Titolo | Prefazione a “La cara memoria” di G. Palmieri, ed. Persephone | ||
Autore | M. Gisella Catuogno | ||
Genere | Narrativa - Memoria del Territorio | ||
Pubblicata il | 04/07/2023 | ||
Visite | 253 |
“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne/confortate di pianto è forse il sonno/della morte men duro?/” esordisce Ugo Foscolo nella sua ode “Dei Sepolcri”, con una domanda chiaramente retorica, la cui risposta è data poco dopo: “qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso/che distingua le mie dalle infinite/ossa che in terra e in mar semina morte?/”, come a dire che di fronte alla prospettiva di non godere più della luce del sole, della dolcezza dell’amore, della poesia e di un futuro vago di lusinghe, che valore può avere una lapide che ricordi il mio nome e distingua i miei resti da quelli altrui? Dunque neppure una tomba lacrimata e ombreggiata può consolare della perdita della vita! Eppure, una manciata di righe oltre, con un “Ma” fortemente avversativo, a inizio verso, il pensiero è completamente rovesciato: ma per quale motivo l’uomo dovrebbe privarsi dell’illusione di continuare a vivere anche dopo la morte, se può suscitare il suo ricordo nella mente di chi l’ha amato attraverso una lapide che “conservi il suo nome”? E’ presso di lei che continua il dialogo tra chi resta e chi va, quella sintonia che il Poeta esprime con alcuni dei versi più belli della letteratura italiana: “Celeste è questa/corrispondenza d’amorosi sensi,/celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l’amico estinto/e l’estinto con noi./”. Dunque, il feeling tra vivi e morti, definito dono divino, avviene attraverso la tomba, che perpetua la memoria, esalta la soggettività, combatte l’oltraggio del tempo e l’oblio, oltre che ispirare amor di patria e coraggio di combattere contro l’oppressione.
Non so se Giampiero Palmieri, accingendosi al presente lavoro, avesse in mente questi versi del Foscolo, a me molto cari, oppure l’”Elegia scritta in un cimitero campestre” di Thomas Gray o, per parlare di epoche meno lontane, l’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, con tutte le sollecitazioni, anche musicali, che ha prodotto – per esempio in Fabrizio de André –.
Leggendo le sue pagine, il mio pensiero è andato anche a tali testi, oltre che ai due principali movimenti letterari dell’Ottocento e del Novecento, il Romanticismo e il Decadentismo, che delle tematiche relative a eros e tanatos, amore e morte, fecero i loro “cavalli di battaglia”.
Dunque una prospettiva non inedita, ma comunque controcorrente, quella operata dall’autore di “Cara memoria” di offrirci storie di vite vissute partendo dalla sollecitazione del loro ultimo viaggio o dalla loro consapevole scelta della dimora definitiva, in una società in cui si tende a rimuovere il tema mortuario per il velleitario mito dell’eterna giovinezza, pur essendo quotidianamente immersi in una realtà di segno opposto, contrassegnata in questi anni da un’epidemia devastante, da un numero spaventoso di guerre locali, da un conflitto nel cuore dell’Europa che ha già ucciso molte migliaia di persone, nonché da cataclismi “naturali”, come il recente terremoto in Turchia e Siria e la minaccia di cambiamenti climatici apocalittici.
Giampiero Palmieri, nell’Introduzione, auspica che il cimitero divenga “il centro diffuso di siti della memoria” considerando che la cultura della cremazione si sta sempre più diffondendo: è un auspicio a cui mi associo volentieri, perché, senza il tessuto connettivo del ricordo, che tramanda di generazione in generazione esperienze, valori, sentimenti e progetti di chi ci ha preceduto, non è possibile un’esistenza consapevole, degna di essere vissuta, in cui ogni singola tessera individuale contribuisce alla composizione del grande mosaico collettivo, frutto del passato e premessa per il futuro. La catena della storia umana deve dipanarsi senza soluzione di continuità, attingendo alla memoria come legame fra un anello e l’altro.
L’autore, legato alla sua Isola, come “l’ostrica allo scoglio”, avrebbe detto Giovanni Verga, ad essa ha riservato molto studio, lettura e scrittura. In particolare, per l’attuale lavoro, che segue quello dedicato al padre, Mario Palmieri, la documentazione è certosina. Oltre alle visite ai “camposanti” – mia nonna Giuseppina li chiamava così, con questo bel nome – ha consultato per ogni storia trattata archivi, pubblicazioni, siti. Si tratta di ventiquattro racconti relativi alle tre parti in cui l’autore, per comodità, suddivide l’Elba: est, centro, ovest.
