Jean Génois
C.A.P. 22074

Titolo C.A.P. 22074
un’opera d’arte sbagliata
Autore Jean Génois
Genere Narrativa      
Pubblicata il 07/12/2020
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Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Spazioautori  N.  3780
ISBN 9788893392235
Pagine 154
Prezzo Libro 15,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788893392242
Prezzo eBook 4,99 €
Nella cornice paesaggistica lariana si muovono, ognuno con la propria originale e densa storia, molti personaggi che la morale comune, borghese e benpensante, definirebbe ’fuori tono’. Eppure, l’intreccio dei loro destini, nei quali non mancano lampi di illusiaone e irreversibili delusioni e dolori, è in grado di produrre sentimenti veri e profondamente reali. L’autore, con garbato tecnicismo, riesce anche ad orientare lo sguardo del lettore sull’aspetto architettonico ed artistico che rende unici i paesi della bassa comasca, offrendo uno spunto di riflessione sulla commistione vita-arte.
Quante volte Elvio aveva percorso quel tragitto sul lungolago, ma quella volta provava un certo disagio nello sfiorare i passanti che incrociava; con un certo fastidio osservava i turisti raggrauppati in attesa di imbarcarsi sul battello Don Rodrigo per effettuare il giro del lago. Pensava che la giornata autunnale, umida e nebbiosa, non fosse l’ideale per godersi le bellezze del Lario. 
Immerso in tali considerazioni, procedeva spedito in direzione del Panteon Voltiano, dove scorgeva imponente il Monumento ai caduti del 1915/18 ideato dall’architetto Sant’Elia e realizzato da Giuseppe Terragni[1]. Opera concepita nell’ottica futurista marinettiana, imponente nella sua retorica monumentale. Fra l’altro inconsapevole struttura lapidea,2prototipo dell’odierno vettore spaziale: Space Shuttle Challenger. Ma, ai caduti commemorati della Prima guerra non era concessa una replica o qualche possibile variante sul sacrario? Questo si domandava perplesso Elvio. 
Poco più avanti del mausoleo non scorgeva, quel giorno, il consueto librarsi in volo delle colorate libellule, idrovolanti dell’aeroclub.
Dopo circa mezz’ora di cammino, si accorse che i suoi piedi sciaguattavano dentro gli stivali di plastica sommersi dall’acqua. Stupito, si guardò intorno e finalmente si rese conto che camminava immerso nell’acqua limacciosa del lago, che era esondato invadendo piazza Cavour e le vie adiacenti. Va bene che da tempo era gravato da pensieri che lo distraevano, ma addirittura non accorgersi del prolungato pediluvio incominciava a preoccuparlo.
Mentre osservava l’acqua che ribolliva fuoriuscendo tumultuosa dai tombini e invadendo il selciato, si ricordò di situazioni analoghe vissute a Venezia, tanto che si guardò intorno disorientato cercando di scorgere delle gondole: almeno quelle. Niente, vi erano ancorati battelli dai nomi manzoniani, natanti a due piani che ricordavano in scala ridotta i mastodontici transatlantici da crociere, assai simili a deliranti condomini galleggianti che per l’occasione avevano sospeso il servizio data l’anomala e ricorrente esondazione del Lario.
Il girovagare senza una meta precisa era una malsana abitudine che da tempo condizionava i pomeriggi trascorsi a Como, lontano dal paese della bassa comasca nel quale risiedeva da circa 35 anni.
La sua era una famiglia di profughi provenienti da Rijeka (Fiume), scampata alle rappresaglie dei partigiani titini attuate alla fine della guerra. Lui non era mai riuscito a comprendere il motivo di tanto odio nei confronti degli italiani. Non credeva ai soprusi e agli abusi commessi dai fascisti nei confronti di Slovenia, Croazia e altre minoranze etniche slave.
La famiglia che lo aveva portato con sè in Italia non era quella che lo aveva generato, ma lo aveva adottato in seguito a un atroce episodio nel quale furono vittime i veri genitori, originari di Lubiana, città che lasciarono per i comportamenti “esageratamente democratici” dei fascisti italiani e dei loro collaborazionisti croati capeggiati dal criminale Ante Pavelic.[2]I genitori di Elvio non partecipavano alle manifestazioni promosse dagli occupanti, anzi erano contrari: per questo motivo venivano considerati dei sorvegliati speciali, dagli atteggiamenti sovversivi.
Un giorno, una squadraccia ustascia[3]in compagnia di un sarcastico ufficiale fascista ubriaco si appropriò di una coppia di mucche che erano appena state munte. Con un calcione rovesciarono a terra due secchi di latte fumante. Alle rimostranze del padre di Elvio, la squadraccia sghignazzando iniziò a colpire l’uomo con una vanga trovata nell’aia. La ventiduenne madre di Elvio, intuendo la situazione, si precipitò in casa e nascose il figlio di appena due anni nella legnaia poco distante, esortandolo a nonpiangere né a farsi sentire, quindi tornò sui suoi passi. Vide il marito a terra massacrato dai colpi dei criminali. Fu allora che si scagliò con rabbia, cercando di affondare le unghie sul viso dei criminali, ma venne colpita da un calcio al ventre. Cadde prima in ginocchio poi a terra e svenne. Uno dei criminali la trascinò allora per i capelli all’interno della casa colonica e abusò di lei, poi venne il turno degli altri, che portarono a termine l’infamia prima di trascinarsi dietro le mucche: freddarono con un colpo alla testa i genitori del piccolo, che rimase nascosto nella legnaia. Per concludere la loro bravata appiccarono il fuoco alla casa colonica.
