Papà, non esiste la tua nascita e morte: tu sei con me anche oggi. Per ricordarti pubblicamente, ho scelto il 19 marzo, la festa del PAPÀ, e il giorno del tuo onomastico: San Carlo, il 4 novembre.
Lo sto facendo oramai da anni e continuerò sino a quando non riuscirò a “scrivere di te”
Sto continuando a raccogliere le testimonianze delle persone che ti hanno voluto bene, tanto da testimoniarlo ancora oggi, anche se non sei più tra noi da trentotto anni. Per molti tu sei stato l'autista Carletto, l'autista della linea "70",amato alla stregua di un parente. A volte sono pensieri non articolati, magari di una riga, ma che testimoniano un sincero affetto per la tua persona. E sono già tanti.
Col tempo i miei ricordi di gioia condivisa affiorano sempre più e le amarezze, gli scontri, anche importanti, si affievoliscono. Il tuo impegno di padre premuroso, affettuoso non nei gesti ma nei fatti, oggi sono in grado di apprezzarlo appieno, di capire quanto eri attento allo sviluppo della mia persona, nella sua interezza, indirizzandomi con l'esempio verso il buono e il giusto.
Oggi ho forse la necessità di far sapere che ti voglio più bene di allora perché ho capito i tuoi sacrifici e sono orgoglioso di essere il tuo unico figlio.
Ciao.
Walter
Genova, 19 marzo 2016
Donatella Fabris l’ho conosciuta nel 1965, quando avevo 16 anni. Con la mia famiglia, a quel tempo, abitavo a Sestri Ponente e nel pomeriggio ero solito fare le cosiddette “vasche” in via Sestri. Con i compagni di scuola si percorreva la via avanti e indietro per ore. Questa strada pedonale era, e lo è ancora oggi, zeppa di negozi di tutti i tipi. Donatella faceva la commessa in una cartoleria.
Aveva trent’ anni. Era una gran bella donna, almeno per me. Le sue forme erano morbide ma snelle. Era una irraggiungibile Marilyn Monroe, però con i capelli castani. Abitava a Panigaro, un borgo sulle alture di Sestri, e tutte le mattine prendeva il pulmino che la portava sino a piazza Baracca, capolinea a pochi passi dal suo luogo di lavoro.
Quella corriera era quasi sempre guidata da un signore con i baffi, sorridente e affabile: Carletto, mio padre.
Nel mio “vascheggiare” andavo a trovare Donatella, a volte per un acquisto, più spesso per un saluto, per dare un’occhiata alle ultime novità in fatto di penne stilografiche, biro, matite, gomme. Soprattutto ero interessato alle copertine dei “quadernoni” e dei quaderni ad anelli, quelli dove si potevano aggiungere i fogli. La mia occhiata riservata a lei era concupiscente, quella di un sedicenne in crescita e in sviluppo ormonale; la sua, quella di una zia, a volte di una sorella maggiore. Spesso parlava di Carletto, di come ero fortunato ad avere un padre così simpatico, così buono e generoso, sempre disponibile e cordiale con tutti. Io abbozzavo un sorriso ma in realtà, dentro di me, mi rodevo.
Come mai papà a casa era così diverso? Mai una carezza, mai un gesto affettuoso, una coccola? Come molti uomini della sua generazione (era del 1922), quelli che hanno partecipato alla Seconda guerra mondiale, era capace di fare mille mestieri: imbianchino, elettricista, tappezziere, muratore, contadino (arava la terra con la motozappa).
A militare, nell’aeronautica, aveva conseguito la patente D, quella che permette la guida degli autobus (più tardi la E). Mi ha sempre raccontato di non avere mai volato in quanto addetto ai “servizi di terra” ma che comunque il servizio militare gli aveva permesso di conseguire una patente importante, che non era all’altezza di tutti. Èstata la sua fortuna perché, una volta trasformata la sua patente da militare in civile, la ricerca del lavoro non fu difficile. Ma di questo parleremo diffusamente in seguito.
Non gettava via mai nulla e per questo lo chiamavo “papà riciclaggio”. Ricordo ancora, oggi con affetto, che il manico di legno di un ferro da stiro elettrico, di cui si era bruciata la resistenza, dopo avere calcolato e deciso che non valeva la spesa riparalo, l’ha fatto diventare il manico di una raspa da legno. Quando mi avvicinavo con l’intenzione di aiutarlo mi diceva di andare a studiare, di impegnarmi in quello. E io pensavo che non mi volesse, anche perché in qualche occasione portava con sé ragazzi più piccoli di me come aiutanti nei lavori elettrici. Soffrivo di gelosia. E poi a casa non c’era quasi mai. Gli orari di un autista di mezzi pubblici non sono quelli di un impiegato: facendo i turni durante la giornata aveva del tempo disponibile che riempiva di altro lavoro. Quest’altra attività aumentava il reddito, e il suo sacrificio permetteva il miglioramento economico della famiglia. Per me era tutto tempo che mi rubava.