Si parte con un luogo a me molto caro e il più visibile in assoluto tra quelli considerati: la Cappella Tonietti, sul Colle del Lentisco, al Cavo, il mausoleo a forma di faro ed opera del Coppedè, della famiglia più potente all’epoca del versante orientale; di essa si racconta la storia dell’orgoglio punito ma anche del vergognoso abbandono in cui è lasciata.
L’itinerario continua con il racconto della sepoltura misteriosa di un amico intimo di Napoleone, per poi sostare presso il Cimitero Evangelico delle Perelle, a Rio Marina, quando i Valdesi lo ebbero, finalmente, e che ospita, fra gli altri, le vittime del “ barque Scindian” londinese, che si schiantò sugli scogli della Ripa Bianca nel novembre del 1880. Ma accoglie anche la sepoltura del maggiore inglese “Senior Civil Affairs Officer” dell’Allied Military Government dell’Elba, Charles Plowman Murchie, che aveva partecipato allo sbarco, si era distinto per valore militare ma anche per umanità, meritandosi la stima della popolazione. A Rio Marina trovò anche l’amore della sua vita in una ragazza gentile e colta, Rina Muti, che è stata, tra l’altro, nella scuola media di Rio Marina, la mia indimenticabile insegnante di francese.
Sempre nel versante orientale, nell’antico cimitero di Rio Elba, di cui qualcuno ha scritto che ha la forma a ferro di cavallo e che Paul Klee ha disegnato, insieme al resto del paese, l’attenzione dell’autore è attratta dalla lapide e dalla vicende terrena di Hervé Guibert, intellettuale francese amico di Hans Berger, artista tedesco che ha ridato nuova vita all’Eremo di S. Caterina, il quale, proprio in quel luogo, nel giardino di fronte al mare, sotto un lentisco, voleva essere seppellito; poco lontano riposa Emilio Agostini, il poeta farmacista, mentre il suo omologo, Bartolommeo Sestini, anche lui uomo di scienza e di lettere, ha trovato pace nel paese d’adozione, Capoliveri; la stessa destinazione elbana, questa volta nel cimitero “marino” di Porto Azzurro, “in un’estate ardente”, a soli cinquantasei anni, ha avuto Patricia Brinton, cantante lirica americana innamorata dello Scoglio.
Nella “morgue” dello stesso cimitero trovarono anche posto, nel 1954, i corpi di quindici passeggeri del volo Boac 78, che si era fermato qualche giorno prima, come il cuore di chi aveva a bordo, tra Punta Calamita e Montecristo. Il tempo era perfetto: il libro ci racconta come poté accadere tale disgrazia.
Quando l’attenzione dell’autore, si sposta al centro dell’Isola, veniamo a conoscenza di un cenacolo di artisti stranieri, di cui faceva parte la stessa Brinton, che si ritrovavano negli anni Sessanta, a Villa Radamsky, a Santo Stefano alle Trane, dove il padrone di casa, Sergej “tenore perseguitato” e la moglie Mary Chapman, pianista, deliziavano i loro ospiti con concerti che presto coinvolsero la società isolana più sensibile alla musica. Alla morte del tenore, il Corriere Elbano definì Sergej “sincero amico dell’Elba”.
Ai due cimiteri portoferraiesi dei Bianchi e dei Neri, sono dedicate molte pagine, anche perché nella tomba monumentale del secondo, opera dell’architetto Coppedè, si trovano i resti di Oreste del Buono, importante e originale intellettuale, che sulla sua lapide avrebbe voluto che fosse scritto “Però mi sono divertito”; simile senso dell’umorismo possedeva forse Giulio Caprilli, poeta, scrittore, figlio illustre ma misconosciuto di questa terra, amico e compagno di scuola di Manrico Murzi, ribelle per sensibilità e senso di giustizia, dalla vita breve – morì a trentadue anni – e tribolata. Nemmeno qui c’è traccia dell’epitaffio “ironico e malinconico” che avrebbe voluto sulla sua tomba nel cimitero dei Bianchi e che l’autore ci svela. Come sottolinea lo sguardo “dall’espressione semplice e austera”, del busto ottocentesco di Teresa Brogi; lo sguardo, continua l’autore, “di chi ha visto la Portoferraio che si ritrova in certe fotografie scattate da Giorgio Roster o in certi dipinti di Telemaco Signorini. Teresa Brogi non ha potuto vedere le terribili, oscene trasformazioni della città nel secolo successivo. Non ha visto il fumo e il ferro degli altiforni, le rovine dei bombardamenti, gli scempi dell’edilizia”.
