La morte si deve accettare
(Raffaele Cutolo)
Carlo compare spesso nei miei sogni, nei miei incubi. Ho letto che compare anche nei sogni del Professore che ormai è vecchio e malato. È strano condividere un sentimento con una persona come lui.
Carlo era mio amico. Non penso che il nostro rapporto possa definirsi diversamente. Era una di quelle amicizie speciali che nascono dall’aver vissuto insieme, anche se per un breve periodo, un’esperienza molto intensa.
Eppure è difficile immaginare due persone più diverse di noi. Quando ci siamo conosciuti io avevo ventidue anni, lui ventiquattro. Io ero poco più di un ragazzino, lui era un uomo fatto, già con esperienze dure alle spalle.
Eravamo stati arrestati lo stesso giorno, il 21 marzo del 1972.
Io però in carcere, a Poggioreale, ci rimasi poco più di due settimane, lui dodici anni.
Quando entrai nella cella erano le due di notte e lui era già lì. Mi scortavano due dei quattro agenti che mi avevano portato via da casa. All’ingresso della questura i due che sostenevano di avermi riconosciuto sul luogo del misfatto si erano fermati davanti a un ascensore, forse per salire agli uffici per qualche formalità. Gli altri mi accompagnarono a piedi per le scale al piano inferiore, sotto il livello della strada. Per arrivare alle celle attraversammo un corridoio umido, illuminato da deboli luci al neon che sfarfallavano. Una specie di usciere controllò un registro squinternato e disse:
- Questo, mettetelo alle dieci.
La dieci era uguale a tutte le altre celle, molto piccola, più o meno due metri per due, molto sporca. Era illuminata solo dalle deboli luci esterne. Dentro c’erano due brandine con sopra delle coperte piene di bruciature di sigaretta. Appoggiato alla parete, sul fondo buio, si vedeva un vecchio vaso da notte di metallo, smaltato bianco.
Nella cella c’era un giovane uomo in camicia; aveva le maniche arrotolate anche se faceva freddo. Era in piedi, con gli avambracci poggiati sulle sbarre della cella e aveva al polso un grosso orologio d’oro che mi sembrò un Rolex.
Stava fumando, aveva i capelli lisci, lunghi quasi fino alle spalle, di colore biondo cenere, ma le radici erano molto più scure. Era magro ma robusto, un po’ più alto di me.
Lo salutai con un incerto “Buonasera”. Lui rispose con un cenno del capo. Gli agenti aprirono la porta e mi fecero entrare, poi richiusero a chiave e andarono via.
Mi appoggiai alle sbarre come lui.
- Ciao.
Gli dissi, continuando a pensare di non stare usando le parole giuste per la circostanza. Lui si girò verso di me e rispose in tono piatto, con voce profonda e un forte accento napoletano.
- Sono Carlo. Le tieni le sigarette?
Quando mi tese il pacchetto di Gauloises mi accorsi che era molto bello.
- Grazie non fumo, non ho mai preso in mano una sigaretta in vita mia.
Scosse la testa con un sorriso.
- È la prima volta che ti arrestano, vero?
Non mi diede il tempo di rispondere e mi tese di nuovo il pacchetto.
- Prendine una, se fumi il tempo passa più in fretta. Qua dentro ci dobbiamo passare tutta la notte ed è meglio se non dormiamo. Sulla brandina, finisce che le cimici ci fanno morire dissanguati.
Raffaele Cutolo è sempre stato un uomo particolare. Il padre era un contadino, la madre una lavandaia, entrambi molto religiosi. Raffaele ha un’intelligenza perversa, ma acutissima e una formidabile ansia di affermarsi. Da ragazzo frequenta poco la scuola, ma i suoi professori lo considerano il ragazzo più dotato che si sia visto a Ottaviano da molto tempo. Mette in soggezione i suoi coetanei e i ragazzi più grandi con la sua intelligenza e con la violenza, che dal suo punto di vista non è mai gratuita.
Non accetta la sua condizione sociale, vuole vestiti eleganti, vuole avere dischi e libri. È presto a capo di una banda di giovani criminali che si specializza in furti, piccole rapine, estorsioni. Frequenta anche ragazzi di famiglie ricche a cui fornisce gli articoli di lusso che ancora non potrebbero permettersi e in qualche caso morfina rubata in farmacia. Si fa prestare libri e dischi che non restituisce. Si sforza di parlare un italiano corretto e impara a usare, non sempre a proposito, espressioni sofisticate che trova sui libri che legge voracemente. Con gli amici della banda, su cui ha un controllo assoluto, è sospettoso in modo paranoico, e punisce con crudeltà, o fa punire dai suoi secondi, chiunque tradisca o non rispetti i suoi ordini.
Ha un rapporto fortissimo con la sorella Rosetta, un amore folle e ricambiato.
