I passeri cantano; si rincorrono volando vicino alla finestra, tra i rami di un albero, alle prime luci del mattino. Da poco hanno ripreso a passare i camion che rombano sul viadotto costruito sopra i tetti dell’edificio, quel viadotto sempre a rischio collasso, coi ponteggi della manutenzione straordinaria installati da anni, con i giunti che traballano al passaggio di ogni mezzo; a breve il sordo rumore costante verrà confuso con i mezzi più piccoli, i furgoni, i telonati, che si avvicinano al mercato dell’ortofrutta, giù dabbasso, duecento metri più in là, per ricevere le cassette di verdura che verranno distribuite in giro per i mercati, e infine dal Regionale Veloce per Milano, sferragliante, che porta i pendolari a spasso tutti i giorni fino al capoluogo lombardo, e ritorno. La successione dei rumori dei mezzi di trasporto, che percorrono le vie della città come il sangue pompato nelle vene di un corpo umano, dà vita al brusio metropolitano, che si mescolano fino a raggiungere un suono indistinto, di sottofondo, un frastuono incomprensibile e martellante, che rappresenta meglio di qualunque altra cosa l’essenza della città che pulsa, che vive. Questo fragore grigio dell’asfalto percorso dalle ruote delle macchine e dei motorini, degli autobus e delle biciclette, che tutti i giorni portano gli abitanti al luogo di lavoro, al mercato, dal medico, in palestra, allo stadio e al mare, avvolge il cervello del comune cittadino come uno strato di meninge, come una scatola cranica, come un casco integrale, e ottunde il pensiero, lo rende piatto, silenziato, comatoso. Il brusio di sottofondo offusca, sfoca, toglie diottrie al pensiero, lo rende opaco in qualche modo dall’infanzia, tanto che chiunque sia nato in una metropoli non ha idea di cosa sia fermarsi un minuto a pensare nel silenzio, prendere un attimo di riflessione, magari anche una mezz’ora della propria giornata, a contemplare i riflessi del sole tra le foglie degli alberi, ragionando lentamente, senza interruzioni.
Ma c’è un periodo della notte, non così lungo, ma che può sembrare eterno se si soffre di insonnia, in cui tutti i quartieri indaffarati di questa buia città si addormentano, smettono di passare automobili e camion, si sospende il trasporto pubblico, vecchi e bambini si rinchiudono nelle loro stanze, i cani si nascondono, le casalinghe abbassano le tapparelle e spengono la luce delle cucine, le coppie smettono di litigare, gli spazzini di ramazzare la strada, e regna il silenzio assoluto. Il silenzio assoluto è uno stato di cose piuttosto raro per un abitante metropolitano, a volte si resta disorientati ad ascoltare il silenzio.
Succede, nel bel mezzo della notte, di destarsi di soprassalto per un sogno sconveniente, un brutto ricordo che ritorna saltuariamente dal passato e che porta a sudori freddi, o la premonizione di un evento catastrofico; sentirsi spaesati, spaventati, cercare un appiglio tra le coperte umide di sudore, spalancare occhi e orecchi e sentire perfettamente una sola cosa: il silenzio.
Il nulla, non una mosca, le foglie nel vento, il battito della pioggia, il ronzio del frigorifero, la catena del cesso, nulla; neanche un nottambulo che passi col motorino. Con quel silenzio drammatico e obnubilante, lotti contro te stesso per non rientrare dentro quel sogno che ti ha fatto svegliare così improvvisamente, che ti ha fatto paura, che ti ha lasciato immobile davanti a una oscurità nemica, ostile, sconosciuta, e raccogli tutte le forze per uscire una volta per tutte dal sonno; i muscoli atrofizzati, gli occhi si richiudono, la testa ricomincia a pensare a dove avevi lasciato quel sogno maledetto, così brutto, violento, eppure intrappolante, gli occhi tornano a chiudersi, e ti trovi nel limbo incontrollabile tra sonno e veglia, in un ottovolante da luna park costellato di salite e discese che alternano il buio della stanza alle tenebre dell’incubo, il silenzio della notte profonda all’inconsistenza del subconscio; ma forse, se torni ad aprire ancora una volta gli occhi, muovi il corpo, fai rumore, quella coltre di silenzio verrà infranta e riuscirai a svegliarti del tutto.
