Dicono che l’infanzia sia il periodo più bello della vita di un individuo.
Non penso sia così.
Stavo per compiere sei anni e sì, certo, fino a quel momento posso dire che la mia vita era trascorsa felice.
La mamma organizzò per me una bellissima festa con tutti gli amici della scuola. Frequentavo la classe prima. Arrivarono numerosi, ciascuno accompagnato da un genitore o da un nonno e ognuno di loro teneva tra le piccole mani un pacchetto infiocchettato per me.
Ricordo che, mentre attendevo ansiosa che la festa iniziasse, me ne stavo seduta a cavalcioni sul mio cavallo a dondolo di legno, un regalo di qualche anno prima, che oramai cominciava a contenermi a fatica.
Pochi giorni dopo il mio compleanno, un folle automobilista, imbottito di chissà che cosa, pensò bene di strappare la vita a mia madre. Aveva ventinove anni ed era incinta. Il mio fratellino non poté mai sapere cosa significasse vivere.
Restammo soli io e papà.
Il nostro piccolo mondo felice all’improvviso era franato sotto ai nostri piedi. Per papà non c’erano più né certezze né aspettative.
Rimase a casa per un po’ di tempo dopo quel giorno, per starmi vicino. Mi accompagnava a scuola e mi salutava sempre con un sorriso; all’uscita lui era sempre lì ad aspettarmi… pareva proprio che non volesse farmi sentire la mancanza della mamma. Ero piccola ma riuscivo a comprenderlo e, anche se con lui fingevo di essere serena, non c’era un solo attimo della giornata che l’assenza della mamma non fosse per me causa di un dolore inconsolabile.
Giunse il giorno in cui papà dovette tornare al lavoro; dovevamo pur vivere, ma al suo rientro serale a casa, spesso lo vedevo seduto in poltrona davanti al televisore spento, lo sguardo perso nel vuoto e la bottiglia di liquore in mano. Alcune volte non usava nemmeno il bicchiere, ma appoggiava le labbra direttamente al collo della bottiglia, cercando così di spegnere la disperazione che lo attanagliava.
Ricordo che una sera, resosi conto della figurina immobile che, seminascosta dallo stipite della porta, lo osservava con occhi accusatori, si alzò e buttò il liquido dorato giù per lo scarico del lavandino. Non ne toccò più una sola goccia. Forse provò vergogna di sé stesso. Non lo saprò mai.
Dopo diverso tempo papà, che era sempre stato un bell’uomo robusto, cominciò a dimagrire. Nella mia ingenuità di bimba, convinta di rallegrarlo, gli dicevo: - Bravo papà, hai fatto un’ottima dieta, ora stai molto meglio, sembri proprio un figurino!
Mi capitava però di vedere la nonna preoccupata, come se la vita non l’avesse messa alla prova a sufficienza strappandole una figlia. A volte la vedevo piangere ma lei, appena si accorgeva della mia presenza, si asciugava in fretta gli occhi arrossati e nascondeva il fazzoletto nella manica.
Papà finì in ospedale diverse volte, andava per brevi periodi e poi tornava a casa da me e da nonna Luisa. Era dimagrito ancora e aveva la testa glabra; i suoi bei capelli neri poco alla volta erano spariti.
- Chissà perché - mi domandavo.
Gli dissi addio quando stavo per compiere dieci anni.
La nonna non ebbe la forza di organizzare per me la festa di compleanno.
No, l’infanzia non è il periodo più bello della vita. Almeno per me non lo è stato.
Riuscii a chiudere i cancelli sul dolore, permettendo alla mia giovinezza di proseguire il suo cammino, che fu piuttosto sereno e senza grossi scossoni.
Tutto questo grazie a nonna Luisa.
Lei fu per me madre, padre, amica, confidente attenta dei miei primi inciampi adolescenziali. Era il fulcro di tutto il mio fragile mondo, l’unica presenza costante e solida a cui poteva aggrapparsi l’introversa ragazzina che allora ero.
Col passare degli anni, il mio carattere subì netti cambiamenti. La corazza che, non senza fatica, mi ero costruita col tempo, mi permise non di archiviare i fatti dolorosi che avevo vissuto da bambina, ma di assimilarli e renderli parte integrante di ciò che ero.
