Francesco Brunetti (AISEOP)
Dovevo morire per farti vivere

Titolo Dovevo morire per farti vivere
Autore Francesco Brunetti (AISEOP)
Genere THRILLER PSICOLOGICO      
Pubblicata il 13/10/2018
Visite 3363
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Le Vespe  N.  16
ISBN 9788893391368
Pagine 160
Prezzo Libro 14,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788893391375
Se vivere l’amore può essere alienante, cercare di analizzarne le pulsioni e le contraddizioni, scavando dentro di sé con l’ossessione di capire, può portare sul ciglio del baratro e l’amante e l’amato.
Guido, giornalista di professione, ha sulla scrivania da sempre un manoscritto incompiuto: il romanzo che racconta la sua vita. Laura è la sua linfa vitale e insieme il suo veleno e il loro rapporto diventa, nel tempo, sempre più intricato, ossessivo. Quando in Guido infine si fa luce la consapevolezza del perché, finisce una storia ma ne inizia un’altra.
A lettura conclusa si ha l’illusione di poter fare chiarezza e, rileggendo il titolo, di scoprirne il senso, la chiave interpretativa. In realtà tutto, pirandellianamente, “così è se vi pare”.  Infatti il romanzo di una vita, capitolo dopo capitolo, come fa la vita stessa giorno dopo giorno, sposta e ribalta le certezze in un continuo e raffinato gioco di prestigio che prosegue nella mente del lettore come una eco senza fine.
 
La pistola è lì, a portata di mano, secondo cassetto a destra.
“Sono anni che sta chiusa lì!”
La mano, come guidata da una forza autonoma, apre il cassetto, lo fa cigolare. I polpastrelli avvertono il contatto con il legno della custodia, le dita la artigliano e la posano sul ripiano della scrivania. Libri impolverati, fogli scarabocchiati e una vecchia Olivetti con i tasti illeggibili osservano perplessi. Un portatile semiaperto manda una luce azzurrognola, la stanza sarebbe al buio senza quel barlume. Dalla finestra aperta entrano folate d’aria calda, la pelle è umidiccia e appiccicosa come una caramella rimasta troppo a lungo in tasca.
“Ecco il mio capolavoro!”
Un gesto brusco scaraventa a terra un plico che se ne stava sul bordo. Il rumore spaventa l’unica presenza di quella casa oltre al proprietario, un gatto color grigio fumo di cui sono visibili, nell’angolo dove sta in allerta su una poltrona in pelle, solo due punti fosforescenti.
“Quante volte l’ho scritto e riscritto! A pensarci bene non l’ho mai finito… nel senso di dire basta, adesso lo pubblico! Quante volte me lo sono detto! Volevo un capolavoro, un impasto di sangue e di passione, di mistero e di emozioni, della voglia rabbiosa e un po’ folle di scavare nella mia anima senza pietà, una vivisezione spietata e disperata di ogni mio sentimento, di ogni slancio e di ogni fuga, per arrivare al limite della conoscenza, costi quel che costi!
Un miagolio ripetuto e un contatto con la gamba sinistra indicano che Socrate si è avvicinato e reclama le coccole. La mano sinistra lo gratta d’istinto sul mento e sul collo, lui inarca la schiena. La destra sta aprendo la custodia. La Beretta è lì a portata di mano.
“L’ho iniziato che avevo appena finito l’università. Cominciavo a lavorare al giornale, correggevo le bozze e aiutavo il proto: allora la stampa era tipografica, ci volevano tempo e attenzione. Il direttore nemmeno sapeva chi fosse il dottor Guido De Franchi, laurea in lettere moderne con lode, famiglia di origini contadine, inurbata. Terra troppo povera e dura da lavorare, la guerra finita da poco, padre operaio ai cantieri navali, madre in una fabbrica tessile che adesso non c’è più e tre figli da mantenere.”
La mano sinistra si china a raccogliere il faldone da terra. Socrate miagola stizzito e salta giù. Il faldone, posato sul ripiano, si apre sulla prefazione dedicata alla famiglia, al padre Giuseppe, alla madre Maria, al fratello Romano, nome legato al periodo, alla sorella Cristina, un fiore di ragazza che se lo era tirato su come una mamma quel fratellino nato per sbaglio. Lui, Guido, era il piccolino di casa, era il primo della famiglia che poteva e doveva studiare, visto che i primi sudati risparmi e qualche soldo cominciavano a girare per casa. Romano lavorava in un ditta edile, vita di fatica. Cristina era la factotum in casa: quando arrivò Guido frequentava la seconda commerciale.
Nel poco tempo libero cuciva l’orlo del corredo di nozze, come era d’uso, e cifrava gli asciugamani di lino e le lenzuola di fiandra. Il corredo adesso sta nel cassettone su in soffitta, immacolato. Un groppo gli serra la gola, tutto sta tornando alla memoria, con una lucida luminosità in contrasto con la luce tenue dello schermo del portatile. Guido gira le pagine ed ecco che compare una foto di famiglia, una scampagnata per Pasquetta, ci sono anche una zia e un cuginetto. Sfogliando ne compare una di Cristina: non ricorda di avercela messa. Se la gira e rigira tra le mani. Poi la fissa con attenzione e stupore, visto che il ricordo è sfuocato, ma questa sera lui è consapevole di essere in uno stato particolare: un automa che vaga confuso tra presente e passato.
 
