Isabella Rinaldi
L’amore che resta

Titolo L’amore che resta
Autore Isabella Rinaldi
Genere Autobiografico      
Pubblicata il 31/07/2021
Visite 703
Editore Liberodiscrivere® edizioni
Collana Spazioautori  N.  3788
ISBN 9788893392532
Pagine 134
Prezzo Libro 12,00 € PayPal

Versione Ebook

ISBN EBook 9788893392549
Dato che la persona senza la quale non potremmo morire siamo noi, allora preferisco l’amore incondizionato per me stessa, avendo cura di tenermi sempre per mano.
Il perdono è per chiudere col passato, quello vero è solo di Dio.
Noi siamo scintille divine.
Dobbiamo uscire dalla la nostra percezione del mondo.
Così mi lascio fluire e torno ad amarmi. Niente altro!
Faccio qui un viaggio per ricordare, per ritornare ai tempi dell’infanzia, che ho abitato con gioia e ridivento, in un moto circolare, genitore e figlia di me stessa.
Tutto è frammento, sono io che posso darmi o non darmi.
Sono io che decido ora!
Dato che la persona senza la quale non potremmo morire siamo noi, allora preferisco l’amore incondizionato per me stessa, avendo cura di tenermi sempre per mano.
Il perdono è per chiudere col passato, quello vero è solo di Dio.
Noi siamo scintille divine.
Dobbiamo uscire dalla la nostra percezione del mondo.
Così mi lascio fluire e torno ad amarmi. Niente altro!
Faccio qui un viaggio per ricordare, per ritornare ai tempi dell’infanzia, che ho abitato con gioia e ridivento, in un moto circolare, genitore e figlia di me stessa.
Tutto è frammento, sono io che posso darmi o non darmi.
Sono io che decido ora!
Sono nata al Nord, da genitori di origine meridionale, trasferitisi per riscattare le umili origini e con il mito di perseguire sogni ambiziosi e ricchezze, mantenendo tuttavia un legame profondo per i loro cari, per gli amici, per la loro terra con le sue tradizioni, che ho saputo accogliere e trasmettere, a mia volta, ai miei figli.
La mia storia è imbibíta di famiglia.
Avendo vissuto in molti paesi diversi, mi sono spesso sentita fuori posto e alla perenne ricerca di un luogo ideale.
Sempre ho avuto il bisogno dell’approvazione degli altri, soprattutto dei miei cari, e con essa il un forte desiderio e la volontà di essere accettata con i miei pregi e con i miei difetti.
Soffro immensamente ancora oggi quando rivivo sulla pelle l’indifferenza di chi mi è stato intorno che, negli anni, ha contribuito piuttosto alla distruzione delle mie fondamenta, specie durante passaggi molto delicati e duri della mia vita: proprio allora mi sono sentita giudicata e considerata addirittura pazza, condizione che, a causa soprattutto dell’isolamento e della totale solitudine in cui ero finita,, mi sembra di aver rasentato.
I miei sogni, più da favola che da realtà, non mi hanno resa molto credibile, anche se ho cercato e costantemente cerco di contribuire al benessere delle persone vicine al meglio delle mie possibilità.
Il mio spirito libero mi ha presentata come un’anima ribelle, ma io sono sempre stata alla ricerca disperata del posto e dei luoghi dove sono cresciuta e dove ho vissuto e amato.
Avrei avuto bisogno di serenità, di riconoscimento e calore umano.
Purtroppo, quello che vorremmo veramente avere, e quello che la vita ci offre, non sempre scorrono sulla stessa linea e, per me, temo sia stato così.
Nonostante ciò, fin da piccola ho manifestato un carattere aperto alla socialità e al confronto tanto che, mi riferisce mia madre e ben ricordo anch’io, sono stata l’unica figlia, dei suoi sette, ad essere andata molto volentieri all’asilo e spesso a non voler più venir via.
Sono qui alla ricerca della mia identità celata.
