Fortunato è colui che riceve in eredità la storia e le tradizioni della propria famiglia. Conoscere e ricordare significa capire e celebrare coloro che sono venuti prima di noi e che con le loro azioni, il loro modo di essere, i loro pregi, il loro coraggio, le loro fragilità ed il loro esempio hanno costituito un’entità pulsante in cui essi ancora vivono.
La memoria di ciò che è stato diventa parte del presente nel quale ci possiamo riconoscere, tesoro a cui attingere e parte di ciò che siamo, passato che si fa luce nel nostro cammino di ogni giorno. È così nostro compito conservare questa memoria, i valori dell’amore, del rispetto, del lavoro, la storia ed i rituali di un nucleo familiare che grazie ad essi si fa unico per trasmetterli poi ai nostri figli affinché, nell’esistenza di coloro che li hanno preceduti, trovino le coordinate per una vita onesta e continuino, ovunque essi siano, a voltarsi quando sentiranno il fischio del merlo…
laura baracchi
Il 27 Agosto 1898 nasceva a Campi di Ottone, in provincia di Pavia, mio padre, Silvio Baracchi. I miei nonni, Giacomo Baracchi e Virginia Imbres, di origine spagnola, erano l’uno contadino e l’altra maestra di scuola elementare, pertanto tutti i traguardi che papà ha raggiunto nella vita sono stati frutto della sua intelligenza, della sua forza di volontà e del suo coraggio.
Dopo la scuola elementare, sua madre capì che questo ragazzino era molto intelligente e volenteroso. Pertanto, in accordo con il nonno, decisero di farlo proseguire negli studi. Fu così mandato in collegio a Sampierdarena, dai padri Salesiani. Papà ci raccontava il viaggio da Ottone a Genova per andare in collegio: la partenza il mattino presto su una grossa carrozza trainata da quattro cavalli, sulla quale, oltre ai passeggeri, venivano caricate borse, valige, sacchi di patate e qualsiasi tipo di merce. Il conducente era spesso il proprietario dei cavalli e della carrozza, affiancato da uno o più garzoni. La strada era sterrata e stretta, ad una sola carreggiata con buche che facevano sussultare spesso la carrozza.
Per i cavalli la fatica era grande, perciò, dopo tratti più o meno lunghi dove molto influivano le salite, gli animali venivano sostituiti. Le stazioni erano sempre presso una locanda con osteria, pertanto durante il cambio dei cavalli i vetturini, non avendo precisi orari da rispettare, si ristoravano spesso con uno o più bicchieri di vino e pane. Il viaggio era piuttosto regolare durante la bella stagione, ma in inverno, a causa del freddo e della neve, era necessario l’intervento degli spalatori e allora si conosceva l’orario di partenza ma non quello di arrivo.
Il viaggio durava un’intera giornata e la carrozza giungeva a Genova solo la sera. Nell’arco dell’anno scolastico papà tornava a casa due sole volte: a Natale e a Pasqua.
Torriglia – la galleria di Buffalora (inizi ‘900)
Omnibus Genova-Ottone (tiro a quattro) 1910
Corriera degli anni ‘20
Reparto di assalto 26° reggimento fanteria (1917)
al centro in seconda fila Silvio Baracchi
La famiglia, la patria e il lavoro furono i suoi grandi amori. All’età di 18 anni, superato l’esame di maturità, durante la Prima Guerra Mondiale, partì volontario: fu inviato al fronte con il grado di sottotenente di fanteria nei reparti di assalto. Combatté sul Carso e sul Piave. A 19 anni gli venne assegnato il comando di un reparto di truppe d’assalto composto da 35 uomini con il quale il 19 giugno 1918, non ancora ventenne, sul Piave meritò la medaglia al valore militare con questa motivazione:
“Al sottotenente 26° reggimento fanteria Baracchi Silvio da Ottone (fraz. Campi), Pavia.
Sotto il violento fuoco avversario incoraggiando e incitando i dipendenti, si slanciava all’attacco alla testa del proprio plotone, raggiungendo per primo l’obiettivo e tenacemente mantenendovisi nonostante i contrattacchi nemici. Offriva ovunque ai suoi inferiori nobile esempio di coraggio e alto sentimento del dovere.
San Pietro Novello (Piave) 19 giugno 1918”. Il 27 agosto compiva 20 anni.
Silvio Baracchi - sottotenente di fanteria comandante reparti di assalto 26° Reggimento Fanteria (1917)
Francesco Carchedi.
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Rimase tutta la vita legato al suo attendente di quei tempi, Francesco Carchedi, campano di origini, al quale insegnò a leggere e a scrivere. Carchedi, dal canto suo, mantenne con papà rapporti di fraterna amicizia e riconoscenza, venendo spesso a trovarci a Torriglia ed anche ospitandoci a casa sua a Firenze.
Nel 1919 papà fu richiamato alle armi ed inviato in Tripolitania. Da qui scrive ai suoi genitori ricordandoli con rispetto (al padre dava del Voi).
Cartolina spedita dall’oasi di Zanzur il 4 Marzo 1919 dedica:
“Ai miei genitori, volendo significare la devozione filiale e la riconoscenza infinita – firmato l’affezionatissimo Silvio”.
Abbazia, 6 giugno 1920 cui testo sul retro recita “la sfilata dei reparti d’assalto dei reggimenti (25.26.39.40.73.74) componenti la 45ma divisione il giorno dello statuto, 6 giugno 1920, innanzi al tenente generale Ferraris, comandante la divisione. In testa a tutti il mio reparto (pioggia di fiori dalle signorine!).
Anche a Zanzur seppe conquistare la stima e la fiducia dei commilitoni, di cui abbiamo conferma in una cartolina postale di un collega datata 01/03/1919 che scriveva: “Silvio carissimo, sia per te un ricordo perenne e duraturo questa mia, ricordando i giorni passati, fraternamente uniti nell’ardua impresa. In te trovai il vero amico, degno della mia stima e del mio affetto, un caro conforto e aiuto nei bisogni della vita” firmato “l’amico Piero Codola”. Nel 1920 fu a Fiume con D’Annunzio. Nel 1922, ad Abbazia, commemorando l’evento, sfilò in testa al suo reparto con manifestazioni di riconoscenza e simpatia da parte del popolo.
A 28 anni si laureò a pieni voti in Medicina e Chirurgia all’Università di Genova. Per completare la sua preparazione frequentò, prima e dopo la laurea, il pronto soccorso dell’Ospedale San Martino e successivamente la clinica ostetrica dello stesso ospedale e le guardie ostetriche della Val Bisagno.
Terminati con ottimi risultati gli studi ed il tirocinio, iniziò a lavorare a Torriglia, con una preparazione professionale invidiabile ed invidiata, grande senso del dovere, dedizione ed umanità. Successe al Dott. Mario Costa, stimato e onesto collega dal quale ereditò il suo primo incarico. Era libero professionista, pertanto non percepiva stipendio dal Comune.
Per mio padre il rapporto con il paziente non era solo professionale ma anche umano e di amicizia. Seguiva le persone con il massimo impegno, studiava i casi difficili e, raccontava la mamma che, a volte, scendeva dal letto di notte per recarsi da pazienti che lo avevano lasciato dubbioso sulla diagnosi.
Ma prima di addentrarci nel racconto occorre conoscere il contesto nel quale operavano i medici di campagna.