“Assomiglia a Lidia, una compagna di scuola, sedici anni o poco più, ci siamo baciati, anzi è lei che nel cortile al rientro dopo la campanella mi è piombata addosso e mi ha baciato: immaginate la mia sorpresa, devo aver fatto la figura dell’imbecille. Ricordo, come fosse adesso, il contatto dei suoi seni sul mio petto e la reazione del mio corpo, lei è corsa via, voltandosi un momento con un sorriso divertito e malizioso. Non ci ho dormito quella notte e la notte dopo e ne ho fatti di castelli in aria ma lei voleva solo ingelosire Luca e, chissà, provocarmi e mettermi alla prova. Li ho visti abbracciati, lei e Luca, nel parco tre sere dopo, passavo di lì per caso. Sono rimasto immobile non so per quanto, loro non mi hanno visto, non badavano a me in quel momento. Ne ho avute ragazze, ma quel primo contatto non l’ho dimenticato. Cristina le assomiglia davvero tanto. Strano, non me ne ero reso conto prima! Aveva un sorriso dolce, era nata per fare la mamma, mi teneva in braccio e sulle ginocchia, mi stringeva a sé quando avevo paura, dei tuoni per esempio: non ero un bambino coraggioso. Quando mi stringeva sentivo il contatto dei suoi seni adolescenti: erano un rifugio per me, come il calore delle mani, la tiepidezza delle guance, il sorriso dolce e rassicurante.”
 
La mano destra trema ed è sudaticcia mentre cerca di afferrare la pistola estraendola dalla custodia. L’acciaio è opaco, un velo di polvere sembra sollevarsi nella poca luce che emana dallo schermo del PC. Guido la rigira tra le mani, mentre il gatto gli si è di nuovo accoccolato in grembo. La notte lascia filtrare una tenue luminosità, una mezza luna calante è alta sopra il tetto e offusca le stelle. Guido posa l’arma e accarezza il gatto con movimenti lenti della mano sinistra, la destra sfoglia il manoscritto, perché di manoscritto si tratta. Ne ha una copia sul PC, in chissà quale versione, altre dattiloscritte, ma questa è scritta a mano così come la prima stesura, quella di un sacco d’anni prima: ci sono cancellature, note, rimandi, macchie, ma la luce è così fioca che non può vedere, solo pescare nella memoria. Una stanchezza profonda si impadronisce del suo corpo e gli intorpidisce mente e braccia fino a che si addormenta con il capo posato sulla scrivania, più precisamente tra manoscritto e pistola, la cui canna fredda e rigida gli sfiora l’orecchio destro.
 
“Io e Cristina siamo nel parco vicino ad un laghetto, lei mi fa vedere i pesci rossi e le anatre che veleggiano come pedine sopra una scacchiera, il sole filtra tra i rami di due platani secolari e di una araucaria che si alza elegante e imponente a sfidare il cielo. Mi tiene per mano, preoccupata che non mi sporga troppo e possa cadere dentro. È molto premurosa e attenta con me, un bimbetto di circa sei anni, taciturno e introverso, ma capace di improvvisi scatti e fughe a nascondermi, come fossi preda di impulsi e pensieri nascosti e indecifrabili. Questa mia problematica caratteriale in famiglia nessuno l’ha notata, tranne lei: è sempre e solo lei che mi tiene d’occhio e si preoccupa.
 
Guido continua a rievocare. Nello stato crepuscolare in cui è immerso i ricordi sono flash che si accendono improvvisi, incuranti dei salti temporali: balzano in avanti e poi a ritroso come in una danza senza regole.
 
