Diceva una volta Umberto Eco, celebre semiologo e scrittore, che “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito... perché la lettura è una immortalità all’indietro”; ebbene, in questo libro l’autore ci fa vivere non solo la sua vita, quella di un narratore vivace, profondo nelle sue riflessioni, ma anche quella di alcuni personaggi famosi del mondo del calcio, quella di altre figure che entrano nella vicenda con diversa intensità, ma sempre lasciando un segno, sempre trasmettendo un qualcosa che entra nella mente del lettore e pian piano lo porta a riflettere, gli fa sentire di condividere un pezzo della vita del narratore ed un pezzetto della propria.
Conosco Simone da alcuni anni, condividiamo la passione per uno dei giochi più belli che mente umana abbia creato, cioè il Subbuteo, e non condividiamo la stessa passione per la squadra di calcio, ma da buoni genovesi siamo schierati sulle due sponde opposte dello stesso fiume!
Simone è una persona vera, una persona che non ha mai dimenticato il fanciullo che è in ognuno di noi, e questo fanciullo lo porta a giocare sempre con grande intensità, ma con lealtà e profondo rispetto degli altri e delle regole.
Tutto questo ha contribuito a farmi provare nei suoi confronti sempre una grande stima, ed è sempre stato un piacere affrontarlo sui panni verdi, e ancor più un immenso onore trovarmi qui ad introdurre questo suo libro, che è una grande prova di coraggio, perché mettersi in gioco davvero è UNA GRANDE PROVA DI CORAGGIO
“July, she will fly
And give no warning to her flight”[1]
“April come she will”, Simon and Garfunkel
Vi starete chiedendo perché ho scelto questo titolo.
Innanzitutto perché il 5 luglio è il mio compleanno.
Luca Proietti, nato il 5 luglio del 1978.
Papà imprenditore del cemento, così ottimista e innamorato di sé che ad un certo punto ha lasciato mamma ed è andato via di casa.
Mamma impiegata, donna di sinistra e di cultura (che in quegli anni andavano di pari passo), lievemente apprensiva. Di lei ricordo soprattutto una frase: “io ho doppia responsabilità, sia per me che per tuo padre che non c’è”. Come se l’assenza di mio padre non dipendesse da lui. In realtà era solo una tattica per provare a controllarmi.
Poi vi chiederete perché proprio il 5 luglio del 1994.
Orbene, in quella data si è disputata la partita di calcio che mi ha fatto definitivamente innamorare di questo sport, forse perché era il giorno del mio compleanno: Italia-Nigeria durante i mondiali di calcio del 1994.
Questa partita rappresenta la caduta e la risurrezione, la debolezza e la grandezza, la disperazione e la gioia, insomma quello che per un tifoso del Genoa come me è la normalità ma che non ti saresti aspettato dalla Nazionale.
Vi siete mai chiesti veramente perché il calcio sia così amato?
Non credo che sia solo per la sua semplicità. Credo piuttosto che questo amore dipenda dal fatto che in una sola partita di pallone sia concentrata una vita intera con tantissime storie al suo interno: lealtà, tradimento, disperazione, felicità, illusione, vendetta, un concetto ed il suo stesso contrario in quei maledetti 90 minuti più recupero. È quello che ci fa amare il calcio (e in alcuni casi lo sport) in modo viscerale: certe partite assomigliano a vite noiose e piatte, ma a noi restano nel cuore quelle che invece sono assimilabili a vite tumultuose ed avventurose.
Osvaldo Soriano ha scritto che “per quanto possa sembrare esagerato, nel rettangolo verde si porta in scena l’imprevedibile dramma della vita”. D’altronde Albert Camus[2], in gioventù portiere dell’Algeri, diceva che “il calcio gli aveva insegnato tutto quel che credeva di sapere della vita”.
Il calcio, come il gioco in generale, ha a che fare con la magia e come quest’ultima esercita fascino sugli uomini sin da quando sono bambini.
E come in ogni libro che parla di un gioco si deve citare il drammaturgo irlandese George Bernard Shaw: “l’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare”.
Osvaldo Bayer nel suo “Fùtbol, una storia sociale del calcio argentino” cita il pensatore tedesco Walter Jens: “Quando ormai avrò dimenticato anche l’ultimo verso di Goethe, mi ricorderò ancora l’attacco del Bayern Munchen”.
Anche in questo caso c’è un ritorno all’età dell’infanzia, quando si imparavano le poesie a memoria; poesie che ti restano nella mente fino alla fine dei tuoi giorni: ripenso a “Ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro…” di Manzoni ma anche a “Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso”, la formazione-filastrocca dell’Inter di Helenio Herrera che in quegli anni conoscevano tutti.
Guarda caso, l’unica immagine che ho di mio padre in casa è proprio durante una partita di calcio, la finale dei Mondiali del 1982.
