Titolo | Gli amori di Jane/Jane Austen: amori di cuore e di penna (I°capitolo) Ed. Liberodiscrivere | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Narrativa | ||
Pubblicata il | 22/01/2023 | ||
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Steventon, Inghilterra, dicembre 1795
Quando arrivava dicembre, Jane era particolarmente contenta: l’attesa della più suggestiva festa dell’anno, della tavola imbandita, dei fratelli che sarebbero arrivati con le loro famiglie, del salotto aperto più del consueto alle visite di vicini, amici e conoscenti, del suo prossimo compleanno e degli adorati balli – che si sarebbero moltiplicati – le regalava un’eccitazione gioiosa, un continuo movimento, un attivismo irrequieto, che faceva dire alla madre:
“Figlia mia, calmati, trova pace, ci sono ancora settimane a Natale!”;
e alla sorella Cassandra:
“Jane, mettiti a scrivere, così ti fermi un po’ e non giri come una trottola di stanza in stanza… non mi fai concentrare sul disegno!”
“Va bene, voglio darti retta, è l’unica cosa che mi porti quiete”.
Allora si sedeva al suo scrittoio, proprio davanti alla finestra del salotto, sistemava i fogli bianchi sotto il naso e intingeva la penna nell’inchiostro, ma, prima di vergare qualche parola, si concedeva, come sempre, uno sguardo oltre la finestra e una lunga riflessione: l’anno che stava volgendo al termine non era stato generoso; a maggio, in particolare, un grave lutto aveva colpito la sua famiglia: era morta la giovane moglie di James, lasciando orfana di mamma la piccola Anne. Devastato dal dolore e impossibilitato ad accudirla da solo, il fratello aveva affidato a loro la bambina, che lei e Cassandra, più della loro madre, ormai stanca e provata, avevano curato e trastullato con tutto il trasporto e l’allegria tipica delle giovani zie; adesso la piccola era presso gli altri nonni e sicuramente si stava divertendo meno. A novembre, invece, la vita aveva riservato loro una gioia, forse vergognandosi del tanto dolore sparso in primavera: era infatti nato George Thomas, figlio di Edward, e il reverendo padre si era tutto inorgoglito per la scelta del nome.
Jane sperava nella clemenza anche dell’ultimo mese e intanto, accantonando i bilanci, si regalava attimi di pura contemplazione: la vasta campagna sciorinava infatti davanti ai suoi occhi i propri tesori – dolci pendii, siepi compatte, boschetti, sentieri, morbide curve – che nella bella stagione erano rallegrati da un manto di verde brillante e dal colore dei fiori; ma adesso, in dicembre, i nuvoloni grigi e pesanti incombevano sul terreno spoglio, sui rami nudi dell’olmo, sui fossati sguarniti delle stradine, concedendo solo di tanto in tanto stupende nevicate. Lei però non se ne immalinconiva: quel paesaggio invernale l’aveva accompagnata per vent’anni, da quando, in una freddissima giornata dicembrina, il sedici per la precisione, si era finalmente decisa a nascere, dopo un ritardo di quasi un mese, asseriva convinta sua madre; e quindi faceva parte di lei, come i capelli castani e folti che teneva annodati sulla nuca e arricciati sulla fronte, i grandi occhi nocciola, le mani piccole e nervose.
Aveva vent’anni! Non le sembrava vero, in fondo era quasi la cucciola di casa – soltanto un altro fratello, il settimo, era nato dopo di lei – e quindi era cresciuta amata e coccolata giocando fino allo sfinimento con Cassandra, che aveva lo stesso nome della madre e due anni soli più di lei, e con Francis e Charles, i più vicini per età: le radure intorno casa erano ideali per scorribande e inseguimenti, mentre i boschetti limitrofi risultavano perfetti per nascondersi e uscire all’improvviso allo scoperto, nell’eccitata sorpresa di chi li cercava. Ma la corsa più lunga che loro bambini facevano era tra la canonica, il bell’edificio a due piani col tetto inclinato, in cui abitavano, e la chiesa, col suo campanile a guglia, di cui il padre era il pastore.
Per fortuna, a metà strada, proprio sotto il vecchio olmo, c’erano una pompa e una fontanella a cui attaccarsi per calmare la sete, specialmente d’estate, e per ripulirsi un po’ prima di presentarsi al babbo, che li accoglieva orgoglioso della sua bella nidiata, li intratteneva nel fresco dell’edificio sacro, mai tanto gradito, e li faceva rientrare prima del tramonto, anche se loro in realtà varcavano la soglia della canonica solo quando la madre li chiamava per cena, stanchi morti, ma al settimo cielo.