 Il piccolo Elvio fu tratto in salvo da alcuni vicini che, nascosti dietro covoni di fieno, avevano assistito terrorizzati allo scempio. Da quel momento quelli furono i suoi genitori. Il bambino non vide i corpi straziati della madre e del padre, perché pietosamente i contadini confinanti tumularono in fretta e furia le salme dei due infelici.
Da quel giorno il bimbo cancellò dalla mente il tremendo episodio, accettando i nuovi genitori che, a loro volta, non fecero mai parola di quello che allora avvenne.
Pensava, senza esserne troppo convinto, che probabilmente si trattava della solita becera propaganda comunista. In seguito la sinistra fu per anni colpevolmente silenziosa sulle nefandezze, prima subite poi compiute, per rappresaglia dai partigiani di Tito nei confronti di persone che spesso si ritenevano ignare e incolpevoli delle ingiustizie commesse. Molti credevano di non aver seminato l’odio che in seguito germogliò e propagò impetuoso con l’orrore che ne seguì. 
Le foibe ebbero un tragico ruolo nel genocidio attuato questa volta verso gli italiani, di certo non ignari delle accuse e delle angherie subite dalle minoranze slave; mentre, con la consueta e raffinata codardia, i burocrati, le alte sfere del regime fascista e i loro accoliti si sottrassero per la maggior parte alla cattura, dileguandosi. In parole povere gettandosi nel sicuro mare della “presunta civiltà latina” oltre confine, come fanno i ratti prima che la nave affondi.
Era il tormento ricorrente di un passato del quale faceva volentieri a meno di parlarne a chicchessia, se non con l’ausilio di opuscoli e pubblicazioni che periodicamente riceveva dalle associazioni di profughi ex residenti in Jugoslavia. Lui, comunque, era un italiano autentico e in ogni atteggiamento esteriore cercava di mostrarlo con fierezza: petto in fuori, voce autoritaria e stentorea, andatura eretta, statura che superava il metro e novanta, capelli brizzolati con taglio militaresco, occhi azzurri. La classica icona della propaganda della “civiltà latina”, certamente nulla a che vedere con i barbari che avevano costretto i connazionali portatori di valori millenari alla fuga disordinata e precipitosa dai Balcani. Insomma, un perfetto fascista, parzialmente informato dalla propaganda distorta e nostalgica dei colonizzatori, che seminarono a loro tempo morte, terrore e risentimento e che indussero le popolazioni slave a ribellarsi con estrema determinazione e ferocia.
Le convinzioni di Elvio in tal senso spesso vacillavano. Loro erano considerati come la maggior parte dei connazionali in base al frusto luogo comune: “brava gente”, pertanto non potevano aver compiuto efferatezze di tale entità. Il motto fascista: Religione, Patria, Famiglia non era forse una solida garanzia?
Immerso fino alle caviglie, dopo essersi levato gli stivali continuò a procedere a piedi scalzi in direzione di Cernobbio. Oltrepassato l’aeroclub, lo stadio Sinigallia e le piscine imboccò l’incantevole e panoramico lungolago che conduceva a Villa d’Este. Intorno, un’atmosfera ovattata rendeva soffici, a tinte sfocate, il paesaggio circostante e i pensieri più ruvidi. Una sorta d’intimità conosciuta dagli abitanti delle lagune e dai residenti di località lacustri. Si accorse che si era fatto tardi e pensò a quali orari della FNM potesse affidarsi.
Non era mai stato un frequentatore assiduo di Cernobbio, seppure fosse un posto incantevole come la maggior parte dei comuni comaschi affacciati sul lago. Non amava soffermarsi ad ammirare Villa d’Este, struttura rinascimentale che lo lasciava indifferente, luogo dove annualmente si tiene il Forum Ambrosetti, occasione d’incontro tra politici ed economisti, insomma il gotha del potere a tutti i livelli, con la benevola sempiterna presenza dei prelati. Non per niente l’edificio, all’origine, era destinato dal cardinale Tolomeo Gallio a sua residenza estiva.
Fece dietrofront per raggiungere la stazione di Como lago. Lungo il tragitto, sulla sua sinistra, scorgeva mazzi di fiori colorati secchi o di plastica, legati col fil di ferro ai bordi del parapetto che sovrastava il lago. Si fece un veloce e scaramantico segno della croce per poi proseguire spedito verso la Ferrovia Nord, infilandosi gli stivali per una questione di semplice decoro, del quale alla fin fine non gli importava granché. Chi lo conosceva certo non si meravigliava del suo abituale abbigliamento sportivo e giovanile che strideva beffardamente con l’età avanzata, che lui si rifiutava, nonostante l’evidenza, di avere.