Vorrei riuscire a offrire, in questo mio scritto, un’impronta pittorica, incisiva, in cui siano presenti scene centrali, sfondi, sfumature non necessariamente inserite in un ordine cronologico, ma accennate per “sentimento” a ciò che mi arriverà scrivendo, via via che mi addentrerò nella galleria della mia esistenza, usando pennellate ora più forti ora più crude o più lievi.
Stagioni, prospettive e ritmi differenti, luci e ombre, nelle scene della mia vita che desidero lasciare nel cuore e nella mente di chi mi leggerà.
E, alla fine di questo percorso, vorrei potermi riguardare con lo stesso stupore, tenerezza e stima con cui mi osservava, e ancora mi guarderebbe oggi, mio padre.
 
Nuoto in acque limpide
risalgo la corrente del Mállero
fatico 
ma procedo
guizzo fuori come i pesci
ma respiro
questa frizzante e pura aria tersa
il giorno ha con sè la luce
che abbaglia i corsi d’acqua
e la montagna
mi stringe
come le dieci manine dei miei fratelli
si tengono a vicenda
e papà e mamma le due colonne
di roccia
tutte intorno
Sondrio, 15 marzo 1971
Quel che più mi manca di me è, fin da piccolissima, il mio sguardo corrucciato nell’osservare le dinamiche dei molti che avevo intorno; mi rivedo sempre, con gli occhi della mente, con quelle guanciotte tonde, spesso arrossate e il mio nasino perfetto, alla francese, in movimento e arrampicata in ogni dove, specie sui miei adorati alberi del Sud nelle stagioni estive, nel giardino della campagna di Macchia, e rivedo le mie performance da autentica ginnasta, in sempre più ardite evoluzioni.
In silenzio.
E poi, improvviso: l’urlo!
Di solito indicava la risposta ai dispetti dei fratelli, di cui ero fino ad allora la più piccola, come accade fra animaletti per contendersi un pezzo di pane, una mandorla, un fico maturo o, semplicemente, un posto.
Oppure, rappresentava l’inquietudine che precede il sonno.
Di solito scalza, nella terra come in casa, per mare o per scogli e rocce, su per gli alberi, nelle stagioni estive o in quelle invernali, negli armadi o chiusa fra le quattro mura.
In ogni caso, ero scalza anche con le scarpe.
Era, anche, la voce di una particolare energia, tesa verso ciò che percepivo ormai scivolare via, silente, dissolversi con la chiusura del giorno.
Ho avuto modo, dalla mia “postazione di piccola”, di osservare realtà molto differenti rispetto alla nostra complessiva: tra le fessure, come infilata dentro a qualche anfratto… sensazioni simili ad un animale che si sente improvvisamente braccato.
O che vede gli altri competersi il cibo e lui accettare le briciole.
Il buio come allerta, l’immaginazione e il bisogno di rifugio vicina al calore degli altri, la mia cura.
Forse, il mio ricordo più antico e caro è quello di avere avuto il privilegio, anche se per poco in quanto a quattro anni nacque la nostra sorella più piccola, di essere presa in braccio, una volta sfinita, mentre tutti gli altri erano già considerati “i grandi”.
Come il miracolo di Gesù bambino nel presepe!
Amo ricordare le vigilie dei natali.
Il presepe, articolato, costruito con attenzione insieme alla mamma e l’albero, sempre vero e grande.
L’engramma di una consistente nevicata che imbiancò completamente Genova, e il grattacielo dove abbiamo vissuto per lunghi anni, e la salita a fianco, immaginata coralmente, a casa, come una pista da sci che ci permise di improvvisare una discesa sulla neve cittadina.
La realtà non si ripete.
E tu mi manchi, per quella forza speciale di attrazione che emanavi, piccola fra i grandi.
È così che, da adulta, sono finita in terapia: volevo ricercare me stessa e i nessi fra quel che ero e quel che ero diventata. Nel ruolo di paziente, cioè sofferente, sono andata alla ricerca di un senso attraverso l’oggettivazione di ciò che mi è accaduto e che ho fissato nei ricordi, nelle memorie, nei nessi, tenuti collegati, con cadenza ritmica, dalla comparsa, nei decenni, della mia Lilly, una grande farfalla gialla con striature nere e due “occhi” neri sulle sue ali.