Anche su questo fronte ricordo la gioia di quel giorno che aveva comunicato, a me e alla mamma, che era passato da un amico proprietario di un negozio di elettrodomestici e aveva acquistato frigorifero e televisore. Presto ce li avrebbero consegnati. Il frigorifero era prodotto da una azienda americana, di cui non ricordo la marca, mentre il televisore era un Telefunken di produzione tedesca, il meglio che offriva il mercato. Aveva dato un acconto che proveniva dai suoi lavori “extra”. Alle rate ancora da pagare, avrebbe fatto fronte allo stessa maniera. Era raggiante.
Devo dire che sino al 1965, partendo dall’esame di ammissione per la media inferiore, lo studio non era il mio interesse principale tanto che papà e mamma mi facevano seguire per i compiti a casa dalla moglie maestra di un collega tranviere. Ma non l’ho mai sentito lamentarsi, non me li ha mai fatti pesare, i soldi spesi per le ripetizioni. Comunque intorno ai sedici/diciassette anni, gli ultimi della ragioneria, ho iniziato a studiare con i compagni e le compagne, rimanendo promosso tutti gli anni a giugno. Anche all’esame di maturità me la sono cavata discretamente. Nel 1969, anno del mio diploma, per la prima volta il voto fu espresso in sessantesimi, e ricordo che il voto del mio “primo della classe” fu 45/60; per cui il mio 38/60 mi sembrava un buon traguardo.
Sarebbe stato bello continuare a studiare. Una laurea in economia e commercio mi sembrava nelle mie possibilità, visto che la voglia di apprendere, di conoscere mi aveva contaminato e per fortuna questo avviene ancora oggi. Avevo iniziato ad appassionarmi alla lettura fin da piccolo, con le avventure dei pirati scritte da Emilio Salgari ma i libri di scuola erano un’altra cosa: Ulisse, Achille, Ettore, Dante Alighieri, Renzo e Lucia e tanto altro erano letture imposte e quindi noiose. Bello è stato rileggere I promessi sposiin età adulta e scoprire una trama avvincente, un’analisi della società con personaggi ricchi di valori e di miserie umane.
Mamma e papà, soprattutto lui, non erano d’accordo di mantenermi ancora per continuare a studiare. “L’Istituto Bancario San Paolo ti sta offrendo un lavoro. Sarebbe bene che tu accettassi questa opportunità, non lasciartela scappare. Se, come mi stai raccontando, hai piacere e passione per lo studio, riuscirai a fare le due cose, come io riesco a fare altri lavori, oltre a quello di tranviere”. Per anni, e sono quelli della contestazione giovanile, l’ho quasi odiato. “Non solo non mi vuole vicino a sé quando fa i lavori di elettricista, di muratore, ma non ha fiducia nelle mie possibilità” mi dicevo; e la mamma rincarava la dose: “adesso che è venuto il momento di assumerti qualche responsabilità, e iniziare a lavorare, ti è venuta la passione per lo studio? Non ti credo”. Andai quindi al mio primo colloquio di lavoro con il capo del personale dell’area Liguria dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino, il ragionier Capurro. Ricordo ancora tra le tante domande, questa: “Potremmo avere la necessità di farla lavorare distante da Genova ma comunque in Liguria, cosa mi risponde?”. La risposta, oggi penso pronunciata in modo convincente, fu: “Va benissimo, credo che sarebbe un’ottima opportunità per imparare e conoscere posti nuovi”.
Ognuno è libero di non crederci ma io, non avevo raccomandazioni. Papà non aveva conoscenze altolocate. I miei referenti, nella domanda di assunzione che avevo inviato alla Banca, erano il medico di famiglia e il prete che mi aveva battezzato. Fatto sta che il 15 giugno 1970 venivo assunto per un periodo di prova di sei mesi a lavorare nella filiale di Sestri Ponente, il tutto propedeutico ad una assunzione “a tempo indeterminato”. Un giovane impiegato di quella filiale doveva andare a militare e la necessità della banca era proprio lì. Tutto ciò mi sembrava incredibile: anche senza “santi in paradiso” avevo un lavoro considerato buono e ben pagato, e per di più sotto casa.
Potevo anche continuare, e questo mi dava una grande gioia, all’uscita dal lavoro, a fare la vita di sempre: frequentare gli amici che erano rimasti in zona, fare le vasche in via Sestri, passare a trovare Donatella.