“Laura… eri da poco al giornale quando ho incontrato il tuo sguardo, in quel modo che lascia il segno. Mi sei venuta incontro per salutare con il tuo sorriso aperto, gli occhi luminosi, le spalle dritte che seguivano il ritmo del passo con la lieve oscillazione di un’indossatrice. Forse non eri consapevole del tuo fascino o forse ero io che ero geloso di te già prima di risponderti ‘buongiorno’. Ora che sono ad un bivio della mia vita me ne rendo conto. Sono confuso e lucido allo stesso tempo, una lama di freddo mi taglia in due e le due parti sembrano non volersi riconciliare.”
Lo squillo del telefono, un vecchio telefono da tavolo con i numeri da comporre ruotando con l’indice, perentorio, interrompe queste elucubrazioni. Il suono si ripete, anche la suoneria è antica e a prova di sordità. Il gatto è già in allarme e osserva, un poco sorpreso, l’inerzia di quel corpo mezzo adagiato sulla scrivania che sembra non avere reazioni.
Gli squilli cessano per poi riprendere dopo un breve intervallo. Chi sta chiamando non sembra volersi arrendere. La mano destra di Guido fruga il ripiano con movimenti lenti e scoordinati cercando di raggiungere l’apparecchio, forse più per farlo tacere che per rispondere. Dopo aver disarcionato la cornetta e averla lasciata cadere di lato, ecco che una voce rotta dall’emozione e decisamente su di tono riempie il silenzio di quella stanza semibuia:
- Sono Laura! Guido, sei tu? Rispondimi. Ti prego rispondimi. Ho una cosa importante da dirti. Una cosa bella… Guido? Santo iddio… sei il solito! Sono Laura! Sono atterrata da poco, sono ancora in aeroporto. Ti ho cercato per giorni… Guido, rispondi!
Una voce arrocchita, come di chi si è appena svegliato e ha la gola arsa, farfuglia qualcosa che assomiglia più ad un rantolo che ad una risposta.
- Laura? Ah… sei tu… perché non mi sono fatto vivo? … è che non ho voglia di vedere nessuno!
- Tra un’ora sono lì. Ti devo assolutamente parlare. Non farmi scherzi. Hai capito vero? Tra un’ora sono lì.
- Io… certo che sono qui… dove diavolo vuoi che sia? Lau
ra, accidenti a te, lasciami perdere, resta dove sei!
La cornetta, pur mal riposta sulla sua piccola loggia, tace interrompendo la comunicazione e la stanza ripiomba nel silenzio, un silenzio carico di ombre e di presagi.
Guido è entrato in una dimensione verticale nel senso del baratro o dell’espulsione oltre la stratosfera. In assenza di gravità galleggia, poi, d’improvviso, precipita nel vuoto, un abisso buio e senza fine. Da lì una forza oscura lo proietta in alto a velocità non commensurabile, come fosse sparato da un missile. Gli anni si srotolano vorticosamente, i minuti si frantumano in attimi infinitesimi per un tempo inarrestabile.
 
Cristina è al mio fianco, mi tiene la mano, ho i calzoni corti, siamo nei giardini pubblici, mi sporgo per vedere i pesci rossi… whoom… un lampo di luce quasi mi acceca. Poi tutto si fa buio, tutto si confonde. Una luce lattiginosa compare come una falena, si avvicina, schiarisce a poco a poco: Laura è china su di me, mi sfiora, mi bacia. Il profumo di gelsomino, inconfondibile, è l’unico elemento che persiste nonostante questo vorticare. Laura mi stringe a sé, sento le sue forme, il suo tepore, la sua tenera e morbida femminilità. Siamo coricati a fianco, ci guardiamo negli occhi, due occhi chiari, luminosi, che lentamente dissolvono fino a ridursi a due orbite vuote che mi fanno sprofondare nell’angoscia di un incubo. Questa volta precipito, mi sembra di dissolvermi, sfarino fino a consumarmi. Tendo le mani, quel che ne resta, con la destra afferro qualcosa, la caduta rallenta, finché un prato molle e fresco di rugiada mi accoglie e mi fa da giaciglio e si arresta. Whoom… Altro lampo accecante. Cristina ricompare improvvisa, ha lo sguardo spaventato, la presa che mi teneva ben saldo allenta, la cerco, vortico le braccia smarrito, allungo la mano destra, afferro un oggetto, ma è duro, freddo, metallico.”
 
Uno squillo forte e reiterato risuona nella stanza, Laura è in
piedi fuori della porta, sta premendo il campanello.
Dall’interno un rumore sordo e secco, come quello di uno schiocco, lacera il silenzio.
Se vivere l’amore può essere alienante, cercare di analizzarne le pulsioni e le contraddizioni, scavando dentro di sé con l’ossessione di capire, può portare sul ciglio del baratro e l’amante e l’amato.
Guido, giornalista di professione, ha sulla scrivania da sempre un manoscritto incompiuto: il romanzo che racconta la sua vita. Laura è la sua linfa vitale e insieme il suo veleno e il loro rapporto diventa, nel tempo, sempre più intricato, ossessivo. Quando in Guido infine si fa luce la consapevolezza del perché, finisce una storia ma ne inizia un’altra.
A lettura conclusa si ha l’illusione di poter fare chiarezza e, rileggendo il titolo, di scoprirne il senso, la chiave interpretativa. In realtà tutto, pirandellianamente, “così è se vi pare”.  Infatti il romanzo di una vita, capitolo dopo capitolo, come fa la vita stessa giorno dopo giorno, sposta e ribalta le certezze in un continuo e raffinato gioco di prestigio che prosegue nella mente del lettore come una eco senza fine.

 
  • Sarà interessante leggerlo. Complimenti
    Voto attribuito: 5
    Guido De Marchi (21/10/2018 23:58:24)

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