La terapia per me è stata una chiave di lettura per tradurre l’intraducibile.
Così, mi sono autorizzata a riprendermi per mano, seguendo il filo rosso del senso e dei legami, ad esempio fra i “così tanti” della mia infanzia e giovinezza in una famiglia numerosa, e il “così sola” della vita adulta.
Come paziente, questo vado ricercando nella mia storia di “ologrammi di costellazioni di senso”.
Ascoltare è una delle caratteristiche che da sempre mi contraddistingue.
Col tempo ho imparato ad essere attenta e veloce, a includere, o scartare e dimenticare.
Mi piace percepire il ritmo che mi culla, mi attira, è affettivo e mi riempie, come la musica, dell’umano e del divino insieme...
Provo a indagare nei ricordi più lontani nel tempo... tra i nomi che ho dato ai miei vuoti, e ai fatti che mi sono capitati.
Scrivere della scoperta di alcune parole come: furti, dentro e fuori, madre come enigma, assenze, ordine e disordine, engrammi, hineinhorken, dissodare, invisibilità, finito e infinito, e tanti altri.
Vuoti potenzialmente drammatici, intimi, segreti. E i miei racconti...
Vedere e sentire: forse questi i sensi più sviluppati in me, e per me più “spirituali”, in un certo senso.
Anche se permeata e condizionata da sempre dal tedio caotico del subbuglio delle mie emozioni.
Che hanno condizionato tutta la mia vita.
L’idea stessa di “finito” si oppone a quello che cercherò di esprimere qui.
La vita mi ha donato tanto: due genitori, per molti versi individualmente impareggiabili, sei tra fratelli e sorelle, un marito, due magnifici figli, senza i quali non avrei più trovato senso alla mia esistenza, dodici meravigliosi nipoti, alcuni veri amici, e una bella sensibilità.
Tutto ciò, e molto altro, mi hanno fatto volare in alto; poi sono sorte complicazioni di ogni genere: traumi, disagi gravi, malattie, lutti, ostacoli affettivi, sociali, economici, profonde incomprensioni e conseguenti vuoti nella vita adulta, anche concomitanti.
Così mi sono ritrovata spiaccicata per terra, come la volta in cui volai dal più bel cavallino della giostra con addosso il vestitino nuovo, proprio mio, non quelli “ereditati” dalle sorelle maggiori o, più tardi, fiera e innamoratissima, dal cavallo vero del mio fidanzato.
Ho sempre cercato di risalire nei luoghi felici e seducenti.
Ma la verità è che la realtà non si ripete.
E si cerca di riavere il nostro passato, anche se rimasto sotto a un tritacarne, restituito.
E, anche se qualcosa ci viene restituito, non sarà mai più lo stesso.
Così mi piace imprimere immagini e significati nelle foto che ho scattato, nella memoria dei paesaggi e dei volti della mia infanzia e giovinezza, nel movimento e nelle evoluzioni del corpo; più tardi nei miei quadri, o nei ritmi della musica, che mi piace ascoltare e riascoltare, e nel cantare i testi deicantautori che mi piacevano un tempo e quelli che si sono aggiunti.
Nei mari profondi degli sguardi dei miei figli, di me, innamorata della Vita.
Dove sono nata, a Sondrio, tutta la mia grande famiglia mi trattava come una bambola.
Mia madre amava vestirmi di rosa, con tutine fatte da lei e cuffiette sempre un po’ ottocentesche che incorniciavano, mi riferiscono, un viso davvero da bambola.
Se qualcuno mi teneva in braccio, anche se avevo un’indole selvatica e un po’ da maschiaccio ed ero costantemente in movimento, rimanevo improvvisamente immobile e quelli che ci incrociavano, anziani o meno, si giravano meravigliati senza capire bene se fossi finta o vera.
Questo era diventato un gioco anche per i fratelli maggiori, che mi portavano in giro per vedere come tutti si voltassero indietro a guardarmi.