Fai sfregolare per bene tutte le coperte, muovi gambe e braccia lentamente, struscia le guance contro il cuscino, assumi una posizione innaturale, scomoda, torci la schiena e inarcala, ora lentamente allunga un braccio, stendilo forte sopra la testa, scorri la mano sul comodino fino a sentire il cavo della lampada, poi scendi veloce a scorrere tutto il filo e finalmente trova l’interruttore, basta un clic e la luce si accende. Sposta il libro, raccogli gli occhiali, mettiti a sedere; ora aspetta un attimo, sfrega con le mani gli occhi per bene, sfodera le pantofole, fai leva con le braccia sul materasso e mettiti in piedi. Ce l’hai fatta, sei sveglio. Ora i soliti riti delle quattro del mattino, vai in bagno, fai due passi in cucina, un bicchiere d’acqua, giro della stanza e si torna a letto. Il sogno è passato, ormai uscito dalla mente rintronata, non riesci a riprendere il filo interrotto, non lo ricordi più; era un brutto sogno, hai sudato freddo, ma è finito, hai spezzato la catena del silenzio.
Di nuovo a letto; non si è mossa una foglia nel frattempo, torni ad ascoltare il frastuono del silenzio, la città sembra completamente morta, come se tutti gli abitanti l’avessero lasciata in un esodo forzato a causa di una epidemia, come se in realtà la città non ci fosse mai stata, e tutto ciò che si trova al di fuori di quella stanza in cui ti sei rifugiato fosse scomparso, le case e gli uffici, le strade e i viadotti e i binari del treno, i bidoni e i lampioni, le zebre pedonali, i platani dei viali, i semafori, le antenne paraboliche e i campi da calcio, le aiuole e le isole spartitraffico, i tombini e i cartelli delle vie, i marciapiedi e le fermate dell’autobus. E poi i negozi e gli altri edifici, i muri e i recinti, gli orti i giardini gli alberi i cartelloni, via tutto. Solo te e il buio; solo te e quella sensazione di vuoto immenso che non potrebbe riempire nemmeno tutta l’umanità riunita in una sola megalopoli infinita, un formicaio umano di corpi e pensieri appiccicati ma così lontani, così sconosciuti, così vuoti, così distanti tra di loro, dal calore umano che tu vorresti sentire e che tutti vorrebbero sentire, passeggiando per le strade illuminate dai lampioni, entrando in un cinema, bevendo un drink al bar, infilandosi in un ufficio a lavorare. E invece la città, fatta per accogliere persone, per unire la gente in un solo cuore pulsante, resta muta, si cuce le labbra nel suo silenzio, nel suo immobilismo artificiale, di quelle ore dove la notte non è più notte, e il giorno non è ancora giorno; quanto sarebbe tutto più facile se al risveglio improvviso, dopo un brutto sogno, ci fosse qualcuno al tuo fianco a darti un sorriso e una carezza. Meno male che il sogno è passato dalla testa, puoi richiudere gli occhi e riaddormentarti, e domani si vedrà.
I passeri cantano; cantano ancora, come prima, come poco fa. Solo fa più chiaro nella stanza, la luce mattutina passa dai buchi ovali delle tapparelle, raggi di luce trafiggono l’aria fredda e prendono corpo sulla polvere sospesa nell’aria. Passa il treno merci, che si muove più lentamente del Regionale, il suono prodotto è metallico, ad ogni passaggio di un vagone sul ponte di acciaio il rimbombo sordo rimbalza nell’aria e fa sobbalzare l’edificio; dev’essere proprio vicina la ferrovia, si riescono a riconoscere i cigolii delle ruote sui binari al passaggio in curva. Delle automobili, ormai, nessuna traccia; a quest’ora sono così tante che si sono unite al rumore di fondo della città, non si riconoscono più, si perdono nella marea di suoni e rumori prodotti in sequenza; dalla lavatrice, impostata sulla centrifuga al terzo piano, il phon del piano di sotto che soffia, la cucina a gas e il bollitore acceso per la colazione al piano terra, la TV sul TG delle 8, il caffè che bolle, e si può sentirne anche l’odore che sale dal basso; il vento fa sbattere dei panni stesi sul balcone dell’edificio di fronte, da un terrazzino del primo piano la signora saluta l’edicolante che sta aprendo il chiostro, tirando su la saracinesca che sbatte forte contro il soffitto.