A vent’anni, già abbastanza ricco, incensurato anche se noto alle forze dell’ordine, è una star emergente nel mondo della criminalità napoletana. Fa patti con i gruppi camorristi più importanti, ma mantiene una sua totale indipendenza e libertà di azione. Sa essere feroce come pochi ed è ammirato e temuto. Si ritiene ed è intellettualmente superiore. Ascolta musica classica e legge le poesie di Pavese e di Prévert.
A ventun anni ha già due figli che ha chiamato Roberto e Dénise, ma non ne sposa la madre, anzi presto la lascia. A ventidue anni uccide con le sue mani un coetaneo che aveva fatto un apprezzamento volgare su Rosetta. Lo accoltella dopo una rissa, di giorno, in pieno centro di Ottaviano, dove tutti lo conoscono. Crede di aver fatto la cosa giusta e non ha intenzione di fuggire, non ci pensa neanche.
Si costituisce e viene recluso a Poggioreale, condannato all’ergastolo in primo grado. È il 1964.
Da quel momento passerà quasi tutta la vita in carcere, dove ancora oggi si trova.
Ma è lì che nasce, poi cresce e poi crollerà il suo mito e quello della Nuova Camorra Organizzata.
È lì che per tutti diventa il Professore e, per i suoi affiliati, il Vangelo.
Lessi la notizia per caso, sfogliando La Repubblica. L’argomento di per sé non mi interessava, ma conoscevo il giornalista, molto bravo, e i suoi pezzi li leggevo sempre.
L’articolo riferiva che, per cavilli legali, erano appena usciti da Poggioreale molti pericolosi affiliati alla Nuova Camorra Organizzata, che il giornalista chiamava spesso NCO, tra cui il killer Carlo Buono.
Ebbi la reazione di avvilimento e fastidio che provavo ogni volta che leggevo sul giornale di qualcosa di cui avevo conoscenza diretta, la stessa che, come ben ricordavo, avevo avuto leggendo i giornali al tempo del mio arresto. Tutto ciò che è scritto, al di là del senso generale, è sempre lontanissimo dalla verità.
Nell’ ultimo giorno che avevamo passato insieme, Carlo mi aveva raccontato le vere ragioni del suo arresto. Erano gravi e mi ero reso conto che sarebbe restato dentro a lungo. Sapevo che aveva contatti con la camorra, ma escludevo che potesse essere un killer, che per definizione è qualcuno che uccide a sangue freddo, per commissione. Sapevo che era un uomo sensibile, anche se con una discutibile morale. Trovavo ingiusto che fosse rimasto in carcere dodici anni per quello che aveva fatto, che non avesse potuto usufruire di uno sconto di pena per buona condotta o qualcosa del genere. Comunque ora aveva pagato il suo conto con la giustizia, non andava trattato così.
Pensai di chiamare Peppe D’Avanzo, il giornalista che aveva scritto il pezzo, per chiedergli come avesse avuto le notizie e per protestare, ma non lo feci. Era passato tanto tempo, erano anni che non pensavo più a quelle storie, le avevo dimenticate ed era meglio così.
Però, come la goccia che cadeva inesorabile tutta la notte nella mia cella, nei giorni successivi mi ritrovai spesso a pensare a Carlo, con una forma di nostalgia.
Avevo un debito nei suoi confronti. Senza di lui i miei giorni a Poggioreale si sarebbero trasformati in un inferno.
Dopo tanti anni sarebbe stato difficile per Carlo vivere da uomo libero. Non avrebbe avuto altra scelta che riprendere la vecchia vita da dove l’aveva lasciata, e probabilmente finirla nello stesso modo. Pensavo che un contatto con me potesse fargli vedere una strada diversa, ma erano pensieri oziosi, lo sapevo. La verità è che mi avrebbe fatto piacere sentirlo, anche vederlo. Di quei giorni in carcere avevo ricordi terribili, ma erano parte di me e ci ero legato. Carlo era stato un elemento importante di quella esperienza. Io non potevo esserlo stato per lui, non ero certo nemmeno che si ricordasse di me.
Sapevo ancora a memoria il numero di telefono di Luisa, la sua ragazza di allora, che amava moltissimo. Era l’unico contatto che avevo, ma magari ricordavo male il numero o non era più attivo. Forse si erano lasciati e non erano più in contatto.
Avrei fatto un solo tentativo e se non avesse funzionato avrei lasciato perdere. Dopo pochi squilli mi rispose una voce femminile.
- Chi è?
- Luisa?
Avvertii incertezza, sospetto, dall’altro capo del filo, ma era lei.
- Ci siamo conosciuti molto tempo fa, sono venuto a casa tua una volta a portarti un biglietto da parte di Carlo, ma non puoi ricordarlo. Volevo solo sue notizie, se ne hai.
Dal silenzio che seguì capii che aveva messo la mano sulla cornetta e parlava con qualcun