Dopo un breve tragitto, scese dal treno delle FNM alla stazione di Ramazzo. Infreddolito, cercò di orientarsi tra la fitta nebbia che gravava intorno, non ricordando dove aveva posteggiato la vecchia bicicletta rosa da donna; dopo un attimo di smarrimento, la scorse vicino al cancello del grande setificio. Contento, la inforcò e si diresse verso casa con cautela, in quanto l’adorato velocipede era sprovvisto dei fanalini e i freni erano poco affidabili. Insomma, per Elvio era comunque un mezzo sicuro, in quanto era ‘lui’ a condurlo. Ogni giorno, infatti, prima dell’ora di pranzo, si recava all’asilo e caricava Marianna, la nipotina di quattro anni, sul seggiolino sistemato davanti al manubrio, mentre il nipotino Federico sedeva sul portapacchi posteriore dove, timoroso, restava per tutto il tragitto avvinghiato spasmodicamente al nonno, che pedalava fischiettando, incurante del possibile invecchiamento precoce del bimbo.
Vederlo in giro era un divertimento per molti cittadini della bassa comasca. Nei periodi caldi della stagione era sua consuetudine recarsi alla piscina comunale di Saronno; quando tornava in paese era capace di spararle grosse sulle quantità di vasche olimpioniche affrontate… forse pensava d’impressionare l’interlocutore che lo ascoltava con un sorrisino ironico. Indubbiamente Elvio era un ottimo nuotatore, amante del mare e delle attività sportive nelle quali riusciva mostrare la sua integrità fisica nelle diverse performance, tra le quali il calcio a livello semiprofessionistico e la marcia. Beh, per la sua ben celata età avanzata non era poco. Finché un giorno, sentendosi un centometristaimbattibile, sfidò sarcastico un tipo di mezza età: un certo Corbella, che ogni giorno correva due o tre km per tenersi in forma all’interno del Parco del Lura nella parte superiore del Percorso Vita. Il signore, divertito, accettò per gioco la sfida, anche perché la strada da affrontare non superava i 150 metri. Elvio, magnanimo, concesse 10 metri di vantaggio allo sfidante prima di partire. Al via, i due percorsero a velocità sostenuta il breve tratto di strada, che al traguardo vide sconfitto Elvio che, incredulo e pallido, si accasciò in mezzo al prato portandosi le mani al petto. Spaventato, il vincitore per un attimo temette che Elvio fosse stato colto da infarto.
Un comportamento singolare lo notarono i frequentatori di Bissago che portavano quotidianamente a spasso i loro cani. Era noto a tutti il suo culto per le attività sportive. 
Una mattina lo videro procedere impettito sulla strada del ritorno: busto eretto, andatura spedita e ancheggiante come il celebre marciatore profugo fiumano, campione olimpionico a Tokio nel 1964, Abdom Pamic. Insomma, in perfetto stile da maratoneta.
Lui naturalmente bleffò raccontando, spossato, d’aver percorso tra andata e ritorno una ventina di chilometri senza sosta. Increduli, tutti si complimentavano, anche se alcuni rimasero un pochino dubbiosi. Infatti, alcuni escursionisti, trovandosi occasionalmente in prossimità della frazioncina di Puginate nel Comune di Bregnano, videro scendere da un piccolo sentiero Elvio con andatura pesante e lui, non appena si accorse del gruppetto, iniziò a marciare stoicamente con lo stile da maratoneta ma, non appena scomparvero dal suo orizzonte, continuò esausto a camminare lentamente per riprendere fiato. Tale comportamento era stressante, ma per lui era importante mantenere salda l’immagine dell’uomo fisicamente superiore ai paesani, che risultavano ai suoi occhi dei rammolliti senza nerbo; limite ancor più degradante per loro era di non appartenere alla tifoseria della “vecchia signora”.
Il suo timbro vocale era sopra le righe, ricordava un militare che addestrava le reclute: accento stentoreo, ordini secchi, mascella vigorosa e ridicola come ‘quello’ che arringava le folle dal balcone di piazza Venezia. Una figura abbastanza patetica quella di Elvio quando narrava le glorie del passato regime.
Per lui e per i paesani era consuetudine incrociare strani personaggi, a dir poco originali. Uno di questi era il sindaco del luogo: donna di statura sotto la media, aspetto insignificante, formazione ideologica catto-comunista, cultura un optional a lei sconosciuto, despota e arrogante. Per tali motivi i concittadini la consideravano una pseudo democratica, prepotente e tronfia del ruolo che ricopriva.
