Titolo | La Madrina | ||
Autore | Cesare Mastroianni | ||
Genere | Narrativa - Giallo, Noir, Poliziesco | ||
Pubblicata il | 28/04/2023 | ||
Visite | 111 | ||
Editore | Liberodiscrivere | ||
Collana | Spazioautori N. 3833 | ||
ISBN | 9788893393119 | ||
Pagine | 314 | ||
Prezzo Libro | 18,00 € | ![]() |
ISBN EBook | 9788893393126 |
Il Male si propaga inesorabile, lambendo a raggiera tutto ciò che lo circonda.
Il Male si accresce come un buco nero cosmico, inghiotte ogni forma di luce e di energia.
Il Male dilaga come il petrolio che è scaturito dal ventre della “Haven” affondata davanti alla costa ligure.
C’è stato un delitto, c’è una vittima, ma non è detto che debba esserci un colpevole...
Lunedì 24 Giugno 1991
Non resta più molto da aggiungere, quassù, sorvolando il Long Island Sound sulla rotta rituale verso Miami. Accoccolata nelle accoglienti poltrone della prima classe del Boeing 747, il mio ambiente ideale, da sempre. Galleggio come nel liquido amniotico. Dispiace che tra poco più di un’ora, o forse meno, tutto questo finirà.
Ho ancora fitta nella mente l’immagine dell’avvocato Kasturian, il suo sguardo vitreo, l’afflato di morte che emanava dal cadavere. Non è certo per la sua dipartita che sono qui, così, ora: chissenefrega di quel bastardo. Poteva anche andargli peggio e nessuno lo avrebbe comunque rimpianto.
Ma pensare a Joy, quello no, non lo reggo, non ci riesco.
“Comandante, ti prego, vola più in alto, raggiungi il Cielo, delicatamente.”
Tutto sommato, sto finendo di scrivere queste pagine con una certa soddisfazione, non so se mi spiego. Quando l’opera finisce, in fondo, tutto finisce. Cosa c’è di più conclusivo di questo? Ma la mia soddisfazione – per così dire – va oltre il senso del compiuto.
«Desidera qualcosa da bere, signora? Un caffè, un tè, una bibita?»
Questa hostess mi è simpatica, decisamente affabile. Non sembra americana: già prima mi ero chiesta quale potesse essere la sua storia. Ha dolci labbra carnose e la pelle d’ambra, occhi grandi e neri e sopracciglia folte. L’accento è decisamente yankee ma secondo me arriva da qualche isola caraibica, forse Cuba, o forse addirittura il Venezuela. Anni fa, a Brickell, il cuore finanziario di Miami, abitavo accanto ad una famiglia Venezuelana, ricchissima. Lui era un broker assicurativo e trattava faccia a faccia, anzi direi a brutto muso, con tutte le compagnie di navigazione per le polizze di una gran quantità di merce in arrivo al porto: incassava milioni, così tanti che nemmeno lui sapeva esattamente quanto guadagnasse. E lei, per non essere da meno, non sapeva più come spendere tutti quei soldi. La loro figlia maggiore mi ricorda questa Mary, il nome con cui si è presentata e che ho letto sul badge spillato al bavero della sgargiante divisa. Ma Mary non può essere cresciuta a Brickell. Il taglio di capelli, le unghie, il portamento, fa pensare a Little Havana: vita di strada, piccole botteghe colorate, tanti amici, e qualche pomiciata adolescenziale nei vicoli nelle umide sere d’estate. Mi è sempre piaciuto romanzare sui volti, sui gesti, sulle frasi di circostanza. Ma non ho tempo per questa distrazione. Devo finire quel che ho iniziato.
«Sì, ancora un tè, con una bustina di miele, per favore.»
Sorrido automaticamente, con un’espressione robotica.
“Joy, ah Joy, dove sei? Comandante, vola più in alto, delicatamente.”
Durante i lunghi voli intercontinentali ho sempre apprezzato un buon libro, indossare i calzini da viaggio forniti dalla compagnia aerea – sui piedi nudi, evito i collant ogni volta possibile – e sorseggiare una calda tazza di tè di tanto in tanto. La cabina di prima classe mi incapsula in uno spazio-tempo letteralmente fuori dal mondo. Regolo il mio microclima, mi copro con il plaid, soffondo la luce, reclino lo schienale e allungo il supporto per le gambe, leggo, sonnecchio, sorseggio il mio tè e penso. Una bolla sospesa, l’ho già detto, il galleggiare nel liquido amniotico prima dell’atterraggio. Lasciare un luogo e rinascere in un altro, spostare le lancette dell’orologio in un’altra epoca. Magari fosse possibile, ma la macchina del tempo non esiste, il Secondo Principio della Termodinamica è inflessibile a tale riguardo.