D’inverno invece stavano molto di più in casa, a leggere, scrivere e far di conto. George e Cassandra tenevano molto all’istruzione dei loro figli, maschi o femmine che fossero; così, intorno ai sei anni, anche le due sorelle erano state mandate all’Abbey School di Reading, in cui erano rimaste quattro anni, continuando poi a coltivare la loro educazione a casa, dove non difettavano le competenze del capofamiglia, i libri – più di cinquecento – e le suggestioni culturali – James e Henry, i fratelli più grandi, avevano fondato un giornale letterario –. In un clima così stimolante, tale era stato l’impegno scolastico e il coinvolgimento emotivo delle bambine, che, non ancora adolescente, Jane aveva cominciato a scrivere racconti, brevi romanzi e parodie, mentre Cassandra aveva trovato maggiore soddisfazione a disegnare, dipingere e soprattutto a sperimentare la tecnica dell’acquerello.
Adesso che di anni ne erano trascorsi altri dieci e la bambina più piccola era diventata una bella ragazza alta, aggraziata, di buon carattere e d’ironia acuta, il suo posto preferito era proprio quello scrittoio, dove poteva dare ali alla sua fervida fantasia, creando piccoli mondi domestici molto simili a quelli che sperimentava quotidianamente, a casa sua, dai parenti, dalle amiche, dai conoscenti dei suoi genitori: quest’universo, pur ristretto, possedeva tali potenzialità di intrecci amorosi, incontri e scontri, buoni sentimenti e, al contrario, di invidie, gelosie e risentimenti, che, immaginando tre o quattro famiglie borghesi o di piccola nobiltà, molto simili a quella cui apparteneva, ossia di ceto medio-alto, e facendole entrare in rotta di collisione con nuclei familiari di estrazione diversa, il risultato, in ricchezza e in varietà di conseguenze romanzesche, era assicurato.
Al centro del suo interesse campeggiava l’universo femminile e la condizione delle giovani donne simili a lei, che, sebbene ben educate, dovevano aspirare a un buon matrimonio per sistemarsi economicamente, non essendo prevista dalla mentalità nobiliare o borghese la possibilità per loro di lavorare per mantenersi: farlo sarebbe stato disdicevole! E, d’altra parte, quelle donne non potevano nemmeno ereditare beni immobili: in ogni fase della loro vita dovevano dipendere da qualche parente maschio.
Jane giudicava tale condizione ingiusta e assurda, ma, invece di scrivere saggi o pamphlet sull’argomento, preferiva rappresentare e punzecchiare le opinioni dell’epoca con la sua penna arguta e instancabile. E quanto divertimento ne traeva! Quando era immersa nella scrittura, non sentiva il freddo, la fame, la noia: il tempo scorreva veloce, come la sabbia tra le dita, ma, soprattutto, avvertiva la soddisfazione di vivere intensamente la giornata; pure lo spazio pareva dilatarsi, pronto ad accogliere le nuove creature che prendevano vita dalle sue pagine. Ritornando al presente, richiamata dalla madre o dalla sorella alla realtà, le pareva impossibile che i suoi personaggi fossero soltanto di carta, che non le facessero compagnia mentre sorseggiava il tè o non salissero con lei sulla carrozza che la portava in città a far compere.
Il fatto poi che il principale strumento di lavoro, ossia lo scrittoio bello ma scomodo, per la sua piccolezza, si trovasse nel soggiorno, e non in una stanza appartata e silenziosa, non la infastidiva: la sua capacità di concentrazione era robusta e l’essere testimone o partecipe delle chiacchiere salottiere nutriva la sua immaginazione regalando stimoli alla creatività. Pur in tanta disponibilità, Jane una condizione però la esigeva: che gli altri non sbirciassero quel che stava scrivendo. Su questo era irremovibile! Perciò non aveva mai permesso che fosse eliminato il cigolio della porta che conduceva al salotto.
Tra i dodici e diciotto anni aveva lavorato sodo componendo tre raccolte a cui aveva dato il titolo di Juvenilia, in onore del reverendo padre amante del latino: si trattava di poesie, bozze di romanzi, storie che facevano il verso alla moda letteraria imperante, esasperandone i toni, sia che si ispirassero alle passioni romantiche o ai racconti gotici, allora molto in voga, sia che scimmiottassero i toni classicheggianti proposti da certi artisti europei. Era un gioco per lei: ci sguazzava dentro come una papera nello stagno. Non coltivava per ora sogni di gloria, né aspirava a pubblicazioni di successo – chi avrebbe preso sul serio testi scritti da una giovane donna? –, ma soltanto a intrattenere e divertire familiari e amici.
In realtà, le diceva Cassandra, in quegli scritti era stata piuttosto perfida. Sotto la sua lente d’ingrandimento aveva messo a nudo con impietosa crudeltà la meschinità, la falsità e l’inconsistenza della società che la circondava, descrivendone le amicizie fittizie, i matrimoni di convenienza, l’amore che, anche quando c’era, si volatilizzava presto, la cattiveria e l’invidia. Pure la morte in quel contesto perdeva ogni sacralità, perché era troppa e troppo frequente. In quelle pagine così severe sia verso i vecchi che verso i giovani, Jane aveva urlato la sua ribellione.