Quando riceveva a colloquio i cittadini si udivano urla e invettive fin fuori dai cancelli del municipio e nel sottostante acquitrino inquinato, pomposamente chiamato torrente Lura. Dopo le sue elezioni a prima cittadina aveva sistemato nei gangli strategici del Palazzo comunale i fedeli portaborse e politici anatroccoli raccattati sul luogo, graziosamente ossequiosi verso le sue direttive. Questo le permetteva di avere tutto sotto controllo.
Spesso i luoghi comuni centrano il bersaglio, come nel caso della prima cittadina. Si dice che chi pensa e agisce in un certo modo probabilmente è mosso da ignoranza, madre di tutte le cattiverie. N.d.A.
Elvio, quando la incontrava lungo le strade del paese, si limitava a un fugace quanto frettoloso cenno del capo.
Per buona sorte, col tempo i cittadini che non erano dei fessacchiotti cambiarono col voto la gestione del Comune comasco.
Nella piccola comunità di Ramazzo vi era un certo fermento culturale stimolato da giovani volontari impegnati nella conduzione della Biblioteca comunale, situata in Brolo San Vito, che col tempo aveva organizzato iniziative lodevoli, insomma rappresentava un faro direzionale per l’aggregazione formativa e collettiva degli abitanti.
Il conduttore di tale faro si chiamava Francesco Giuseppe M., giovane di origine calabrese, professionalmente ineccepibile, molto vivace e scrupoloso nel condurre la Biblioteca comunale, dotato di sensibilità e vasta cultura, certamente un vero gentleman col quale il dialogare era fonte di arricchimento per chiunque.
Verso la metà del 2013 trovò nel Canton Ticino una sistemazione più consona alle sue notevoli capacità organizzative come archivista e bibliotecario.
Come ogni mattina di buon’ora, in attesa di salire sul treno diretto a Como dalla stazione di Ramazzo, Giovanna, bella e aitante signora valtellinese che lavorava come barista a Grandate, osservava con quotidiano stupore l’edificio che aveva il potere di suggestionarla, mentre per agli altri pendolari diretti in zone diverse della Lombardia e del Piemonte risultava assolutamente scontato, se non addirittura “invisibile”. Era stupefacente per chiunque transitasse da via Trento e Bolzano osservare da svariate angolazioni prospettiche l’imponenza dell’enorme manufatto, conosciuto da diverse generazioni proletarie come il Cotonificio, che aveva rappresentato per diversi anni una fonte di benessere per le maestranze provenienti da diverse realtà regionali. Lodevole l’iniziativa della famiglia proprietaria dell’opificio, che fece costruire per i propri operai il cosiddetto villaggio abitativo: una serie di appartamenti da affittare a prezzi contenuti ai dipendenti, con la possibilità di riscattarli in seguito tramite vantaggiose agevolazioni. In parole povere, Ramazzo non sarebbe mai esistita senza la presenza del cotonificio. Un ulteriore e doveroso riferimento va all’architetto e straordinario scultore F. Somaini, illustre rampollo di cotanta famiglia.
ComoNexT, definita da alcuni la Silicon Valley italiana, è la rivalutazione di un patrimonio edilizio che non è stato “rottamato” nel museo dell’archeologia industriale, ma recuperato brillantemente per future iniziative e progettazione di nuove idee e sperimentazioni digitali delle stesse, coinvolgendo inoltre varie aziende con nuove proposte per il territorio.
Marianni, un sagace cinquantenne ingegnere elettronico, riusciva a filtrare la realtà circostante attraverso una visione ironica, che tendeva però a banalizzare anche in alcune situazioni verso le quali non ve n’era necessità. L’ingegnere, solitamente persona schiva, quel tardo pomeriggio si trovava casualmente a bere un aperitivo al piccolo bar collocato a metà percorso della strada comunale che da via del Saprio conduce a Cirimido ed era in compagnia del figlio Mattia. Improvvisamente udì schiamazzi e urla fuori dal piccolo locale. Incuriosito, uscì per comprendere il motivo di tanto trambusto. Vide un signore più o meno coetaneo, capelli grigi e ricci, occhi azzurri, statura appena sopra il metro e cinquanta, in divisa da lavoro, conosciuto col soprannome di “Zolfanello” per il carattere focoso che manifestava nel difendere la squadra del cuore militante in qualche categoria dilettantistica della ex Magna Grecia. Solitamente persona molto riservata, svolgeva la sua attività di vigile del fuoco presso la locale caserma. Ogni domenica calcistica o il giorno successivo, in base ai risultati del campionato, si ripetevano le stesse scene.
Il locale era gestito di solito da procaci donzelle tutte curve e seni prorompenti che attiravano per i loro messaggi non proprio subliminali gli avventori, soprattutto i più stupidi, che spesso rimanevano appollaiati per ore sugli alti sgabelli ad ammirarle, tracannando gin e cognac sperando di cuccare, col loro travolgente fascinomascolino e ignari degli stomachevoli effluvi alcolici che emanavano, le ragazze che servivano dietro il banco: forse pensavano, ubriachi strafatti come erano, di aver a che fare con delle assatanate entraineuses. Di fronte a tali manifestazioni d’imbecillità, l’ingegnere non era riuscito a scorgere nessun lato ironico, per questo uscì pensieroso dal piccolo bar scuotendo la testa.
