvolti più negativi della società industriale – inquinamento, sfruttamento, distruzione del bello – indossa le vesti di Babbo Natale per conto della ditta per cui lavora e va in giro per la grande città a distribuire regali, aiutato dai suoi figli. Proprio questi, all’insaputa del padre, offriranno ad un ragazzino ricco e viziato, figlio del direttore d’azienda, un “Regalo Distruttivo”, l’unico con cui possa divertirsi, dato che di doni tradizionali ne ha già ricevuti a centinaia:
“La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell'abete s'impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c'era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un'aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.”
Quel “Regalo Distruttivo” si rivelerà, nell’ingorda filosofia aziendale, un prodotto da lanciare sul mercato e quindi Marcovaldo non ci rimetterà il posto; così, sollevato, avvertirà intorno a sé non il Natale consumistico, ma un’autentica atmosfera fiabesca:
“E la città sembrava più piccola, raccolta in un'ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d'un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s'udiva l'ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Usci un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un'impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio.”
Un Natale certo più drammatico del precedente, ma che con quello ha in comune, nella prospettiva del protagonista, il desiderio di quiete e di solitudine, al riparo dalla confusione delle strade e dei preparativi, è la poesia “Natale” di Giuseppe Ungaretti, scritta dal poeta/soldato nel 1916 durante una licenza militare, nel corso di quella Grande Guerra che il fante Ungaretti affrontò da volontario, fortemente influenzato nell’impegnativa decisione dall’ideologia nazionalista dei suoi amici futuristi, che vedevano in essa l’occasione di una “bella avventura” e l’esercizio della “sola igiene del mondo”. Salvo prenderne le distanze inorridito poco dopo, a contatto con le inenarrabili sofferenze degli uomini al fronte, che gli ispirano liriche intrise di commossa e dolente pietas:
“Non ho voglia/ di tuffarmi/ in un gomitolo/di strade//Ho tanta/stanchezza/sulle spalle//Lasciatemi così/come una/cosa/posata/in un/angolo/e dimenticata//
Qui/non si sente/altro/che il caldo buono//Sto/con le quattro/capriole/di fumo/
del focolare//”
L’unica compagnia possibile, in quei giorni di licenza, in cui Ungaretti fisicamente è con la sua famiglia, ma, col pensiero, insieme i suoi infelici commilitoni, è quella del fuoco del camino, anzi del fumo e delle sue evoluzioni, precarie anch’esse come i soldati al fronte, come se le vie animate fossero insopportabili per chi sta vivendo l’orrore della “inutile strage”, e il giovane ventottenne, per quella tragica esperienza, avesse accumulato la stanchezza di un vecchio, pur avendo soltanto ventotto anni.
In “Racconto di Natale”, Dino Buzzati, con la sua predilezione per il surreale, narra quello che succede a don Valentino, un parroco zelante ma poco generoso che, alla vigilia della festa, nel duomo “traboccante di Dio”, nega “un pezzetto di quel Dio” ad un povero che bussa alla sua porta:
“ - Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!- -
-Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico- e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.”
Anche Luigi Pirandello in “Sogno di Natale” si sofferma sul tema, indagando le suggestioni della festività e il rapporto dell’umano col divino, stimolato al contempo dall’ingenua fede popolare e dal distacco laico del borghese colto:
“Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: - Buon Natale - e sparivo...”
Se distogliamo il nostro sguardo dal panorama letterario nazionale, per posarlo su qualche autore straniero, non possiamo tacere il “Canto di Natale” di Charles Dickens, novella popolarissima nei paesi anglosassoni, che racconta la conversione al bene di Ebezener Scrooge, che fino a quel momento ha vissuto una vita opaca, senza un briciolo di carità, pensando soltanto ad accumulare denaro e negando ad un proprio dipendente persino un pezzo di carbone per scaldarsi, finché appunto non si verifica il miracolo:
“ -Buon Natale, Bob! - disse Scrooge battendogli sulla spalla con una cordialità schietta, da non si poter sbagliare. - Un Natale, Bob, molto più allegro di quanti non ve n'ho augurati per tanti anni, ragazzo mio. Vi cresco il salario e farò di tutto per assistere la vostra famiglia laboriosa, e oggi stesso, Bob, oggi stesso discuteremo i vostri affari davanti a un bel ponce fumante. Accendete i fuochi e andate subito, mio caro Bob, a comprare un'altra scatola di carboni, prima di mettere un altro solo punto sopra una i.”
In “Piccole donne”, di Louise Alcott, libro adorato da generazioni di adolescenti d’antan, non è casuale che il bel quadretto delle quattro sorelle March, nella casa di famiglia animata dalla loro ardente gioventù, pur in mancanza del padre, impegnato nella guerra di secessione americana, si apra proprio sul loro risveglio, la mattina di Natale:
"-Natale non è Natale senza regali- si lamentò Jo, sdraiata sulla coperta.
- È così spiacevole essere poveri!- sospirò Meg, abbassando lo sguardo sul suo vecchio vestito.
- Non è giusto che alcune bambine possano avere tutto ciò che desiderano e altre non abbiano niente-, aggiunse la piccola Amy, tirando su con il naso con aria offesa.
- Ma abbiamo il papà e la mamma, e la compagnia una dell'altra- disse Beth compiaciuta dal suo angolo.
A queste parole la luce del caminetto sembrò come ravvivare i quattro giovani visi, che però si rabbuiarono subito quando Jo disse tristemente: - Ma papà non c'è, e non lo vedremo ancora per molto –
Non disse "forse mai", ma ciascuna di loro aggiunse in silenzio queste parole, pensando al padre lontano, sul campo di battaglia.”
Concludendo queste note, che non hanno nessuna ambizione di esaustività, proprio per l’ampiezza dell’argomento, qui solo sfiorato, vorrei ricordare un testo, uscito nel 1952, pubblicato negli anni '80 da Emme Edizioni, che mi è caro perché il suo autore, Dylan Thomas, per la sua profonda amicizia con lo scrittore e traduttore riese Luigi Berti, ha intessuto rapporti importanti con la mia Isola e in particolare con Rio Marina, che gli ricordava l’ambiente minerario del suo paese. Ne “Il mio Natale nel Galles”, che ha i bambini per destinatari ideali, Thomas ritrae la festa attraverso gli occhi di un ragazzino, indugiando, sul filo della nostalgia e della memoria, alla ricostruzione di un’infanzia semplice e serena.
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