Era un tardo pomeriggio di fine estate e Aurora si stava rilassando sulla sdraia all’ombra del grande salice, davanti a casa godendo della leggera brezza che ogni tanto si alzava e che alleviava il grande caldo di quella lunga giornata di agosto.
Qualche lontana nuvola attraversava pigramente il cielo sopra di lei, e in cuore suo pregò, sapendo molto bene che non sarebbe accaduto, che piovesse quella notte, desiderava una pioggia sottile e benefica, non uno dei soliti temporali che quell’estate affliggevano tutti.
Era una strana estate, ma non per il caldo o per l’afa, ma per le piogge torrenziali, improvvise, brevi, ma implacabili.
Mentre con lo sguardo accompagnava le nuvole, la mente tornò al ricordo di suo nonno che le aveva insegnato a osservare il volo delle rondini, più basso era, più possibilità di pioggia in arrivo.
Ma naturalmente non accadeva, tutta la natura aveva sofferto per gli sconvolgimenti climatici degli ultimi anni, le stagioni, da quattro, si erano ridotte a due, solo inverno ed estate; come se Madre Natura avesse voluto risparmiare, come se la recessione non avesse colpito solo l’economia del paese, ma l’intero creato.
Accidenti, era più di un’ora che leggeva ripetutamente il paragrafo del libro che teneva in grembo senza capirne una sola parola, il pensiero le volava via.
Basta, era inutile, chiuse quindi il libro e andò da Jet, il suo adorato cane.
Quando Jet la vide arrivare le corse festante incontro e, scodinzolando allegramente, la invitava a giocare con lui.
Fu così che Aurora lo accontentò e, mentre lanciava la palla a Jet, iniziò a pensare alla sua vita.
A quarantacinque anni compiuti Aurora riuscì per la prima volta con grande serenità e con una pace interiore difficile da trovare a sentirsi veramente bene, la sua anima non era più come svuotata come in passato. Fu così che, uno dopo l’altro, le ritornarono alla mente tutti gli eventi, felici e tristi, della sua vita.
Viveva in quella casa, ereditata dai suoi genitori.
Oltre la casa i genitori le avevano lasciato un abbondante deposito in banca, che lei, per orgoglio, ma forse soprattutto per risentimento nei loro confronti, non aveva mai intaccato.
La casa era nelle campagne aperte di Norfolk, nel Nebraska; i muri esterni erano con pietra a vista, o quasi, in quanto praticamente tutti ricoperta di rampicanti; le persiane in legno dipinte di un bel verde, quasi a mimetizzarsi con le piante che avvolgevano la casa; sulla facciata il tetto a punta mentre su tutti gli altri lati scendeva più dolcemente.
Appena entrati si poteva notare il camino, aperto su due lati, al centro del salone, con un grande divano semi circolare in pelle beige che lo avvolgeva. A destra, attraverso una porta ad arco si entrava nella cucina, decisamente grande, dove faceva bella mostra di sé una stufa a legna, quelle di una volta, che ovviamente non veniva più utilizzata, ma metteva allegria; completamente diverso e modernissimo il resto della sala un lato della quale era occupato dall’angolo cottura, caratterizzato da un grande forno elettrico e da un piano cottura con cinque fuochi, non poteva mancare poi il forno a microonde; l’angolo cottura continuava con un ampio lavello a due vasche e il tutto era “sostenuto” da un bellissimo piano in marmo rosa.
Su un altro lato, contenuti in un bellissimo mobile, ovviamente in legno di noce, il grande frigorifero, il congelatore e la lavastoviglie. Nel lato opposto un altro mobile, sempre in legno di noce, conteneva piatti, bicchieri, tegami e tutto l’occorrente per il perfetto funzionamento della cucina.
Al centro della sala un tavolo che, in linea con il resto dei mobili, era in legno di noce col piano di marmo rosa attorno a cui potevano comodamente sedere sei persone.
Per salire a piani superiori occorreva tornare nella sala dove, una grande scala in legno che causa dell’età scricchiolava allegramente ad ogni passo, conduceva alla “zona notte” dove erano situate due camere da letto, di cui una decisamente grande e l’altra di dimensioni più contenute, un piccolo locale che poteva essere adibito studio e l’unico bagno della casa.
Aurora aveva arredato solo la camera più grande; un letto da due piazze e mezzo, tutto in noce e con una grande, quasi imponente, testata, un armadio a cabina incredibilmente grande, anche lui di spessa noce, e una grande cassettiera, ovviamente in noce così come i due comodini decisamente grandi e che pareva “uscissero dalla testata del letto”.
Vicino alla portafinestra, che dava sul balconcino, due poltrone Frau, decisamente datate, che erano l’unico mobilio che aveva conservato.
Alle pareti, come del resto nel salone del piano terra, quadri che raffiguravano gli animali da lei tanto amati, cavalli, cani e gatti; tra questi quadri uno raffigurava un’aquila reale in volo.
La camera più piccola e lo studio li aveva lasciati vuoti, mentre nel bagno aveva sostituito il pavimento, il rivestimento e i sanitari mettendo il tutto completamente bianco, e spiccava il mobile di noce con doppio lavello ovale, il tutto sormontato da una grande specchiera, poi aveva fatto sostituire la vecchia vasca con una grande doccia dotata di idromassaggio.