Mattia salutò frettolosamente il padre per un impegno stabilito la sera prima con gli amici che lo aspettavano in una nota discoteca di Grandate.
In effetti, a Ramazzo non vi erano molte possibilità di svago, se non quella delle salutari passeggiate per le consuete pisciatine liberatorie degli amati quattro zampe, cani dai dubbi pedigree e, allo stesso tempo dedicarsi stoicamente ad attività ginniche sfruttando le strutture in legno sistemate lungo il “Percorso Vita”. Gente di tutte le età, tra cui i più velleitari risultavano essere gli over 50, che correvano forsennatamente cimentandosi in performance tali da far rischiar loro di stramazzare a terra colti da sincope.
In prossimità delle ferie estive bisognava pure correre qualche rischio per spogliarsi e mostrarsi in costume nelle sembianze di rinnovati adoni, anche se i risultati non erano proprio quelli sperati. Quella maledetta pancetta riaffiorava sempre e, che fatica trattenere il fiato ogni qualvolta si alzavano dalla sdraio per non mostrarla alle piacenti signore che avevano adocchiato.
Molti non erano riusciti a modellare il fisico e a ripristinarlo dopo tanta fatica, perché si erano imbarcati sul traghetto di Caronte.[4]
Questo pensava l’ingegner Marianni mentre saliva in macchina per dirigersi verso casa.
Infatti, oltre a quei pochi luoghi di aggregazione come il bar appena citato, Ramazzo non offriva punti d’incontro appetibili, perché gli abitanti erano quasi tutti pendolari abituati ad allacciare relazioni nelle località di lavoro. La mattina presto una folla addormentata si riversava sulle banchine della stazione ramazzese, così come la sera e nel tardo pomeriggio i convogli delle FNN vomitavano al ritorno gli esausti cittadini.
La domenica mattina, immancabilmente, il paese si svuotava per il consueto rituale del week-end e altrettanto avveniva nel senso contrario la sera.
Se qualcuno veniva colto da malinconia e solitudine oppure da improvvise e dubbiose crisi mistiche, vi erano pur sempre le parrocchie di San Vito, di rito romano e San Siro, di rito ambrosiano, meglio di niente per le anime degli afflitti.
Via del Saprio era una strada polverosa, trafficata dal via vai continuo dei veicoli provenienti dalla vicina autostrada; la nota positiva era costituita dalle villette poste di lato, discrete e con giardini curati. Ma il vero prestigio della zona lo forniva l’atelier dell’illustre architetto-scultore, figlio degli ex proprietari del grande cotonificio di Ramazzo. 
Era una nota che stonava nel contesto urbanistico della zona e in tanti, volenti o nolenti, ne constatavano l’obbrobrio estetico se non funzionale. 
Consisteva in due o tre edifici, ognuno di quattro piani, dipinti esternamente di color ‘budino alla vaniglia’ con inserti cromatici tinta ‘fondi di caffè. I rari intellettuali che bazzicavano la zona, a digiuno di cultura architettonica, ironicamente l’avevano definito “Résidence brutaliste”[5]ma, ancor più prosaicamente, uno di questi era invece conosciuto comunemente come ilcondominio “Eclisse di sole”. I due edifici, emblemi della rinascita post-bellica, vennero costruiti nel 1961 da una cooperativa edile di Cislago (VA).
Joséphine osservò l’orologio da polso constatando che aveva ancora parecchio tempo a disposizione per salire sul treno che l’avrebbe ricondotta a casa nella bassa comasca, guarda caso proprio a Ramazzo e, per incredibile che potesse sembrare, nel condominio “Eclisse di sole”.
Joséphine era una giovane donna, minuta di statura, chioma nera fluente che le scendeva sulle spalle, occhi languidi, visetto da bambola, labbra carnose e sensuali, corpo armonioso: nell’insieme una splendida conferma della classica bellezza mediterranea.
Quel sabato mattina l’atmosfera primaverile la spinse a visitare qualche galleria d’arte non molto distante dalla stazione delle FNM di piazzale Cadorna. Lei a Milano, qualche mese prima, aveva allestito in via Volta una ‘personale’ di opere in acrilico intitolata “Grovigli metropolitani” riscuotendo un buon successo critico accompagnato dalla vendita di alcune opere.
Dopo aver percorso un tratto di via Garibaldi, poco prima della stazione Moscova del metrò, scorse sulla sinistra un portone, a fianco del quale una targhetta indicava l’esposizione situata all’interno del cortile, di un particolare artista. 
Incerta e titubante suonò il campanello che con un automatismo aprì il portone. Si trovò all’interno di un cortile squallido, in cui, dietro una porta a vetri, si intravedeva l’accesso alle sale espositive.