Ecco, mi sto distraendo. Non posso tradire la mia determinazione. Devo restare concentrata sulle ultime cose da fare, sull’immagine di Kasturian e della pozza di sangue rappreso, sotto la nuca, incrostato volgarmente sull’elegante paiolato di teak.
“Bastardo!”
La mia mano stringe la tazza un po’ troppo con forza, ma qui in prima classe si usano le stoviglie di ceramica, non bruciano le dita, non si accartocciano, non cedono al mio moto di stizza.
Quando volavo in turistica, il tè era comunque un rito. Nulla di paragonabile con il piacere di tutti i sensi, tutti, vista, olfatto, tatto, udito e ovviamente il gusto, quel piacere sottile che avidamente cercavo nei freddi pomeriggi invernali in Germania: stucchi dorati, poltrone di velluto imbottito, tovaglie di pizzo sopra dolci coperte di raso, finissima porcellana di Sèvres, profumo di cannella, musica – ah la musica di quella caffetteria nell’Altstadt di Düsseldorf! – lo scalpiccio dei camerieri indaffarati e con i guanti bianchi, il cielo perlaceo e la condensa sulle vetrine. E il caldo del tè, quello vero, Hong Cha misto a miele d’acacia, il panorama dalla Rheinsturm, il fiume ampio e solenne, i mercantili carichi di carbone o rottami ferrosi, eppure snelli e veloci in favore di corrente ma affaticati in verso contrario… no, in turistica devi tenere il bicchiere di plastica letteralmente appeso a due dita, sfruttando quel piccolo bordo sporgente. Un rito, dunque, ma un rito minore, un anelito di riscatto.
Ancora distrazioni.
“Dannazione! Dov’è quel bastardo? Voglio vedere il suo grugno da sozzo maiale!”
In questo momento devo restare lucida. Non posso abbandonarmi, lasciarmi fluttuare in questa bolla sull’Oceano. Di questo passo, a oltre cinquecento miglia orarie, più di otto decimi della velocità del suono, l’atterraggio a Miami sarà in perfetto orario e io non posso farmi trovare impreparata, non è da me.
Il tempo è poco, devo finire, non c’è molto da aggiungere e comunque non c’è ancora molto da fare.
Un sorso di tè, un sorso ancora.
Martedì 11 Giugno 1991
Non è la prima volta che torno in Italia per lavoro. Si sa: chi si occupa di maxi yacht per conto terzi, e ha un certo successo – lo dico senza falsa modestia – visita regolarmente i cantieri navali in Europa. Lo stile, le tecnologie, l’esistenza di veri e propri distretti specialistici ti portano spesso in Olanda, in Francia e, soprattutto, in Italia.
Amo tornare in Italia, amo quella cucina, amo quell’atmosfera. Amo gli italiani.
«Signora, le preparo il set di Trussardi o quell’altro?»
Niente da fare. Anche se per tre anni ho cercato in tutti i modi di ampliare le vedute di Rosario, lei continua a non voler nemmeno provare a pronunciare correttamente ‘Yves Saint Laurent’. Questo non capita per la complessità del nome, no di certo. Rosario in realtà si chiama Carmelita Consuelo Rosario Garrido Ruiz. Quindi direi di no, non è il semplicissimo doppio cognome francese a inibirla. Penso piuttosto che sia il rifiuto di quella ‘au’ che diventa quasi una ‘o’ per lei di lingua ispanica, e poi la ‘r’ così arrotolata dei francesi, per finire nella ‘e’ che diventa praticamente una ‘a’. A dire il vero, è un problema di contrasto dei ghetti, per così dire. I creoli caraibici qui a Miami si scontrano tra loro; quelli francofoni tipicamente taxisti e facchini, contro quelli ispanofoni appunto domestici, cuochi e a volte addirittura maggiordomi. Il francese non le è congeniale.
A parte questo, Rosario soddisfa appieno le mie aspettative: discreta, puntuale, pulitissima, e ben organizzata. Tuttavia, proprio non si piega all’etichetta della moda. Ben venga la divisa, che le risolve ogni problema. Ma appena fuori di casa, addio, viaggia con toni sgargianti, fiorame ciclopico, nappe, fiocchi, orecchini che sembrano lampadari. E in questo contesto, gli stilisti francesi – per altro i miei preferiti – sono innominabili e innominati.
Così, il mio elegantissimo set di valigie di Yves Saint Laurent diventa ‘quell’altro’.
Vada per Trussardi.
«No, no, grazie Rosario, va bene Trussardi così non devi fare le scale due volte.»
«Va bene signora, prendo subito tutto. Le preparo il solito kit nella trousse?»
Organizzatissima, anzi, preveggente, come sempre, come la voglio io.
«Sì, certo e, per tutto il resto, ricorda che in Italia il clima è piuttosto imprevedibile».