Giunsi così a superare un passaggio importante della mia vita ancora acerba e presi la laurea in Farmacia con centodieci e lode. A quel tempo il corso durava solo quattro anni e io ne avevo appena compiuti ventitré. Anche in quell’occasione nonna Luisa era al mio fianco straripante di orgoglio.
Grazie a lei, l’esistenza dei miei genitori mi era costantemente ricordata dalle innumerevoli fotografie che teneva incorniciate sopra ai mobili. Solo osservandoli ritratti dentro a quei rettangoli, potevo conservare viva dentro di me la loro immagine.
La mia memoria, quella, mi aveva tradita.
Ero ansiosa di rendermi indipendente.
Durante uno dei miei innumerevoli colloqui di lavoro, conobbi Luca. Eravamo seduti fianco a fianco sulle stesse scomode poltroncine. Ognuno con i propri pensieri, immersi nella finta lettura di una vecchia rivista, lo sguardo incollato sempre sulla stessa pagina.
Più il tempo scorreva, più lo stato d’animo mutava: dall’agitazione al momento dell’arrivo si viveva un’attesa che pareva infinita con crescente avvilimento. La speranza in qualche esito soddisfacente si affievoliva col trascorrere dei minuti.
Percepii i suoi occhi posati su di me ancor prima di voltarmi a guardarlo e vidi che stava trafficando con un pacchetto di caramelle gommose ai frutti misti.
- Ne vuoi una? - chiese, porgendomi l’astuccio.
- Grazie, sono le mie preferite - risposi, accettandone una rossa alla ciliegia.
Mi colpirono subito i suoi occhi dalle iridi color nocciola cosparse di pagliuzze d’ oro; erano i suoi occhi a sorridere più della sua bocca. Mi dissi che doveva essere, senza alcun dubbio, un ottimista a prescindere dalle difficoltà che, con buona probabilità, stava incontrando almeno quanto me.
L’ennesima delusione in seguito al risultato di quel colloquio, invece di demotivarmi mi stava facendo piuttosto incattivire. Mi consideravo armata di buona volontà e anche intelligente; possibile che non esistesse un lavoro degno delle mie giovani aspettative? Non mi interessavano le promesse di facili guadagni o di carriere fulminee. Ero concreta e realista.
Sapevo che la nonna disponeva di una discreta rendita che consentiva di vivere in modo più che dignitoso a entrambe, ma non volevo continuare ad approfittare delle sue risorse. Dovevo trovare la mia strada a tutti i costi.
Qualcuno dice che i miracoli o colpi di fortuna o… colpi di qualcos’altro, chiamateli come volete, ogni tanto avvengono.
La nonna era un’ottima cliente della farmacia vicina a casa. Nella mia mente immaginavo il dottor Berrini che, ogni volta che la vedeva arrivare, si sfregava le mani per il consistente incasso che si apprestava a incamerare.
Farmaci, parafarmaci, prodotti per l’igiene personale, cosmetici, insomma la nonna era una fissata dei prodotti venduti soltanto nelle asettiche botteghe. Con uno shampoo fortificante per i capelli e uno sciroppo per la tosse, quel giorno il dottor Luigi Berrini servì personalmente la nonna.
- Buongiorno Signora Ferri. La trovo in ottima forma.
- Mah, insomma, si cerca di andare avanti meglio che si può - gli rispose la nonna, che in realtà era un filino ipocondriaca.
- Sua nipote, se non ricordo male, si è da poco laureata in Farmacia, vero?
- Sì, con il massimo dei voti - rispose pronta la nonna, facendo quasi la ruota come un pavone, - ma sono passati diversi mesi e ancora non ha trovato un lavoro giusto per lei, un lavoro che la soddisfi. A me non dispiace averla a casa, anzi, ma lei vuole a tutti i costi essere autonoma.
- Direi che Giorgia ha ragione, è giovane e deve farsi le ossa. Le dica di passare da me, ho una proposta da farle.
- Glielo dirò senz’altro, grazie dottore.
Nonna Luisa uscì con i suoi acquisti, rientrando a casa con lo stato d’animo di una bambina che aveva appena ricevuto un nuovo regalo pronto da sfasciare.
Quella sera, il profumo mi accolse già fuori di casa, ancor prima di aprire la porta. Nel forno era quasi pronta la mia torta preferita che, come ogni sabato, la nonna non mancava mai di preparare da anni. Era il nostro rito segreto.