Non vi era anima viva. Intorno, appesi alle pareti, una serie di lucidi con progetti architettonici improbabili, plastici e tempere irridenti l’architettura classica e accademica, uno sberleffo inaudito e provocatorio, al punto tale che la galleria, dopo la serata inaugurale, era rimasta vuota per tutto il periodo espositivo. La gallerista, che invece appezzava l’artista, confidò a Joséphine, anch’essa sconcertata, che nel corso della serata inaugurale molti invitati, dopo aver visto i temi affrontati dall’artista, erano usciti indignati dalla sala. La titolare della galleria espresse rammarico per l’accaduto, ma confermò il suo deciso sostegno alle qualità artistiche delle opere. La rassegna era intitolata “Arkitetture”.
Nel libro delle firme dei visitatori un solo scritto sintetizzava lo spirito della mostra: “Finalmente qualcuno ha osato irridere il sistema accademico e architettonico vigente, dal quale siamo quotidianamente funestati”.
Istintivamente, guardando l’orologio, si accorse di essere in ritardo e non volendo perdere il treno salutò in fretta la gallerista ripromettendosi di recarsi in seguito a visitare le mostre d’arte che la titolare proponeva.
Uscì all’aperto inspirando a pieni polmoni la cristallina e salubre aria dell’ora di punta, omaggio di molte città tra le quali la metropoli meneghina.
Per tutto il viaggio di ritorno rifletté sulle opere viste in via Garibaldi; rimase colpita dal coraggio di quell’artista ma soprattutto dall’appoggio e dal sostegno incondizionato da parte della matura gallerista.
Persa in tali considerazioni Joséphine era giunta a Ramazzo, dove l’accolse il tripudio di colori della campagna in fiore. Fu colta da una sensazione di benessere psicologico: finalmente a casa.
A Ramazzo fra le non poche attrattive vi era quella di vedere spesso un singolare individuo venticinquenne camminare lungo le strade del paese. Nei suoi concittadini destava una serie di stati d’animo, spesso negativi, per lo stravagante modo di vestire e per l’aspetto, alcuni dicevano ‘da brigante’ mentre altri, mentalmente limitati, lo consideravano un hippy diabolico alla stregua di Charles Manson[6], ma era noto ancor più per la fama di assiduo frequentatore di osterie, nonostante la giovane età.
L’aspetto solitamente era da freak[7]. La memoria collettiva stereotipata aveva individuato in lui un’icona ben precisa e irreversibile: lunghi capelli color ‘foglie autunnali’, barba folta, occhi dallo sguardo pungente, bracciali in pelle con borchie di metallo e, nei periodi caldi, una t-shirt nera con stampato sul petto un teschio con logos in inglese e tedesco, jeans sdruciti. Calzava sempre stivali canadesi. Nelle stagioni invernali lo scorgevano avvolto in un un grande e pesante mantello, a volte rosso, a volte nero.
Nonostante le apparenze, era dotato di un’intelligenza fuori dal comune, infatti la sua insegnante di lettere di scuola media confidava che già allora aveva a che fare con un bambino di eccellenti capacità. Per lei un piccolo genio.
In effetti, era sempre circondato da persone di tutte le età che chiedevano a lui consigli di varia natura, soprattutto di carattere scientifico e matematico.
Solitamente non rifiutava a nessuno soluzioni a problemi di carattere amministrativo, in qualità di ex consigliere comunale, in cambio di un buon bicchiere di vino. Alcuni della sua stessa corrente politica per questo lo consideravano un parassita.
Non aveva rapporti frequenti con i condomini, anche perché il suo aspetto disdicevole non era in linea con la formale mediocrità degli inquilini del suo palazzo. Senza alcun dubbio era considerato, per il suo aspetto, un tossico. 
L’appartamento nel quale abitava con la famiglia, per strana coincidenza, si trovava nel blocco di sinistra del condomino “Eclisse di sole”, dove abitava anche il vigile del fuoco Zolfanello. Nell’ala condominiale di destra risiedevano, allo stesso ultimo piano, Joséphine col marito Natan, un tipo schivo anche lui e guardato con sospetto perché era l’unico che discuteva volentieri col giovane capellone. Nel monolocale a fianco abitavano Elvio e la signora.
NelRésidence brutaliste”,come se non bastasse, si incontravano sia personaggi strani che cosiddetti normali, con i quali i piccoli conflitti erano all’ordine del giorno, anche se, prolungati nel tempo, rendevano problematica una serena convivenza.
La signorina Silfide, impiegata chissà dove, fungeva da segretaria nelle riunioni condominiali che spesso si tramutavano in saloon da Far West: insulti contro chi non era in linea con la maggioranza, talvolta anche aggressioni fisiche.
Joséphine, la giovane insegnante liceale, partecipò una sola volta all’assemblea ma, spaventata dal clima litigioso degli inquilini, non volle più prendere parte alle riunioni delegando qualcuno che la rappresentasse.
La signorina Silfide, “figura leggiadra” aveva un certo carisma per gli inquilini proprio per il suo ruolo di segretaria dell’amministratore. Riverita, ostentava un fare altezzoso verso gli altri. Nutriva un’avversione profonda e disprezzo assoluto per il giovane capellone che abitava sotto di lei.