Organizzatissima e pure veramente allineata con il mio gusto. Il suo personale corredo è carnevalesco, appariscente a ogni costo, chiassoso, e ne tradisce l’origine cubana: ma, nel preparare il mio bagaglio, tutto questo lo dimentica; molto diligentemente, riesce a sintonizzarsi su ciò che ho in mente, e senza mai scordare gli aspetti pratici.
«Sole, pioggia, il tepore della primavera – anzi quasi estate, e tanto vento, giusto?»
Infatti, aspetti pratici prima di tutto. Annuisco e indico vagamente l’anta dell’armadio stile impero, quello alla destra del baldacchino, appunto quello decisamente da viaggio. Ma poi mi fermo, torno sui miei passi e con l’altra mano faccio un carosello di fronte al guardaroba di sinistra, quello art déco.
«Sì, un po’ di questo, un po’ di quello… fai tu, mia cara.»
«Ah, è vero, scordavo la cerimonia. Come si veste la madrina?»
“Già. Come si veste la madrina?”
A questo non ho ancora pensato.
Un conto è girare per cantieri in tenuta da guerra. Intendo, si sa, un ambiente molto maschile, al limite del machismo, scarponi con la punta rinforzata, elmetti gialli, camici blu, maglioni stinti, torcia elettrica, magari pure una sbaffata di grasso per ingranaggi su una guancia, guancia ovviamente con la barba di tre giorni. E tu, ancheggiante con un tailleur? Naaa.
Le ispezioni sono teatro di guerra, non solo per l’abbigliamento tattico. A parte la barba di tre giorni, per il resto, mi fodero con quanto necessario alla bisogna, certamente senza maglioni stinti, ma ho un’ampia gamma di quella che Rosario chiama `la divisa da lavoro’ nell’armadio centrale, proprio di fronte al baldacchino, quello con le ante scorrevoli in stile Osaka. Non che il resto del mio abbigliamento non si possa definire anch’esso ‘da lavoro’, ma è di un altro genere di ‘lavoro’.
La guerra, dunque, la guerra nei cantieri. Sì, perché, io sono quella che arriva a rompere le scatole. Io lavoro per gli armatori, e vado lì per fracassare i genitali, a tutti indistintamente, ingegneri, comandanti, capimastri, appaltatori, subappaltatori, revisori contabili, fino alle segretarie e centraliniste. Tutti mi odiano in cantiere perché sono quella che dice “sì, ora si può pagare”. E l’armatore non scuce un nichelino se io non sorrido benevola.
Tra l’altro, sempre senza falsa modestia, so bene come mi hanno soprannominato le segretarie di certi cantieri nelle Marche, appunto in Italia: “quella che ce l’ha solo lei”. E tante grazie alla parità di genere. Cornacchie.
Per questo genere di scontro è necessaria la divisa giusta, e Rosario la conosce a menadito. Nell’armadio Osaka si trovano tutte marche da lupi di mare, Helly Hansen, North Sails, Musto, e perfino la genovesissima Slam. Da capo a piedi, cappelli, giacche, cerate antipioggia, pantaloni, scarpe.
Beh, a dire il vero, non avrei voluto allargare lo spettro dei marchi così tanto, se non fosse che è difficile restare fedele a un solo brand, allo stesso tempo coprire tutte le necessità tecniche della vita di cantiere e, sempre allo stesso tempo, preservare la femminilità del portamento, il mio naturale sex appeal. A vestire mono-marca finivo sempre per sentirmi ficcata in un sacco, mentre i miei fianchi, i miei glutei e il mio seno, tutta roba appunto mia e solo mia, fanno altrettanto parte dell’armamentario da guerra, e del più mortale. Poco alla volta ho dovuto comporre un corredo patchwork. Ma tant’è che funziona, come arma da guerra.
Da un lato la mimetica da battaglia, abbigliamento tattico come ho già detto. Dall’altro lato, le trasferte in giro per il mondo, di cantiere in cantiere, concedono anche spazio alla fantasia degli aperitivi, delle cene, e soprattutto dei dopocena. E anche questo è un teatro di lavoro, dove la tattica lascia il posto alla strategia, dove la battaglia non si gioca sulle flange delle pompe di sentina o sui transponder AIS, ma sulle clausole del prossimo contratto milionario.
E Rosario ne sa qualcosa.
«Signora? La vedo dubbiosa.»
Il Male si propaga inesorabile, lambendo a raggiera tutto ciò che lo circonda.
Il Male si accresce come un buco nero cosmico, inghiotte ogni forma di luce e di energia.
Il Male dilaga come il petrolio che è scaturito dal ventre della “Haven” affondata davanti alla costa ligure.
C’è stato un delitto, c’è una vittima, ma non è detto che debba esserci un colpevole...
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