Andrea apre gli occhi; l’infinita quantità di rumori fanno della mattina il momento sbagliato per chi ha il sonno leggero, riposare dopo le sette pare un miraggio, la cosa migliore è riprovarci subito dopo pranzo, nel primo pomeriggio; il sole riscalda i tetti d’ardesia e il calore appanna i rumori, li racchiude in una campana di piombo e cemento. Il soffitto è sempre bianco, sempre lo stesso; mai un po’ di fantasia, mai un giallino, un rosa, un verde.
- Se un giorno avessi una camera tutta mia, dipingerò sul soffitto un cielo stellato. - pensò – un blu scuro, indaco, scuro come la notte, e le stelle d’oro, grandi brillanti, e in evidenza Pegaso e l’Orsa Maggiore, e le stelle di Orione in fondo alla stanza, verso la porta d’accesso. - Era la terza volta che sceglieva una cameretta, le stanze dei figli sono più piccole, sono accoglienti, si scaldano in fretta col calore umano e la mattina non ci si sveglia congelati. Il piumone del letto, che aveva trovato la sera prima nell’armadio, aveva la fodera azzurra con delle linee geometriche più chiare, bianche e celesti, a formare delle strisce di luci e colori; sulle mensole c’erano un sacco di giocattoli. Era la stanza di un maschio; macchinine, soldatini, personaggi di anime, sulla sinistra, sopra la scrivania, uno schermo con attaccata una console per videogiochi.
- É un lusso trovare la stanza ammobiliata”, pensò mentre si muoveva ancora nel letto, assaporando il caldo tepore delle coperte. Dalla porta aperta arrivava un bagno di luce abbagliante, mentre dalla finestra la luce era soffusa, doveva affacciarsi su un cavedio, o a nord. Andrea si sporse, si mise seduto, e dalla finestra, scostando le tendine bianche, scorse un cortile interno, panni stesi alle finestre, macchine posteggiate, dei platani nelle aiuole. La cosa che più lo affascinava, nell’occupare appartamenti sfitti, era la curiosità di sbirciare nelle case altrui, nelle vite degli altri; bisognava farlo in modo discreto, con rispetto, senza che nessuno se ne accorgesse, in punta di piedi; lui si considerava un gentleman del voyeurismo. Certo, discrezione è la parola d’ordine in questo genere di cose; questo appartamento lo aveva adocchiato da molto tempo, edificio periferico, zona degradata, molti interni sfitti, alcuni già occupati da un paio di famiglie ambigue, anche loro forse abituate a vivere di espedienti.
Nel cortile apparve un signore di mezza età, corpulento, sigaretta in bocca, piumino blu, stempiato, entrò in macchina, una Fiesta vecchia, mezza scassata, accese il motore e restò fermo, aspettando un po’, forse parlando al cellulare, mentre attendeva che si scaldasse il motore. Dalla parte opposta apparve una vecchia col cane, anche lei approfittava dell’ora d’aria per fumare; il barboncino bianco aveva il pelo tutto sporco, ingrigito, coperto da un paio di giubbettini da cani, uno sopra l’altro, entrambi rosa, e camminava a fatica; doveva essere molto vecchio, come la padrona. Lei si guardava intorno, o guardava nel nulla, i pochi capelli bianchi sparati nell’aria, occhiali scuri, da sole, spessi e grandi, le nascondevano buona parte del viso rugoso e pallido, un cappotto beige lungo fino ai piedi la celava completamente alla vista, rendendola una forma indistinta, fragile, inconsistente.
- La classica vecchina del quartiere, dovrei provare a farmela amica. Basta, è ora di alzarsi. -
Andrea spostò il piumone d’un colpo, il freddo della stanza non riscaldata gli entrò nelle ossa. Per terra, affianco al letto, c’erano i suoi vestiti, pantaloni, maglione, giacca; li prese rapido e se li infilò addosso. Per essere Marzo faceva ancora un freddo pungente, Andrea si muoveva rapidamente, nelle tasche trovò orologio e anello, in un’altra tasca gli occhiali da vista, che appoggiò sul comodino. Subito fuori dalla stanza, a sinistra si trovava il bagno. Entrando, si diede un’occhiata allo specchio, e notò nel suo aspetto una certa parvenza di dignità, di pulizia, di normalità, e pensò che, in fin dei conti, quegli ultimi anni raminghi non lo avevano rovinato così tanto, come invece aveva previsto Marta.