Le opere di Ferdinando Botero, illustre artista colombiano, sono note in tutto il mondo per la singolarità delle forme opulente dei personaggi rappresentati. Senza fare alcun torto al celebre artista, la signorina Silfide in maniera volgare le ricordava, con la sostanziale differenza che in quelle rappresentazioni artistiche non indossavano busti con le stecche per nascondere l’eccessiva pinguedine tantomeno panciere elastiche, contenitori dell’impietoso lardo che debordava come un fiume in piena; forse la signorina Silfide avrebbe potuto competere come massa corporea con i lottatori di sumo.
Le sue labbra erano due rasoiate, le pupille due puntini inespressivi in un faccione per niente bonario, capelli o parrucca sempre dello stesso colore stinto, indefinito, i seni: un balcone sul quale potevano stare comodamente due grossi vasi di gerani. Il sedere, un incidente di percorso, anch’esso un macigno ingombrante come il suo corpo leggiadro.
La Silfide aveva rapporti stretti con colleghi d’ufficio o clienti dello stesso, tutti regolarmente sposati: per lei donna bigotta e assidua cantante del coro parrocchiale erano frutti proibiti che si concedeva spesso. Domanda illegittima: come facevano gli uomini a giacere su quell’ingombrante materasso?
La signora Lo Voglio dell’appartamento accanto, amica stretta della Silfide, escogitava metodi più raffinati. Non appena il marito sessantenne usciva di casa per far ritorno la sera, sul balcone appendeva tra la biancheria delle mutandine che, in base al colore, davano il segnale all’amante, che attendeva poco distante, del via libera.
Come donna non aveva particolari doti estetiche, era insipida, vestiva solitamente in modo classico, si distingueva quando camminava per lo strascicare dei piedi piatti e divergenti che ricordavano due pesanti aspirapolveri.
Vi erano nel condominio “Eclisse di sole” persone squisite, proprio perché, in quanto tali, evitavano di mettersi in mostra e sì che di motivi ve ne erano a bizzeffe.
Gente che sparlava dei vicini dai balconi, funerali allestiti nel sottoportico del palazzo, rosari recitati per le feste mariane: fastidiosi mantra che risultavano noiosi quanto ripetitivi, come la musica rap.
In tempi recenti, la leggiadra signorina Silfide recitava il Pater Noster ad alta voce dalla finestra del bagno con l’inquilina zoppa e carogna del piano superiore, che le rispondeva dal terrazzo finché la performance del duetto si interrompeva in quanto la prima non ricordava le parole della preghiera. La paranoia totale aveva offuscato la mente di altri inquilini che nel cortile condominiale, riuniti in cerchio, cantavano la canzone ‘Azzurro’ di Celentano per farsi coraggio e allontanare lo spettro della pandemia.
A completare l’assurdo teatrino mancava solo la mitica banda dei pompieri di Viggiù. Insomma, un manicomio completo!
“Quanto vorrei trovarmi su una Lucia in mezzo al lago”.
A Ramazzo e in altri Comuni della Provincia girava un giovane che per gli amici era noto come il ‘Metal’: infanzia non facile, madre apprensiva e asfissiante nei confronti del figlio, perdita precoce del padre, studi interrotti dopo il servizio militare a Vipiteno nel corpo degli alpini per sostenere la famiglia, l’università un sogno irraggiungibile.
Tutto lo spronava a proseguire nello studio delle materie scientifiche nelle quali eccelleva, come la matematica e la fisica. I conflitti relazionali erano per lui all’ordine del giorno, era bistrattato e a volte amato dalle donne seppure in maniera effimera.
Nelle giornate primaverili ed estive, a Bissago, località Menegardo (Bregnano) nella tenuta agricola “Le Tre Grazie” e dintorni aumentavano a dismisura le frequentazioni. In quell’anno 1997 verso le 10,30 del mattino, immancabile era la presenza di Elvio che arrivava presso la cappella di famiglia dei proprietari della tenuta e, sudaticcio, si accostava per recitare una preghiera per poi ripartire fieramente a testa alta petto in fuori, rivolgendo un saluto di circostanza, per non dire di compatimento, ai poveri molluschi che ansimavano perché, senza dubbio (lui pensava) avevano percorso solo qualche centinaio di metri.
Spesso, dopo aver terminato di accudire l’allevamento dei tori nella stalla ed essersi occupato dei lavori nei campi, l’agricoltore Cesare osservava divertito l’andirivieni dei paesani che correvano: le ferie al mare erano prossime.
Quasi tutti lo salutavano, ma il primo a farlo era lui: persona squisita dall’aspetto bonario, sempre sorridente, sulla quarantina, statura media tendente al basso, leggera calvizie dietro la nuca. Emiliano, nato a Cento (Ferrara), da una decina di anni aveva preso in affitto i terreni della cascina “Le Tre Grazie”. Uomo affabile e colto, dopo l’università aveva scelto la vita e il lavoro nei campi. La moglie, una figura dall’aspetto gradevole e prosperoso, bionda con gli occhi azzurri, sarebbe stata la femmina l’ideale per i film del regista Federico Fellini.