Sin dall’inizio Aurora aveva l’intenzione di far costruire, rubando un po’ di spazio alla cucina, un secondo bagno al piano terra, ma il solo pensiero di avere per casa operai che avrebbero ovviamente causato confusione e polvere e che non avrebbe potuto seguire in prima persona i lavori, la spaventavano al punto di farle sempre rimandare la realizzazione.
Quando Aurora aveva messo piede in quella casa si era trovata di fronte a una situazione assai differente da ciò che si era immaginata e che aveva sperato.
Tutto era in condizioni che era impossibile definire buone. Pareti con alcune evidenti tracce di muffa, in maniera particolare negli spigoli tra le pareti e il soffitto, tutto era da riverniciare e, in alcune parti, da rintonacare.
I mobili erano vecchi e con evidenti segni di usura, ma comunque, anche se era necessario far ricorso a uno spirito di adattamento non indifferente, utilizzabili, in condizioni peggiori invece il bagno e la cucina.
Tutto dimostrava, più che chiaramente, che quella casa era stata a lungo disabitata, ma anche che ci aveva abitato non l’aveva certamente “trattata nella migliore delle maniere”.
Una cosa aveva colpito Aurora e cioè che tutto era pulitissimo; non c’era la minima traccia di polvere e persino i vetri erano perfettamente puliti; davvero strano, sembrava quasi che chi abitava quella casa fosse uscito, dopo aver provveduto a una pulizia più che accurata, non più di un paio di giorni prima!
Con la determinazione che la contraddistingue Aurora, dando fondo a tutti i suoi risparmi e qualcosa in più, era riuscita, in pochissimo tempo, a rendere quella casa pervasa da una particolare atmosfera e decisamente calda e accogliente.
Certo che quella casa, per lei che era da sola, risultava decisamente grande tanto che due vani erano rimasti del tutto inutilizzati, ma a rendere soddisfatta e felice Aurora era il fatto di essere riuscita a fare ciò che desiderava ed esattamente come se l’era immaginato nel momento in cui aveva rimesso piede in quella casa.
Per il fatto poi che lei fosse sola in una casa così grande … chissà, qualcosa poteva sempre accadere.
I suoi genitori erano laici missionari convinti; lui medico chirurgo affermato e lei con la vocazione, e la qualifica, di crocerossina.
Aurora di loro sapeva poco, ogni volta che nonno Adamo cercava di raccontarle la storia dei suoi genitori, lei cambiava subito argomento, non voleva sapere nulla su coloro che l’avevano abbandonata, il suo risentimento era più forte della curiosità.
L’avevano abbandonata, per non dire dimenticata, pensando che Aurora fosse autosufficiente solo perché, all’età di sei anni, era in grado allacciarsi da sola le scarpe e dimostrava di avere un carattere forte e decisamente indipendente.
Avevano infatti deciso di riprendere ciò che avevano fatto negli anni giovanili, portare cioè aiuto a chi ne aveva bisogno. Iniziarono così a visitare quei villaggi sperduti dove le malattie e la fame mietevano solo vittime.
Aurora venne, di conseguenza, “affidata” a uno dei collegi più importanti, rinomati ed esclusivi del paese, a Dallas nel Texas, gestito da suore, incredibilmente intransigenti e severe.
Per lei, così piccina, non fu certo facile accettare quella nuova vita. Era spaesata e spaventata.
C’erano regole ferree e orari da incubo. Alla mattina la sveglia era alle cinque, poi tutte le bambine nella cappella del convento; lei a volte non riusciva a reggere al sonno e si addormentava sulla panca con la testa sul grembo della monaca vicina. Qualche suora sorrideva guardandola, ma altre, lige al loro dovere, la svegliavano in malo modo, riprendendola con severità.
Poi finalmente la colazione, e il latte caldo che le scendeva per la gola le sembrava un abbraccio.
Quindi in classe per imparare.
Dopo il pranzo, rigorosamente alle ore dodici e trenta, tutte in camera per il “riposino quotidiano” che spesso Aurora non faceva incantata a osservare, dietro i vetri della finestra, i vari tipi di uccellini che nidificavano sugli alberi nel giardino che, purtroppo per lei e per le giovani affidate al collegio era un luogo assolutamente vietato.
Alle quindici e trenta si passava poi in biblioteca, luogo decisamente poco allegro, per fare i compiti e studiare.
Alle diciotto e trenta tutte in sala da pranzo per la cena che, come gli altri pasti, non era certo un momento di allegria per le ragazzine ospiti del collegio; in primo luogo per la qualità e varietà del cibo che si ripeteva praticamente sempre uguale con impressionante monotonia; alla qualità del cibo si aggiungeva poi il fatto che, a tavola, era assolutamente proibito parlare.
Solo la domenica e le altre feste il cibo era assai più gradevole e vario.
Dopo cena le ragazzine erano impegnate, a turno e in relazione all’età, a lavare o asciugare le stoviglie appena usate.
Alle ventuno, come sempre con puntualità quasi asfissiante, nella cappella per le preghiere serali e quindi tutte nelle camere per trascorrere la notte.
Aurora arrivava a sera talmente triste e stanca che si addormentava fra le lacrime; si sentiva sola e abbandonata.