Ma lo era anche per me, perché sapevo quanto contasse a casa l’essere bravi, ordinati e soprattutto sapevo che, se fossi stata al gioco, mi avrebbero premiata, ad esempio con qualche coccola in più, oppure papà mi avrebbe permesso di stargli vicino nella sua mitica Citröen, detta “lo squalo”, proprio a fianco del guidatore o, a tavola, mi avrebbero concesso uno di quegli speciali cioccolatini che prendevano in Svizzera, con le cartine a scacchi bianchi e neri e la rosa rossa.
Oppure, farmi coccolare da Fulmine, quel grande cagnone del barista sotto casa, che io adoravo e che mi adorava!
A casa, invece, al mare, al Sud, stavo sempre senza vestiti o con il minimo indispensabile.
Amavamo la semplicità e papà l’essenzialità; soprattutto nella stagione estiva si poteva godere di molta libertà.
Io in particolare.
Niente limiti fatti di orari, cappellini, creme, riposini post pranzo o altri inutili rituali.
Sono stata bambina di mare. Fatta di sole e acqua salata che non levavo via.
Ho scavato in cerca di conchiglie, scrutato ogni millimetro della nostra costa e di quella subacquea, in cerca di fossili e come archeologa di me stessa. Raccolto patelle, pomodori di mare, stelle e cavallucci marini, e, in apnea, ricci di mare.
Pescato polpi all’amo con la pietra insieme a Tonino che, con la moglie Lina e i loro quattro figli, sono stati a me vicini e grandi amici. Con Gianni e la sua famiglia siamo ancora oggi in contatto.
Tonino, in particolare, è stato capace di alleviare il dolore che mi attanagliava quando papà non poteva essere con noi, perché doveva tornare al Nord, a lavorare.
 Dei loro figli ricordo tutti, ricordo Fulvia: lei, talvolta con la mente era da un’altra parte, esplorava altri mondi, quante belle nuotate insieme! Poi, non c’è stata più.
Quanto calore umano! Semplice amicizia. Solo la gente del Sud, che magari non vedi più da anni e anni, se la chiami improvvisamente o la incontri per caso, ti sa restituire quell’attimo di calore, come ritrovarsi in un nido tiepido e magari sentirsi dire: “Come stai amore mio?”, e subito vederli pronti a offrire un pasto, dell’affetto, un caffè!
I nostri ci avevano preso una barchetta cabinata bianca e blu, che finì malamente, nonostante le raccomandazioni di tenerla con le dovute cure.
Avevo poco più di un anno quando i miei fratelli ebbero la pensata di buttarmi a bomba dalla barca.
Alcuni erano su, altri in acqua, il mare era una tavola limpida.
Non mi spaventai. Come il mare, so agitarmi o stare tranquilla, anche se feci capire loro che non ero tipa da brutti scherzi…
Risalita a galla mi misi a nuotare.
L’acqua era sicuramente il mio elemento.
E, da quel momento, cominciai a farmi rispettare!
Spesso, al mattino, ero sempre io a svegliarmi per prima insieme a papà, per vivere l’esclusiva dei primi momenti della giornata insieme a lui.
Ho adorato quelle aurore.
Quelle luci silenti.
Quel respiro, quegli sguardi, che ancora ci tengono insieme.
Appena aperta la porta, ad aspettarmi Bobi, un bastardino a cui ero legata da un affetto smisurato.
Mi prendeva con i dentini aguzzi la cima del ciripà, srotolandolo tutto e spesso facendomi cadere. E io a tenerlo, tirandolo dalla parte opposta.
Mi ha insegnato l’allenamento al buon combattimento.
Dato che la persona senza la quale non potremmo morire siamo noi, allora preferisco l’amore incondizionato per me stessa, avendo cura di tenermi sempre per mano.
Il perdono è per chiudere col passato, quello vero è solo di Dio.
Noi siamo scintille divine.
Dobbiamo uscire dalla la nostra percezione del mondo.
Così mi lascio fluire e torno ad amarmi. Niente altro!
Faccio qui un viaggio per ricordare, per ritornare ai tempi dell’infanzia, che ho abitato con gioia e ridivento, in un moto circolare, genitore e figlia di me stessa.
Tutto è frammento, sono io che posso darmi o non darmi.
Sono io che decido ora!

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