Il tempo, però, non era più mio, non potevo gestirlo come mi pareva: un terzo della giornata la passavo a servire allo sportello della reception di filiale i clienti, ad aiutarli a compilare le distinte di versamento, ad accompagnarli in cassetta di sicurezza, ma soprattutto a mettere nello schedario le “schede clienti”, dopo che il cassiere aveva annotato i versamenti oppure i prelievi. Se non fosse stato per il contatto con la clientela, certamente un lavoro noioso. Vedendo le figure di direttore e vice di filiale, a quel tempo quasi inavvicinabili, pensai che quello doveva essere il mio traguardo. Ero certo che tutto questo lo avrei conseguito facendo dei sacrifici, non sarebbe venuto da sé. La Banca era in espansione, da regionale (Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria) voleva diventare nazionale, europea e poi, forse già anche allora, internazionale. Per questo aveva bisogno di “quadri direttivi” e la necessità aziendale avrebbe fatto scegliere anche quei dipendenti che dimostravano buona volontà, voglia di crescere professionalmente ed impegnarsi, disponibili a trasferirsi.
Nel frattempo potevo andare a trovare Donatella in cartoleria. Lei mi raccontava quanto mio padre, che incontrava tutti i giorni per andare al lavoro, era contento che il suo unigenito figlio avesse trovato lavoro e che lavoro: era diventato un bancario. Lo raccontava a tutti i passeggeri. Ma a casa, di questo non si parlava, passava come una fatto che stava nell’ordine delle cose. Intanto, con i soldi del mio stipendio, mi ero iscritto alla facoltà di Economia e Commercio.
Mi stavo avvicinando ai trent’anni, e avendo una mia autonomia economica, cominciavo a sentire la necessità di formarmi una famiglia. Avevo già frequentato una ragazza con intenti “seri” ma forse l’insicurezza economica e gli odiosi parenti di lei mi avevano, dopo un certo tempo, allontanato. Finalmente a Pegli nel 1976 trovai la ragazza che poi è diventata mia moglie. Di statura media, qualche centimetro più piccola di me. Aveva un bel sorriso, tenero e allegro, che induceva al buon umore. Era la mia Marilyn Monroe. Finalmente l’avevo trovata. Inoltre, la sua famiglia era accogliente e generosa, anche se, per censo e cultura, avrebbe potuto tenere le distanze.
La mia mamma non era contenta, ma penso –oggi –che non lo sarebbe stata neanche se le avessi presentato la Madonna in persona. Ero il suo unico figlio maschio, che aveva un buon lavoro, e che le era costato tanta fatica metterlo al mondo: “quando sei nato pesavi cinque chili” mi ripeteva spesso. Invece papà era entusiasta, finalmente dimostrava tutta la sua soddisfazione anche a me.
Isabella, questo è il nome della mia fidanzata, si sentì bene accolta da Carletto. Per tutti i seguenti 40 anni di matrimonio, non so quanto scherzosamente poi, mi ha ripetuto “io ti ho sposato per avere Carletto come suocero”.
La mia vita stava cambiando ancora. A soli 55 anni mio padre morì.
Curato come diabetico da sempre e operato di ulcera gastrica all’ospedale di Sestri, fece fatica a riprendersi. Il chirurgo mi chiamò. Papà aveva da vivere ancora sei mesi. L’alterazione glicemica era stata causata molto tempo prima da un tumore al pancreas, mai diagnosticato. Il decorso della malattia aveva intaccato in seguito il fegato e poi lo stomaco, diventando una metastasi incurabile.
Dopo alcune applicazioni di chemioterapia all’Ospedale Galliera, papà mi chiese di sospenderle in quanto il viaggio e le cure lo stancavano molto, non fornendogli adeguato giovamento. Al mattino, prima di andare al lavoro,facevo a quell’uomo sempre più scheletrito, un’iniezione di morfina per permettergli di sopportare il dolore. Tutto questo durò sino al 14 febbraio del 1978, il giorno di San Valentino ma anche del suo decesso.
Due giorni dopo, ai funerali nella parrocchia di Virgo Potens, a Sestri Ponente, partecipò moltissima gente, molta di più di quanto potessi immaginare.
Anche allo sportello della banca dove lavoravo, molte persone vennero a cercare il “figlio dell’autista Carletto” per testimoniarmi il loro cordoglio. Ognuna aveva da raccontarmi un fatto personale che lo legava a lui.
Come forma di rispetto, Isabella ed io facemmo passare sei mesi prima di sposarci.
Durante una visita degli Ispettori in filiale (eravamo nei primi mesi del 1979), venni contattato dal Capo Ispettore che mi offerse di fare parte del loro gruppo. Io accettai subito, intuendo le possibilità di carriera, ma chiesi di poter rimanere nell’ambito della Liguria. Vista la mia prossima paternità, volevo rientrare a casa alla sera il più possibile. La richiesta fu accettata. Giusto il tempo di salutare clienti ed amici, subito in viaggio per la prima missione ispettiva. A Varazze, a pochi chilometri da casa. Prima di partire non potevo non passare a salutare Donatella. Fu un congedo semplice, ma lei mi disse anche: “un giorno Carletto ti farà una sorpresa”. Non detti peso a quest’ultima frase anzi, non la capii proprio.