“Dopo ti calmerai” le diceva la sorella “ vedrai che, in quello che verrà dopo, la tua ottica cambierà, accetterai di più la realtà o forse la modificherai per farla apparire meno crudele”.
Jane non poteva sapere allora quanto le parole di Cassandra sarebbero state profetiche.
Intanto, alcune di quelle pagine potevano diventare altrettanti doni, esclusivi e divertenti, ciascuna con tanto di dedica, alle persone a cui voleva bene; e infatti ora che si avvicinava il Natale, i rotolini di carta infiocchettati e decorati – dove la scrittura piena e inclinata del recto traspariva dal verso per la sottigliezza della carta – avrebbero abbellito il grande abete delle feste.
Soltanto per un paio di lavori di Juvenilia, Jane non aveva previsto la consueta destinazione, dato che potevano costituire le bozze di futuri romanzi: uno l’aveva provvisoriamente intitolato Edgard ed Emma, l’altro Amore e amicizia; su quest’ultimo in particolare aveva esercitato la sua fantasia facendone la parodia in forma epistolare di racconti romantici che aveva letto, e in cui tre ragazze, Laura, Isabel e Marianne, scrivendosi tra loro, si lasciavano andare alla scomposta rappresentazione dei loro sentimenti amorosi, dimenticando decoro e ragionevolezza. Un tema che la intrigava alquanto e sul quale sicuramente sarebbe tornata sopra.
Proprio mentre stava ultimando un pensiero, il primo in forma scritta della giornata, Cassandra la deconcentrò:
“Quest’anno si annunciano delle novità per Natale, sorella cara!” esclamò in tono malizioso
“Sarebbe?” rispose lei
“Sai quegli amici dei nostri genitori, ad Ashe? Il reverendo e sua moglie…”
“Certo!”
“Per le feste ospiteranno un loro nipote irlandese, studente di giurisprudenza! Sembra sia bello, biondo e pieno di virtù!”
“Davvero? Come l’hai saputo? E perché, se lo sapevi, non me l’hai detto prima, imponendomi il silenzio qui allo scrittoio?” chiese Jane con disappunto
“Volevo aspettare ancora, manca quasi un mese… l’ho saputo ieri dalla mia amica Charlotte… ma, sai come sono, non ce la faccio a tenermi i segreti… e te l’ho detto!” si giustificò Cassandra
“Meglio tardi che mai!” rispose piccata lei.
“Spero tanto che avremo occasione di frequentarlo… e saggiare la sua abilità nel ballo, oltre che nel resto! Se non io, almeno tu!”
“Perché dici così? Perché ti escludi?”
“Non ti ricordi che per me si avvicina il momento di mantenere la promessa fatta ai nostri amici di Kintbury di una visita almeno di una decina di giorni a casa loro, prima della fine dell’anno o l’inizio del nuovo?”
“Ma non puoi rimandare? Proprio quando si prospetta una novità interessante qui, tu sparisci!”
“Vedremo, sorella cara, è tutto prematuro, salvo forse cominciare i preparativi per la mia partenza… un po’ di tempo mi ci vuole!”
“Ecco, questo si chiama egoismo! Siamo qui, a dicembre già cominciato, sai quanto ci tengo a festeggiare il mio compleanno, il Natale, il Capodanno e tutto il resto… mi imponi di tranquillizzarmi, dicendo che è presto per tutto… cerco di accontentarti, controllandomi, mi concentro sulla scrittura, scrivo solo qualche rigo in un’ora… tu spezzi improvvisamente il silenzio con una novità non da poco… che naturalmente torna ad agitarmi… e, a questo punto, che mi dici? Che gestisca tutto da me, che devi andartene per non deludere amici di famiglia! Tiri il sasso e ritiri la mano… insomma, pensi più agli amici che a tua sorella!” proruppe Jane, spazientita, voltandosi per lanciarle meglio parole e sguardi di fuoco
“Mi sembra davvero che tu esageri, sorellina!” rispose Cassandra con tono addolcito, vedendo Jane tanto accalorata e nervosa “sai che facciamo, ora? Abbandoniamo penna e acquerelli e ci concediamo una passeggiata prima di pranzo, così ci calmiamo e ci chiariamo le idee… mi dispiace che tu l’abbia presa così… mi pento sinceramente d’aver aperto bocca!”.