Il fratello di Cesare, un tipo segaligno, vestito sempre in maniera inappuntabile, ogni tanto saliva sul trattore per arare i campi, ma nulla di più, altrimenti restava chiuso nella sua stanza in mezzo alle scartoffie e ne usciva solo per mangiare e recitare, il pomeriggio alle cinque, il rosario con la cognata e il fratello. Quotidiane erano le visite a Ramazzo per assistere alla messa del mattino.
Era un avvocato che non esercitava, ma era utile all’azienda agricola “Le Tre Grazie” perché sapeva come districarsi tra le pastoie burocratiche che la Comunità europea promulgava per i contributi da elargire.
Negli anni ’90 vi erano serate invernali nelle quali, all’imbru-nire,circolavano poche auto a causa della neve, del ghiaccio e della coltre nebbiosa che ovattava il paesaggio. Pochi ardimentosi si scorgevano per strada e, incrociandosi, neppure si salutavano per la fretta di raggiungere casa.
Scendendo alla stazione di Ramazzo, il marciapiede che costeggiava l’ex cotonificio era insidioso per la neve fresca che lo ricopriva e le sottili lastre di ghiaccio che sotto si formavano provocavano talvolta allegre ma brusche scivolate non prive di conseguenze. 
Natan, infreddolito, pensò a Joséphine che doveva essere rientrata da tempo, dopo aver trascorso l’intero pomeriggio all’Istituto Magistrale impegnata nei consigli di classe; comunque ogni giorno, per motivi di natura didattica e organizzativa, non rientrava dal lavoro in orari decenti, spesso con la cartella zeppa di compiti da correggere e lezioni da impostare per il giorno seguente. La sera tardi, sfinita dal lavoro extra e rincoglionita dalla stanchezza, si concedeva finalmente le poche ore rimaste per riposare. Tutti i giorni la stessa musica.

[1]Giuseppe Terragni architetto. Meda (MI) 1904 – Como 1943. Principale esponente del MIAR (Movimento italiano di Architettura Razionale).
[2]A. Pavelic: uomo politico croato, fondatore del movimento politico degli Ustascia.
[3]Ustascia:termine usato dagli Slavi balcanici per indicare coloro che lottavano contro i Turchi e ripreso da A. Paveli? per designare gli appartenenti al movimento croato di ribellione contro il predominio serbo nella vita iugoslava, da lui promosso a partire dall’ottobre 1928 e meglio definito dopo il colpo di Stato di re Alessandro del 7 gennaio 1929. Le azioni terroristiche degli u. culminarono con l’uccisione di re Alessandro a Marsiglia il 9 ottobre 1934. Dopo l’occupazione italo-tedesca della Iugoslavia (1941), gli u. sulla falsariga nazista costituirono il partito unico dello Stato indipendente di Croazia, abbandonandosi a una feroce lotta di sterminio. Nel 1945 i capi u. si rifugiarono all’estero, mentre i gregari subirono la vendetta dei partigiani di Tito e dei Serbi.
[4]Caronte: Figura della mitologica classica. Figlio di Efebo e della notte, traghettatore delle anime dei defunti al di là del fiume Ade. In seguito la demonizzazione di Caronte rientra nell’uso tipicamente medievale di reinterpretare in chiave cristiana le divinità pagane, per cui quelle degli Inferi diventavano altrettante figure diaboliche, in qualche caso con notevoli trasformazioni.
[5]Brutalismo: Il termine nacque nel 1954 nel Regno Unito (Brutalism)e deriva dal béton brutdi Le Corbusier, che caratterizza l’"Unité d’Habitation" (1950) di Marsiglia, e in particolare da una frase presente nel suo Verso una architetturadel 1923: «L’architecture, c’est, avec des matières brutes, établir des rapports émouvants». Fonte: Wikipedia 2.020
[6]La notte dell’8 agosto 1969 si consumava la strage di Bel Air intorno al Benedict Canyon (Los Angeles) ad opera della setta di Charles Manson. Vittima, con i suoi figli, l’attrice ventisettenne Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, al nono mese di gravidanza.
[7]Freak: individuo che propugnava atteggiamenti anticonformistici non violenti, secondo un costume giovanile originario degli USA negli anni Settanta.
Nella cornice paesaggistica lariana si muovono, ognuno con la propria originale e densa storia, molti personaggi che la morale comune, borghese e benpensante, definirebbe ’fuori tono’. Eppure, l’intreccio dei loro destini, nei quali non mancano lampi di illusiaone e irreversibili delusioni e dolori, è in grado di produrre sentimenti veri e profondamente reali. L’autore, con garbato tecnicismo, riesce anche ad orientare lo sguardo del lettore sull’aspetto architettonico ed artistico che rende unici i paesi della bassa comasca, offrendo uno spunto di riflessione sulla commistione vita-arte.

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