Una sciacquata veloce alla faccia per svegliarsi del tutto, l’acqua ghiacciata gli fece pungere la pelle, una pelle pallida, sfibrata, che reca il segno del tempo nei dintorni degli occhi e della bocca, e in quella profonda ruga nera che taglia a metà la fronte, colpa dei tanti crucci. L’età si notava nei capelli, radi e brizzolati, e nella barba, ispida e grigia anch’essa. All’anonimato di un aspetto comune, mediocre, banale, che da sempre lo aveva distinto, ora si aggiungevano gli inevitabili segni dell’età; a dire il vero l’aspetto fisico non era mai stato un’ossessione per Andrea, riconoscendo fin dall’adolescenza che non sarebbe stato un punto di forza per lui nelle relazioni umane, ma negli ultimi anni, a causa anche del cambio di vita che li aveva caratterizzati, si era trasformato in qualcosa di assolutamente ininfluente. Potevano passare settimane senza che si guardasse a uno specchio, anzi molto spesso cercava di non capitarci davanti a proposito, sapendo che non avrebbe osservato nulla di buono. Quel giorno invece, approfittando del grosso cristallo incassato a parete del bagno principale, si soffermò sulle occhiaie sotto le palpebre, le macchie del sole sulla fronte, qualche grano di forfora sulla testa, a causa del cambio di stagione, un paio di peli incarniti sulla gola che formavano grossi foruncoli arrossati, il collo, anch’esso peloso. Cercò di rassettarsi alla bell’e meglio, di apparire ordinato, ma si trattava comunque di una operazione piuttosto sommaria, avendo indossato già la giacca per non patire il gelo.
Tornò alla camera, raccolse lo zaino dove conservava tutti gli oggetti personali, e passò alla zona giorno, un salottino completamente illuminato dal sole, sgombro di mobili; affianco, la cucina, in parte ancora ammobiliata, con un’isola in compensato che fungeva da tavolo da pranzo. Andrea appoggiò lì lo zaino, lo aprì e tirò fuori il kit della colazione; latte in cartoccio, biscotti, borraccia con un caffè fatto un paio di giorni prima da sua sorella, ancora mezzo pieno.
- In questa casa non c’è quasi niente, come avevo previsto. - pensò a malincuore. - Dovrò andare nella vecchia a prendere tutto, ma solo dopo essermi assicurato che qui non mi scaccino subito. -
Questo tipo di trasloco “discreto”, prevedeva un certo numero di viaggi, per non dare nell’occhio; bisognava sempre muoversi con un solo zaino, non troppo grande, e le cose da portare dovevano essere il minimo indispensabile per la sopravvivenza.
- Devo fare tutto in un paio di giorni, prima che nell’altra casa entrino a smantellare. - continuò a pensare, - non ho tempo da perdere. Questa catapecchia è vuota da mesi e nessuno è mai passato a vedere in che condizioni si trova, dovrei potermi sistemare per qualche tempo. -
Nell’alloggio dove ancora teneva tutti i suoi averi da quasi tre anni, erano alla fine giunti i proprietari, i quali dopo aver invano tentato di entrare dalla porta principale, avevano minacciato ad alta voce di tornare con alcuni amici per sbatterlo fuori di casa a forza, lui e i suoi quattro stracci, e così si era dovuto dare da fare. Questo nuovo alloggio, in un brutto edificio di una delle zone più sfortunate della città, compresso tra autostrada e ferrovie, il fiume e le industrie, lo aveva adocchiato già da tempo nei suoi girovagare senza meta; doveva tenere pronta l’alternativa per il momento in cui avrebbe dovuto fuggire dalla situazione precaria in cui sempre si trovava a vivere.