La mamma, tutta coperta, era indaffarata come al solito in giardino, dietro ai suoi fiori; vedendole si meravigliò di quell’uscita:
“Adesso? E’ quasi ora di pranzo… non potete rimandare a dopo? Non vi allontanate! Vostro padre è quasi di ritorno e Betty in cucina si arrabbierà moltissimo se lasciate freddare la sua zuppa… ci ha lavorato tutta la mattina!”
“Tranquilla, mamma, stiamo qui vicino
À+!” le gridò Jane sistemandosi, come la sorella, il mantello sulle spalle e il cappello in testa.
Il freddo pungeva il viso nudo delle due ragazze, ma la campagna profumava di muschio e qua e là si mostravano già lungo il sentiero le bacche rosse del pungitopo.
Per un po’ non parlarono: ciascuna a suo modo voleva godersi la pace di quella breve passeggiata antimeridiana, tentando di far evaporare il malumore. L’umidità imperlava la staccionata e i nuvoloni grigi abbassavano il cielo, facendolo sembrare a portata di mano:
“Nevicherà?” chiese Jane speranzosa
“Non lo escludo: è il freddo giusto, né troppo né poco”
“Ne sarei felice! E’ vero che la neve porta lavoro… bisogna spalarla e quando si scioglie tutto è fangoso… gli orli delle gonne si inzaccherano e non si possono portare gli scarpini, ma è così bella quando cade e si posa silenziosa sulla strada, il tetto, i campi”
“E sui fiori di mamma, che corre a coprirli perché non gelino!” aggiunse ridendo Cassandra, spezzando l’incantesimo
“Ecco, mi togli la poesia, sorella, sei troppo pragmatica! Io invece rivendico il diritto di sognare una bella nevicata che crei un’atmosfera di fiaba”
“Va bene, va bene, piccola Jane, ti voglio troppo bene per contraddirti ancora, stamani… sembra proprio il dicembre di vent’anni fa, quando nascesti!”
“Come fai a ricordartene? Avevi solo due anni!”
“Mamma l’ha ripetuto così tante volte che mi sembra d’averlo vissuto personalmente… insieme all’altra leggenda”
“Quale?”
“Che sei nata un mese dopo!”
“Perché la chiami leggenda?”
“Mi sembra strano che tu abbia scelto di stare nel suo grembo dieci mesi invece che nove, come tutti noi fratelli! Si sarà sbagliata, povera donna, con tutte le gravidanze che ha avuto… avrà fatto male i conti!”
“Certo che il reverendo si è dato da fare!” commentò maliziosa Jane “e lei a sopportarne le conseguenze… come tutte le donne, poverette! E’ una condizione assolutamente ingiusta!”
“Quale?”
“Ma quella nostra, la condizione femminile, intendo!”
“Spiegati meglio!”
“Non abbiamo il diritto a ereditare beni immobili, che, alla morte di un padre, passano al primo imbecille maschio di famiglia che ti viene parente… non possiamo lavorare perché non è dignitoso, secondo la buona società, quindi dobbiamo per forza cercare un marito che ci mantenga e, se abbiamo un marito, dobbiamo fare figli uno dietro l’altro come mamma! Uffa! Io ho altro per la testa: voglio diventare una scrittrice di professione e mantenermi da me… senza dipendere da un marito, che probabilmente non me lo permetterebbe!”
“Jane, sottolinei tutti i lati negativi di un’unione! Ti sei proprio svegliata male stamani! Metti che ti innamori… in questo caso il matrimonio sarebbe il coronamento dei tuoi sogni e anche una sistemazione economica… non ti sembra?”
“Sì, non ti do torto… l’innamoramento mi attrae, penso che sia un’esperienza emotiva bellissima, d’altra parte, però, ho timore che mi assorba completamente e m’impedisca di fare quello a cui mi dedico con passione da dieci anni”
“Non sarà così sorellina! Troverai un bel ragazzo che saprà capirti e ti lascerà fare quello che vuoi e ti manterrà anche in una bellissima villa con venti persone di servizio, tre o quattro carrozze, inverno a Londra e estate nel Devonshire… e magari sarà proprio Tom Lefroy!”
“Chi?”
“Ma sì, il ragazzo irlandese di cui ti parlavo stamani e che ha scatenato tutta la discussione!”.
Mentre Jane stava per risponderle, si udì distintamente la voce della mamma che gridava il loro nome: senza accorgersene, si erano spinte ben oltre la proprietà Austen e adesso sicuramente la zuppa di Betty si stava raffreddando, con gran disappunto di tutta la famiglia. Allora, prendendosi per mano si misero a correre verso casa, ridendo: l’aria fredda aveva arrossato le loro guance e spettinato i capelli rendendole più belle di sempre.
“Mamma mia che lavata di capo ci toccherà!” si lamentò Cassandra
“Dai, facciamo squadra… pace fatta vero?” chiese allegra Jane. Quel contrattempo l’aveva messa di buonumore, fugando i dissapori della mattina.
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