Non manca, nella rievocazione di tante vite, quella della nonna di Giampiero, Pierina Casanova Stua, ospite della sorella a Longarone proprio nel maledetto giorno in cui una frana fece tracimare le acque del bacino del Vajont, che inondarono il fondovalle e distrussero la cittadina; né è trascurata la menzione di Dona Ester da Pisa, accolta nel Cimitero Israelitico, che esisteva di fronte alla spiaggia delle Ghiaie, e di cui si ricostruisce la singolare storia. Bellissima la scritta sulla lapide che suonava così: “ Sia la sua anima legata al fascio della vita”.
Un particolare omaggio l’autore lo dedica poi al bisnonno Sabatino Alfredo Palmieri, soprannominato Napoleone, ma che, meglio dell’empereur, ha saputo vivere e fatto vivere, mantenendo con il lavoro la sua numerosa famiglia.
Nel Campese, il pellegrinaggio ai luoghi della memoria non può prescindere dalle vicende belliche che l’hanno coinvolta, anzitutto lo sbarco alleato con l’Operazione Brassard: ritrovamento, molto tempo dopo, del corpo di un sergente francese morto a ventotto anni, di cui è stata possibile l’identificazione grazie al numero della piastrina; rievocazione degli odiosi stupri di guerra e tentativo, infine riuscito, del coinvolgimento, nella commemorazione degli eventi, della comunità senegalese in Italia.
Un giusto spazio l’autore ha dedicato anche alle storie legate al carcere e al relativo cimitero di Pianosa: dall’uccisione di cinque detenuti e il pestaggio di sedici nel tragico settembre ’43 per il timore di una rivolta, all’eccidio, un mese dopo, di altri quattordici, “i dannati del Priamar”, come li chiama G. Vanagolli, sulla spiaggia di Procchio, dove nulla ricorda il tragico assassinio, fino ai partigiani jugoslavi fucilati dai tedeschi.
Per quanto riguarda il versante occidentale, un ricordo ben articolato è dedicato alle vittime dell’aereo dell’Itavia, che si schiantò nell’ottobre del 1960 sul Monte Capanne, e il cui ritrovamento fu molto difficoltoso data l’impervietà dei luoghi. Nove bare vennero benedette nella chiesa di Marciana e oggi un “Museo dell’ultimo volo” e un monumento sul luogo del disastro, costruito con un pezzo della carlinga e una croce di ferro, opera di S. Ferruzzi e A. Vecchio, ha finalmente interrotto “l’assordante silenzio” sul tragico evento.
Sempre a Marciana, il cimitero ospita le spoglie di Giusto Bruno Lupi, che omaggiando il suo primo nome, scelse coraggiosamente di andarsene dal paese natio “all’alba di un giorno grigio” per combattere con i partigiani delle Langhe. Morì a ventitré anni, ucciso dai tedeschi, fu pianto da migliaia di persone e seppellito lassù, fino ad un giorno d’agosto del ’45, quando venne riconsegnato al suo Scoglio.
Poco lontano riposa anche Gaspare Barbiellini Amidei, l’intellettuale per il quale l’Elba era una “patria strana, completa”.
Scendendo a Marciana Marina, è ricostruita con ricchezza di particolari la storia di Raffaello Brignetti, giornalista e scrittore a cui il mare scorreva nelle vene, essendo nato all’Isola del Giglio, avendo avuto il padre farista e possedendo nel suo paese d’elezione la Torre sul molo, dalla famiglia adibita ad abitazione: quello fu il suo “buen retiro” anche nel difficile periodo che seguì il tragico incidente stradale che lo paralizzò. Brignetti, a cui è dedicato il Premio Letterario Isola d’Elba, denunciava costantemente le brutture a cui una speculazione edilizia selvaggia e una “valorizzazione” che per lui era svendita, aveva condannato la sua/nostra terra. Confessando, per questo, nella lettera all’amico Luigi De Pasquali di amarla meno di prima “per l’inquinamento che appesta gli animi”.
Concludendo, la lettura di “Cara memoria”, come ha coinvolto me, penso possa davvero interessare e coinvolgere gli altri lettori: per la scorrevolezza e la piacevolezza dello stile, mai retorico o banale, per il rigore della documentazione, per la presenza di molte immagini, ma soprattutto perché si tratta di un caleidoscopio di storie, alcune conosciute, altre, almeno per me, nuove, che arricchiscono la conoscenza del territorio elbano e della gente, umile o famosa, che l’ha abitato e che ha guardato lo stesso profilo dei monti che anche noi guardiamo e forse ha avvertito l’Isola, come ci capita, a seconda delle circostanze e dello stato d’animo, Eden o prigione, croce o delizia.
Tali racconti, proprio perché partono dall’ultima dimora, aggiungono vita alla vita e quindi sono degni non solo di essere letti, ma anche meditati.
Maria Gisella Catuogno
Non ci sono commenti presenti.