Peccato, perché l’appartamento dove aveva vissuto gli ultimi tre anni della sua strana vita gli era piaciuto molto, sembrava cucitogli addosso, e ci si era affezionato. A un quarto piano di una discreta palazzina dei primi del Novecento, costruito su una collina in una zona popolare, ma che si affacciava direttamente sul centro storico; dalla finestra della cucina, a est, si poteva vedere buona parte della città. L’appartamento faceva angolo, e aveva anche due finestre a sud, quella della camera da letto e il salottino. Da quest’ultima, provvista di balcone, si potevano scorgere le fabbriche del porto, e poi, in lontananza, la striscia azzurra del mare. Non c’era niente che lo facesse stare meglio che svegliarsi tardi, la mattina, uscire dalla stanza in mutande, passare al salotto e spalancare la porta finestra, uscire al balcone e respirare a pieni polmoni l’aria umida e carica di salsedine, guardando il mare e i suoi riflessi d’argento cangianti, sotto i raggi del sole obliquo. Era quello un appartamento che era stato ereditato, dopo la morte dell’anziana signora proprietaria, da numerosi nipoti e parenti di una vecchia famiglia operaia del porto, molti dei quali non vivevano nemmeno più in città; la difficoltà nel decidere il da farsi sulla proprietà aveva creato un periodo di abbandono, e quando alla fine si era deciso di affittarlo non si erano subito presentati degli interessati. Così fu che Andrea ebbe tempo per stabilirsi comodamente nell’alloggio per tre anni abbondanti, senza che nessuno venisse mai a disturbarlo. Una vera fortuna, difficilmente riusciva a stabilirsi per più di qualche mese nello stesso posto, prima o poi si spargeva la voce della sua presenza e qualche vicino poco simpatico faceva scattare la denuncia di occupazione abusiva, chiamava i proprietari, avvertiva l’amministrazione. In realtà, nel corso degli anni Andrea aveva affinato la sua tecnica di intrusione illecita, e questo gli aveva permesso di prolungare la sua permanenza nella amata casa sul mare più di quello che avrebbe sperato. Era quello il quinto appartamento che prendeva in prestito silenziosamente, e giusto questa notte aveva appena inaugurato il sesto; purtroppo il cambio questa volta non era stato affatto favorevole, ma occasioni come quella precedente non capitavano spesso, anzi probabilmente non sarebbero capitate mai più. In quell’appartamento affacciato sul mare si era dato il lusso di arredare un minimo gli interni, era quindi andato nella cantina di famiglia, dove teneva i suoi vecchi mobili, preso qualche quadro, un paio di comodini, due grandi poster di locandine cinematografiche, e aveva personalizzato il salotto e la camera da letto. Niente di che, dettagli davvero minimi, ma sufficienti per tornare a casa e sentirsi protetto, tranquillo, rilassato, a proprio agio. In un momento di affetto estremo per la sedentarietà, a lui invero piuttosto estraneo, aveva ipotizzato di adottare un cane, o anzi ancora meglio un gatto; un animale indipendente, senza troppa necessità di attenzione, che lo accogliesse silenziosamente al suo ritorno, assieme ai faccioni degli attori nei poster. Poi però, la paura di essere d’improvviso di nuovo sulla strada, senza la sicurezza di un posto dove andare a dormire, un rifugio, lo aveva definitivamente scoraggiato. Un gatto lo poteva sempre regalare a sua sorella, e poi andare a trovarlo.
Ora si trovava ancora una volta in una situazione del tutto nuova; il quartiere lo conosceva poco, lo aveva visitato sapendo che si trattava di un quartiere povero, di edifici umili per gente umile, molto spopolato, quindi con molte possibilità di accesso per uno come lui. Ma in realtà Andrea aveva sempre abitato nell’altra valle cittadina, in altre zone, non era pratico lì. A partire da oggi, avrebbe dovuto cominciare a guardarsi intorno con molta attenzione, studiare i vicini, gli usi e costumi, i negozi, i traffici leciti e meno, gli spazi pubblici, di incontro, dove cominciare a tessere alcune relazioni, semplici, di finta amicizia, spesso, che gli avrebbero permesso di cavarsela nelle piccole beghe quotidiane, e magari anche nelle situazioni estreme. In realtà, la vita del nomade cittadino non era così semplice e inoperosa come poteva sembrare a prima vista. Sono poche le cose a cui bisogna pensare per non rimanere completamente indifeso, ma bisogna pensarci bene; Andrea si risolse infine a chiudere le persiane, infilare gli occhiali, attraversare il portoncino di casa e scendere in strada