Avevo 4 anni, quindi il ricordo sicuramente è influenzato da tutto il vissuto che c’è stato successivamente, però nella mia mente ho nitida la sua figura mentre si dispera ed impreca nel momento in cui Antonio Cabrini sbagliò il rigore che ci venne concesso nel primo tempo.
Ricordo ogni dettaglio di quel momento: il salotto con una parete tonda, i mobili di giunco, il divano che scricchiolava quando ci si sedeva sopra e più persone che si muovevano attorno al televisore Nordmende. Ma il più agitato, al centro della scena, era mio padre.
Chissà se ha visto davvero la partita con me, chissà se quello che per me è un vivido ricordo è in realtà realmente accaduto. Magari è come quella scena del Film di Francesco Nuti “Caruso Pascoski, di padre polacco” in cui il protagonista si ricorda che l’ex moglie (Clarissa Burt) fumava mentre lei sostiene di non averlo mai fatto.
Uno studio scientifico americano sostiene che il cervello umano è portato a distorcere certi ricordi di eventi catartici mischiandoli con delle proiezioni emotive, in modo da costruire in assoluta buona fede un nuovo ricordo che confonde ciò che è realmente accaduto con le derive emotive che ci hanno influenzato sovrapponendosi ad esso.
Questa tesi è molto interessante, soprattutto per chi come me fa l’avvocato e deve valutare l’attendibilità e la credibilità di certi soggetti. Ma questa è un’altra storia.
Italia-Germania poi finì 3-1, per noi segnarono Paolo Rossi (capocannoniere del Mundial e poi pallone d’oro), Tardelli (con l’urlo più famoso della storia dello sport) e “Spillo” Altobelli, ma di tutto ciò non ho alcun ricordo diretto, l’ho dovuto ricostruire leggendo libri e visionando filmati dell’epoca.
E Clarissa Burt-Giulia, l’ex moglie di Nuti in quel film, in realtà si era solo fatta una canna; al che Nuti-Caruso risponde: “la canna è una sigaretta importante”.
E proprio il 5 luglio, in quel mondiale, si era giocata forse una delle più belle partite della storia della nazionale italiana: trentadue milioni di televisori (da poco a colori) si sintonizzarono sul canale 2 a vedere l’Italia battere il Brasile 3-2 con tripletta di Paolo Rossi e miracolo di Zoff, nel finale, su colpo di testa di Oscar. Era un Brasile stratosferico, i suoi giocatori vennero definiti “marziani” dalla nostra stampa, ed è stata la Nazionale italiana che forse ha compiuto l’impresa più grande. Peccato non avere ricordi di quella sfida.
Ed ecco allora che la data ritorna ad essere importante, in un 5 luglio, ma del 1984, a Napoli c’è un omino piccolo con tanti capelli, una cebollita, che alle ore 18.30 sale le scale dell’impianto sportivo di Fuorigrotta che 36 anni dopo prenderà il suo nome[3].
Quell’uomo era Diego Armando Maradona e in qualche modo sarà uno dei protagonisti di questa storia.
E fidatevi, di caduta e risurrezione Maradona se ne intendeva assai, per questo la gente lo ha amato, per questo lo si ama soprattutto ora che non c’è più[4].
Quindi l’amore per Italia-Nigeria e per Roberto Baggio, un altro fenomeno ma, seppur per ragioni diverse rispetto a Maradona, anch’egli fragile. Più silenzioso di Diego, altrettanto scomodo ma soprattutto un uomo libero. Qualcuno mi ha detto che la libertà ha sempre un costo. Ed è vero, Baggio ad esempio per essere libero ha dovuto pagare un prezzo altissimo, basti pensare a tutte le volte in cui ha lasciato squadre ambiziose pur di poter giocare.
Quando si rianalizza una storia e la si legge assieme ad altre, ponendosi con quel distacco che solo il tempo sa dare, ci si accorge come il destino sia davvero un sottile filo rosso che tiene legate tra loro tante vicende umane.
Basti pensare che il 5 luglio è nato anche un altro protagonista di questa storia, Gianfranco Zola (successivamente soprannominato “Magic box” e nominato baronetto della Regina d’Inghilterra per quanto di buono ha fatto al Chelsea), non uno qualsiasi ma colui che ereditò la maglia numero 10 del Napoli proprio da Maradona.
Calcio e vita, pensateci, lo diceva anche Camus
[1] Trad.: “Luglio, lei volerà/Del suo volo non avviserà”
[2] Scrittore, filosofo e giornalista francese, premio Nobel per la letteratura nel 1957
[3] All’epoca lo stadio era denominato San Paolo e così si chiamò fino al 2020 in cui divenne Stadio Diego Armando Maradona.
[4] Diego Armando Maradona, forse il calciatore più forte di tutti i tempi, è mancato il 25 novembre 2020.